Verso l’attuazione dell’articolo 46 Cost. Appunti di un dibattito in seno alla Assemblea costituente che torna attuale
| di Sara Zuccoli
Bollettino ADAPT 5 maggio 2025, n. 17
La proposta di legge popolare in materia di partecipazione promossa dalla CISL, approvata dalla Camera dei deputati lo scorso 26 febbraio 2025 e ora alle battute finali in Senato, mira a dare attuazione all’articolo 46 Cost. rimasto finora inattuato.
La proposta di legge diventa così l’occasione per ricostruire il dibattito che si svolse in Assemblea costituente in merito a quell’articolo.
In questo contributo si vuole analizzare dapprima la sua formulazione iniziale, inserita nel progetto di Costituzione del 1946, e poi le discussioni dell’anno successivo che portarono alla versione definitiva, con l’obbiettivo di comprendere quali istanze abbiano trovato effettivo spazio nel testo costituzionale e quali, invece, siano state accantonate o rimandate alla legislazione ordinaria.
Nella formulazione inserita nel progetto di Costituzione del 1946 l’articolo recitava: “Lo Stato assicura il diritto dei lavoratori a partecipare alla gestione delle aziende ove prestano la loro opera. La legge stabilisce i modi e i limiti di applicazione del diritto”
Si può facilmente osservare come in questa prima versione si adottò una formula aperta che stabiliva il diritto partecipare ma senza specificare la natura o portata di questa partecipazione (se consultiva o deliberativa), affidando tale compito alla legge. Uno dei punti più discussi in Assemblea fu proprio il livello di dettagliato da inserire nel testo costituzionale, il problema era capire se si dovesse solo enunciare un principio generale o anche definire in modo più dettagliato forme specifiche di partecipazione.
La formulazione aperta, fortemente sostenuta dal presidente Ghidini (esponente del Partito Socialista Italiano) e altri costituenti, rappresentò una soluzione di compromesso a fronte di visioni profondamente diverse su quella che dovesse essere la natura della partecipazione. Corbi (esponente Partito Comunista Italiano) era favorevole alla introduzione dei consigli di azienda, da lui considerati necessari tanto nel settore pubblico quanto in quello privato per garantire un controllo collettivo. Al contrario, altri costituenti come Dominedò (esponente Partito Democratico Italiano), temevano che un coinvolgimento troppo incisivo dei lavoratori avrebbe compromesso l’autonomia dell’imprenditore. Corbi spingeva per un ruolo attivo dei lavoratori nelle funzioni di direzione, mentre altri, come Dominedò e Togni (esponente della Democrazia Cristiana), preferivano un modello più moderato e consultivo.
L’articolo 46 evitò appositamente qualsiasi riferimento agli utili, alla proprietà e ai consigli di gestione. Le opinioni in merito furono profondamente contrastanti.
Teresa Noce (esponente del Partito Comunista Italiano), temeva che la partecipazione al capitale e agli utili avrebbe creato ‘aristocrazie operaie’ e snaturato la funzione dei lavoratori. Per questo motivo sostenne la creazione di consigli di gestione con funzioni consultive, orientati al bene collettivo. Fanfani (esponente della Democrazia Cristiana) non condivideva la visione di Noce secondo cui la partecipazione avrebbe potuto trasformarsi in uno strumento di manipolazione che avrebbe avvicinato i lavoratori agli interessi dell’impresa, allontanandoli da quelli della classe operaia.
Per Fanfani, la partecipazione avrebbe permesso di costruire una gestione collettiva dell’impresa e proponeva un controllo sociale diretto, in cui i lavoratori avrebbe potuto esercitare poteri deliberativi nei consigli di amministrazione. Fanfani propose nella seduta del 15 ottobre 1946 infatti una bozza di articolo costituzionale molto ampia, in cui la Repubblica avrebbe promosso la partecipazione dei lavoratori alla gestione, alla proprietà e agli utili, ma anche strumenti come il controllo contabile pubblico, la leva fiscale e persino la socializzazione di imprese in crisi. Tuttavia, riconoscendo che molte di queste proposte erano già coperte da altri articoli discussi dalla Commissione, si dichiarò disponibile a rinunciare a parte del testo. L’impostazione innovativa di Fanfani restò così sullo sfondo e non si tradusse in vincoli costituzionali.
