Una legge non risolve il problema della crescita del lavoro povero*

ADAPT – Scuola di alta formazione sulle relazioni industriali e di lavoro

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Bollettino ADAPT 10 luglio 2023 n. 26
 
Dopo qualche mese di silenzio torna ad animarsi il dibattito avviato ben dieci anni fa, ai tempi delle deleghe del Jobs Act di Matteo Renzi che ne prevedeva l’introduzione, su una legge dello Stato di fissazione dei minimi retributivi. Compito che il nostro Paese, diversamente da altri, ha sempre affidato ai sistemi di contrattazione collettiva. L’occasione è la proposta di legge condivisa da tutte le opposizioni (esclusa Italia Viva) che prevede un salario minimo a 9 euro lordi l’ora comprensivo, e non è un dettaglio marginale, di tutte le voci della retribuzione. Il tema è tra i più ostici quando si parla di lavoro nel nostro Paese perché combina una grande facilità di narrazione con una enorme complessità tecnica. Infatti, in una situazione nella quale l’urgenza della questione salariale è sotto gli occhi di tutti, e non solo a causa della recente spirale inflazionistica, immaginare una soluzione apparentemente semplice, come quella di un minimo stabilito per legge parrebbe incontestabile. E infatti è sempre più difficile riuscire a dialogare veramente sul tema. Ma occorre anche il coraggio di dire, sapendo appunto di rischiare di essere facilmente tacciati di benaltrismo o, peggio, di voler mantenere i lavoratori poveri in una situazione di difficoltà, che il salario minimo così come immaginato non risolverebbe la maggior parte dei problemi e, anzi, ne genererebbe di nuovi.
 
Il primo nodo da affrontare riguarda le principali cause del lavoro povero in Italia che risiedono in una serie di disfunzioni del mercato del lavoro: part time involontario superiore al 60% del totale, tirocini extra-curricolari più che raddoppiati nell’ultimo decennio, oltre tre milioni di lavoratori in nero, differenziali retributivi elevati tra occupati con contratto a termine e con contratto a tempo indeterminato, false partite iva, gap salariale tra uomini e donne. A questi si sommano condizioni critiche di una buona parte della struttura imprenditoriale italiana caratterizzata da piccole imprese, forte presenza di servizi a basso valore aggiunto, scarsa propensione all’innovazione in molti settori. Elementi che il salario minimo non toccherebbe in alcun modo. Ma c’è un secondo elemento da considerare che si pone a un livello ancor più critico, a nostro parere. Il fatto che l’autonomia collettiva si auto-regoli, mediante i sistemi di relazioni industriali e lo strumento della contrattazione collettiva è qualcosa che va ampiamente oltre la definizione di un salario. Si tratta di uno strumento di regolazione di numerosi altri elementi, che spesso portano con sé un valore economico ma anche organizzativo e di tutela aggiuntiva rispetto a quanto la norma di legge definisce.
 
Correre il rischio che un numero importante di imprese, probabilmente quelle più in difficoltà e con comportamenti già al limite, possano sentirsi legittimate da un salario minimo statale a non applicare più la contrattazione collettiva e magari ridurre i salari per i neoassunti, non pare ragionevole. Tanto più che, mentre quando parla di 9 euro si pensa subito a un salario netto, le simulazioni sui contratti collettivi anche della quasi totalità dei settori deboli stanno a indicare che la contrattazione già raggiunge e supera questa cifra se intesa come trattamento lordo omnicomprensivo. Se è così però la responsabilità oggi è tutta nelle mani del sistema della rappresentanza sindacale e datoriale, che ha l’onere sia di mostrare questi rischi e le vere cause del lavoro povero in Italia, ma anche e soprattutto di intervenire nelle cose che non vanno all’inferno dei loro stessi sistemi. A partire dall’impegno a rinnovare contratti scaduti ormai da anni che lasciano i lavoratori nella morsa dell’inflazione, dall’ampliamento degli spazi di rappresentanza di settori dove l’illegalità dilaga, fino all’individuare sistemi di auto-regolazione che mettano davvero al bando la contrattazione collettiva non rappresentativa, troppo spesso coccolata anche dalla politica.
 
Senza tutto questo il mondo della rappresentanza è destinato, prima o poi, ad essere sommerso dalla narrazione semplicistica di cui abbiamo parlato. La sfida principale resta comunque quella di garantire a tutti i lavoratori una esistenza libera e dignitosa, pensare di far questo individuando una cifra per tutti sembra una scorciatoia (e una illusione) che non potrà che portare a nuove delusioni.
 
Francesco Seghezzi
Presidente Fondazione ADAPT

Scuola di alta formazione in Transizioni occupazionali e relazioni di lavoro

@francescoseghezz
 
Michele Tiraboschi

Università di Modena e Reggio Emilia

Coordinatore scientifico ADAPT

@MicheTiraboschi
 
*pubblicato anche su Avvenire, 4 luglio 2023

Una legge non risolve il problema della crescita del lavoro povero*