Compendio del catechismo sul salario minimo. Domande e risposte (semplici) sulla religione laica tornata alla ribalta nell’ultima settimana*

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Bollettino ADAPT 10 luglio 2023, n. 26
 
In materia di lavoro, pochi argomenti come il salario minimo sono in grado di polarizzare il dibattito tra fideismo cieco e rigida opposizione. Non è certamente la prima volta che il tema finisce sotto i riflettori, eppure, anche oggi, dopo la presentazione di un disegno di legge unitario delle opposizioni (eccetto Italia Viva) che individua una soglia retributiva inderogabile (pari a 9 euro a lordi), il duello si è riacceso. Da una parte, la sinistra parlamentare, il Movimento 5 Stelle, i calendiani, CGIL e UIL; dall’altra i partiti di maggioranza di Governo, la CISL, UGL, Confcommercio, le associazioni datoriali dell’artigianato e della cooperazione. Resta indecisa la Confindustria, incerta tra la riconferma della sua posizione storica (no) e l’utilizzo del dibattito per segnare la distanza tra sé e le altre datoriali in materia di tempistica dei rinnovi e importo medio dei contratti.
 
I numeri parlamentari non permetterebbero alcuna forzatura su un tema così delicato da parte della opposizione, tanto più che nel programma elettorale del centrodestra era già esplicitato quanto ricordato dalla Premier Meloni, ossia il “no” a qualsiasi intervento legislativo nelle materie di tradizionale competenza della contrattazione collettiva (salario minimo, appunto, ma anche regolazione della rappresentanza). Ciononostante, l’impressione è quella di un qualche cedimento tra le fila della maggioranza, in difficoltà innanzitutto culturalmente nel difendere una posizione che solo apparentemente risulta cinica e noncurante dei “lavoratori poveri”, ma che invero è più tutelante anche per chi è più debole nel mercato del lavoro. Di certo è un punto di vista che poco si presta alla iper-sintesi mediatica e per questo un breve ripasso delle ragioni che sostengono il “no” alla proposta di introduzione di un salario minimo legale può essere utile, rifacendosi, vista la sacralità, seppure laica, della materia, alla efficace e sintetica metodologia della “domanda-risposta” già utilizzata nel Catechismo di Pio X per spiegare ai bambini le evidenze e le verità della fede.
 
1) E’ vero che una direttiva europea dedicata al contrasto al lavoro povero obbliga l’Italia alla fissazione per legge di un salario minimo orario?

E’ falso! La direttiva europea 2022/2041 del 19 ottobre 2022, adottata anche in Italia, non contiene alcun obbligo a introdurre un salario minimo legale. Come indicato nella stessa direttiva (artt. 4 e 5), la garanzia di una retribuzione minima adeguata può essere realizzata sia per via legale sia per via contrattuale. E’ questa seconda la strada imboccata dal nostro Paese.
 
2) Per incoraggiare un migliore trattamento dei lavoratori, non è meglio intervenire per legge piuttosto che con tanti contratti collettivi?

E’ la stessa Unione Europea a chiarire che il salario minimo legale non è garanzia del riconoscimento di una retribuzione minima tutelante (“equa”, secondo l’articolo 36 della nostra Costituzione). I dati del 2020 (gli ultimi disponibili) dimostrano che solo in tre Paesi nell’Unione europea il livello del salario minimo legale è adeguato, intendendosi con questo termine pari almeno al 60% del salario lordo mediano o al 50% del salario medio del singolo Paese. Per la maggior parte degli Stati, il livello del salario minimo risulta troppo basso. Per questo, la stessa Direttiva ha evidenziato come la contrattazione collettiva sia «un fattore essenziale per conseguire una tutela garantita dai salari minimi»  perché «i paesi caratterizzati da un’elevata copertura della contrattazione collettiva tendono ad avere, rispetto agli altri paesi, una percentuale inferiore di lavoratori a basso salario, salari minimi più elevati rispetto al salario mediano, minori disuguaglianze salariali e salari più elevati». Per questo in Europa, al contrario di quel che si racconta in Italia, il salario minimo legale viene tendenzialmente adottato come soluzione secondaria rispetto all’opzione contrattuale, solo quando la contrattazione è debole.
 
3) In Italia la contrattazione è debole, perché non scegliere quindi la via legislativa?

Questa affermazione è assolutamente falsa: in Italia i contratti collettivi regolano il 98% o 99% dei rapporti di lavoro (a seconda che si utilizzino i dati Eurofound o ILO). Anche in Austria, Danimarca, Finlandia e Svezia la dinamica è la stessa: alta copertura contrattuale, nessun salario fissato per legge. Infatti, i Paesi in cui è presente un salario minimo legale, tranne poche eccezioni (Belgio, Francia e Spagna), hanno una copertura della contrattazione collettiva inferiore al 75% dei lavoratori.
 