Altro nodo irrisolto fu quello della responsabilità giuridica dei lavoratori nelle decisioni d’impresa, non fu dunque un caso che l’articolo non vi facesse alcun cenno, confermando il carattere astratto e compromissorio della norma. Secondo Togni (DC), la responsabilità doveva essere morale, sociale e poi eventualmente giuridica, e poteva crescere nel tempo con forme di azionariato operaio. Marinaro (esponente del Blocco Nazionale della Libertà) e altri ponevano invece il problema della responsabilità giuridica in caso di fallimento che Togni invece respinge se i lavoratori non sono anche proprietari.
Un’altra proposta che fu oggetto di discussione riguardava la possibilità di partecipazione dei lavoratori attraverso il sindacato. Togliatti (esponente del Partito Comunista Italiano) espresse forti perplessità sul punto riportando la prospettiva marxista secondo cui il sindacato non deve diventare parte della gestione dell’impresa, perché la sua funzione è quella di essere uno strumento di lotta per i diritti dei lavoratori, non di collaborazione diretta con l’imprenditore. Attribuirgli un ruolo gestionale avrebbe significato snaturarne la funzione originaria.
Il testo definitivo dell’articolo che fu approvato dall’Assemblea costituente il 20 dicembre 1947 (attualmente ancora vigente) recitava: Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende.
Questa formulazione, ancora volutamente generica e aperta, fu l’esito dell’ulteriore dibattito che si sviluppò in Assemblea costituente tra i mesi di marzo e maggio del 1947, durante l’esame dell’articolo 43 Cost (oggi art 46) così come formulato nel progetto di Costituzione.
Nella seduta del 5 marzo 1947 e nelle discussioni seguenti, come nel precedente dibattito, si confrontarono opinioni divergenti sul tema della partecipazione dei lavoratori e dei diritti sociali. Tupini (esponente della Democrazia Cristiana) sostenne il valore della partecipazione e della cooperazione dei lavoratori come strumento per affermare una nuova civiltà incentrata sulla dignità del lavoro. Laconi (esponente del Partito Comunista Italiano) sottolineò che i diritti sociali, in particolare quelli legati al lavoro, dovevano essere considerati come impegni politici concreti da realizzarsi anche tramite strumenti come i Consigli di gestione e la nazionalizzazione dei monopoli.
In questa direzione si mosse anche Malvestiti (esponente della Democrazia Cristiana) che richiese una partecipazione non solo consultiva ma anche gestionale, con un coinvolgimento diretto dei lavoratori nella guida dei settori strategici. Più radicali furono le posizioni di Montagnana (esponente Partito Comunista Italiano), Cairo (esponente Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria) e Togliatti (PCI) che immaginavano una trasformazione strutturale dell’impresa e proponevano strumenti di democrazia come i Consigli di azienda che garantissero un controllo diretto dei lavoratori sulla produzione. La Pira (esponente Democrazia Cristiana), in particolare, avanzò l’idea dell’impresa come “comunità di lavoro”, in cui la proprietà privata avrebbe assunto una funzione collettiva e i lavoratori avrebbero partecipato al destino dell’azienda.
Tuttavia, la linea più conservatrice, rappresentata da figure come Maffioli (esponente Fronte Liberale Democratico dell’Uomo) denunciò i rischi di una gestione collettiva che avrebbe potuto determinare la perdita di efficienza economica.
Non mancarono soluzioni moderate come quelle di Colitto (Fronte Liberale Democratico dell’Uomo) e Romano (Partito Socialista Italiano) che riconoscevano la partecipazione dei lavoratori ma limitandola a fini produttivi senza dunque compromettere l’efficienza produttiva ed escludendo ogni influenza decisionale dei lavoratori sulla gestione aziendale.