4) Eppure la Germania, un Paese forte ed evoluto che è sempre preso ad esempio per l’Italia in ragione di una similare specializzazione industriale, ha deciso nel 2015 di introdurre il salario minimo, il cui valore è stato recentemente alzato a 12 euro lordi (2022). Perché non imitarli?

Il motivo della tanto citata adozione del salario minimo in Germania è da ricercarsi nel costante indebolimento della contrattazione collettiva, la cui copertura  è scesa di dieci punti (OECD) in circa 15 anni. La dinamica è ancora la stessa: debole contrattazione, intervento sostitutivo della legge. Inoltre sono tutt’altro che lineari gli effetti dell’introduzione del salario legale sulla produttività (che è scesa, di certo anche per rilevanti circostanze esterne), sui tassi di occupazione (stabili) e sul salario mediano (non alzatosi). E’ un argomento all’ordine del giorno degli accademici tedeschi.
 
5) Ma se non esiste un salario minimo fissato dalla legge, in Italia chi (e come) oggi decide se una retribuzione è equa?

La giurisprudenza, pacificamente, già riconosce come “equo compenso” (e quindi salario minimo che deve essere garantito) quello indicato dai contratti collettivi firmati da sigle datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative e perciò riconduce le imprese al rispetto di questa soglia. Questo utilizzo vincolante (per quanto da esigere in tribunale) del dato contrattuale fa propendere molti ricercatori di relazioni industriali a ritenere che la copertura dei contratti collettivi in Italia sia addirittura del 100%, perché questi finiscono per essere riferimento obbligatorio per tutti.
 
6) Eppure l’opposizione continua a ricordare che una delle principali cause del lavoro povero sia il crescente ricorso a contratti c.d. pirata. Come contrastarli?

Effettivamente tra le prime ragioni portate dalla CGIL per il SI’ al salario minimo vi è la necessità di contrastare la crescita dei contratti pirata (ossia i contratti sottoscritti da associazioni datoriali e sindacali non rappresentative, la cui stipulazione e adozione è giustificata esclusivamente dal contenimento del costo del lavoro). Il problema è reale, ma molto meno noto di come viene raccontato. In base ai dati provenienti dai flussi Uniemens, elaborati da INPS e CNEL, è possibile calcolare che al 97% dei lavoratori è attribuito un CCNL siglato da federazioni sindacali aderenti a CGIL, CISL, UIL (quindi non certo “pirata”), mentre al 3% dei lavoratori è applicato un CCNL firmato da altre organizzazioni sindacali (non tutte, tra l’altro, “pirata”, ma, più semplicemente, minori). Così fosse, il problema dei contratti in dumping risulterebbe assai laterale. Dando credito alla posizione della CGIL, è tuttavia ragionevole ipotizzare che il dato sia sottostimato. Per questo, come proposto dal segretario della CISL Luigi Sbarra, prima di ogni decisione legislativa sarebbe bene trovare il modo per avere una fotografia più nitida della applicazione dei contratti nel nostro Paese, prevedendo sanzioni in caso di dichiarazioni mendaci e obbligando l’inserimento anche in busta paga del codice del contratto utilizzato, per un più agevole presidio sindacale.
 
7) Indipendentemente dai numeri, se il salario minimo legale è in grado di superare il lavoro povero, come dicono in questi giorni molti osservatori, perché non approvarlo?

L’ISTAT ha chiarito che i lavoratori a bassa retribuzione annua sono per la grande maggioranza lavoratori “non-standard” (cioè con contratti di lavoro diversi dal tempo indeterminato a tempo pieno), che non riescono a superare la soglia della bassa retribuzione complessiva anche quando hanno livelli di retribuzione oraria “equi” secondo la proposta della opposizione (9 euro lordi). Dai dati disponibili, pertanto, emerge che il lavoro povero non è in generale legato a bassi livelli di retribuzione oraria, ma è invece determinato dall’alta diffusione del lavoro nero (privo di ogni tutela!), dalla discontinuità dei rapporti di lavoro, dalla diffusione dei contratti ad orario (molto) ridotto e dall’abuso di forme contrattuali non subordinate, in primis il tirocinio e il lavoro occasionale. Sono fattori indifferenti all’approvazione di un salario minimo orario fissato per legge.
 
8) Comunque il salario minimo sarebbe più alto dei minimi tabellari contenuti nei contratti collettivi, quindi migliorativo per le persone.

Se si guarda agli importi dei soli minimi tabellari lordi dei CCNL siglati da organizzazioni comparativamente più rappresentative nei principali settori, è possibile verificare come, ad esclusione del lavoro domestico (ambito dove la competizione con il lavoro nero è fortissima), i minimi tabellari sono tutti superiori a 7,4 euro, ossia la soglia di “lavoro povero” fissata dalle istituzioni internazionali (calcolato come percentuale della retribuzione lorda oraria mediana o media). Spesso è citato anche il lavoro agricolo, ma dimenticando che in questo settore ai minimi nazionali vanno sommate le integrazioni previste dalla contrattazione territoriale. Sono cinque, invece, i contratti rappresentativi nei quali il minimo tabellare dei settori di ingresso è inferiore a 9 euro lordi.
 