A mano a mano che si proseguì nelle sedute, emerse ancora più chiaramente il tentativo di mediare tra due visioni contrastanti, da un lato, la volontà di chi voleva costruire una democrazia economica che coinvolgesse attivamente i lavoratori, dall’altro chi voleva preservare l’efficienza produttiva e la libertà economica.
Questo lungo confronto portò ad una soluzione di compromesso. L’articolo 46, così come approvato, recepì l’idea della partecipazione dei lavoratori ma di fatto mantenne il rinvio alla legge ordinaria come nella versione originaria. Rispetto alla versione precedente si può osservare come nel testo siano state inserite due istanze di notevole importanza: da un lato, la valorizzazione del lavoro come fondamento della Repubblica, con la finalità di garantire l’elevazione economica e sociale dei lavoratori; dall’altro, la necessità di armonizzare questo principio con le esigenze della produzione, rispondendo così alle preoccupazioni che fin dalle prime sedute erano state espresse dall’area più moderata dell’Assemblea. Tuttavia, gli elementi maggiormente discussi (anche nel dibattito dell’anno precedente) come i Consigli di gestione, la cogestione, la partecipazione agli utili non trovarono spazio.
Sul tema dei consigli di gestione si scontarono le posizioni opposte di Marina (esponente Partito Liberale Democratico dell’Uomo Qualunque) e Nobili (esponente Partito Socialista Italiano). Il primo si dichiarò contrario ad organi aziendali di questo tipo in cui i lavoratori partecipano alle decisioni, sostenendo che avrebbero creato disordine, rallentato la produzione e danneggiato l’autorità del dirigente d’azienda, ben potendo divenire strumenti politici da usare contro la produttività. Nobili, invece, si disse favorevole all’introduzione di consigli di gestione poiché avrebbero coinvolto l’operaio in modo attivo e consapevole, trasformando il lavoratore da “strumento cieco” a “partecipe intelligente” del processo produttivo.
La proposta di prevedere una qualche forma di partecipazione agli utili suscitò altrettante posizioni contrastanti. Camangi (esponente Partito Repubblicano Italiano) e Puoti (esponente Partito Liberale Democratico dell’Uomo Qualunque) si espressero a favore mentre Ghidini (PS) e Gronchi (esponente Democrazia Cristiana) si dissero contrari. Ghidini disse che questo tipo di scelta sarebbe dovuto spettare alla legge, mentre, Gronchi voleva mantenere l’articolo come “principio generale”, evitando formulazioni troppo specifiche. Einaudi si oppose ancora più duramente, dicendo che se si fossero dati agli operai una parte degli utili si sarebbe corso il rischio di renderli complici degli imprenditori e di danneggiare la collettività.
Quello che si può inoltre notare attraverso un rapido confronto tra il testo definitivo e quello provvisorio è l’introduzione di espressioni più caute come “diritto di collaborare” anziché “partecipare” e “nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge”. Questa scelta linguistica fu volta ad evitare un irrigidimento costituzionale su un modello economico preciso, lasciando al legislatore ordinario il compito di definire in concreto i meccanismi di partecipazione.
A proporre questa nuova formula basata sul concetto di collaborazione fu Gronchi (DC) che sottolineò come il lavoratore dovesse essere elevato da semplice strumento a collaboratore della produzione. Tuttavia, avvertì che tale cambiamento dovesse avvenire con una certa gradualità, un coinvolgimento immediato avrebbe potuto creare instabilità pertanto sottolineò l’importanza salvaguardare l’unità di comando nelle aziende, cioè la figura del dirigente, per evitare disordine.
In conclusione, l’articolo 46 riconosce un diritto che è coerente con l’impianto solidaristico della Carta ma non ne garantisce l’attuazione concreta, subordinandolo di fatto interamente alla futura volontà legislativa. Volontà che pare oramai prossima a una traduzione in legge dell’esito di questo storico dibattitto sul riconoscimento costituzionale della partecipazione dei lavoratori.
Sara Zuccoli
Apprendista di ricerca – Scuola di alta formazione di ADAPT
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