9) Allora, almeno per alzare i minimi di questi settori, anche fosse per pochi lavoratori, bene fissare per legge un “pavimento” inderogabile a 9 euro.

Attenzione: la proposta della opposizione è tutta costruita sullo scambio monetario del rapporto di lavoro. Eppure, La contrattazione collettiva non ha semplicemente la funzione della fissazione di un salario, ma è un processo sociale di regolazione del mercato del lavoro che interviene su molte altre materie accanto ai minimi tabellari. Anche considerando, come fa la proposta in commento, oltre al trattamento minimo tabellare, anche gli scatti di anzianità, le mensilità aggiuntive e le indennità contrattuali fisse, mancano all’appello le festività soppresse, il welfare contrattuale (previdenza complementare e assistenza sanitaria integrativa) e il welfare aziendale solo per rimanere nell’ambito degli istituti monetariamente quotabili. Se guardiamo alle norme organizzative (che certamente hanno valore per la persona), nel CCNL è regolata la flessibilità oraria, i permessi, la banca delle ore, il diritto alla formazione, le ferie etc. Tutte queste previsioni alzano sostanzialmente il valore del solo minimo tabellare e ribaltano i pesi del confronto tra il minimo di legge e il minimo effettivo della contrattazione.
 
10) Pur preservando un sistema basato sulla contrattazione collettiva, la fissazione del salario minimo legale non aiuterebbe le parti sociali a riconoscere più soldi ai lavoratori?

Non è peregrino ipotizzare l’esatto contrario! L’individuazione per legge di un salario definito costituzionalmente “equo”, fissato su valori decisamente inferiori a quelli raggiunti dalla contrattazione collettiva (accadrebbe questo nella larga maggioranza dei settori del nostro Paese) potrebbe indurre i datori di lavoro ad adottare un atteggiamento diametralmente opposto a quello auspicato dai promotori della legge: preferire l’ultrattività del contratto (ossia la perduranza dei suoi effetti anche in caso di mancato rinnovo, fattispecie regolata dalla legge proposta dalla opposizione) all’aggiornamento dei contratti, giustificando questo opportunismo con la considerazione che già sono obbligati a riconoscere un trattamento molto più elevato di quello minimo fissato dal legislatore. Questo comporterebbe anche un allontanamento pericoloso delle retribuzioni dalla produttività generata in ogni settore, tornando alla catastrofica illusione degli anni Ottanta: il salario come variabile indipendente.

I datori di lavoro, soprattutto quelli meno competitivi, potrebbero addirittura valutare la disapplicazione del contratto collettivo in luogo della applicazione di un semplice regolamento aziendale, di certo meno elastico per le gestione dei rapporti di lavoro, ma questa difficoltà potrebbe essere largamente compensata dal vantaggio economico generato dalla applicazione del minimo legale (che sarebbe comunque quello fissato dal contratto collettivo del settore affine) in luogo di quello contrattuale che, come si è visto, prevede anche altre voci, anche di natura normativa.
 
11) Ma se così numerosi e rilevanti sono i rischi, perché anche alcune parti sociali insistono per questa soluzione?

L’impressione è che l’obiettivo di molti sia un altro, non tanto il salario minimo legale, bensì la legge sulla rappresentanza, un’altra araba fenice del nostro diritto del lavoro, che sancirebbe l’ingresso della politica nelle dinamiche contrattuali. La legge sul salario minimo potrebbe essere prodromica a una ben più invasiva (e rivoluzionaria per il nostro sistema di relazioni industriali) legge di misurazione della rappresentanza delle parti sociali. La sottomissione delle relazioni industriali alla politica.

L’applicazione obbligatoria e per legge a tutti i lavoratori dei minimi tabellari dei CCNL stipulati dalle associazioni di rappresentanza dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale necessariamente comporterebbe la definizione legale del concetto di “comparativamente più rappresentativo”, che manca tanto nella legislazione, quanto nella proposta di legge. L’impressione è che questo possa essere il “bersaglio grosso” di quelle forze sociali da sempre fredde verso il salario minimo, ma molto attente alla possibile legiferazione in materia di rappresentanza, che potrebbe comportare un loro potere di veto sostanziale nelle dinamiche contrattuali.
 
12) Perché il valore individuato è 9 euro lordi? E’ una cifra equilibrata?

L’effettività di un salario minimo legale o contrattuale dipende dal suo livello, che nella proposta di legge sarebbe fissato centralmente uguale per tutti (nonostante siano molto diversi i costi della vita sullo stivale). Se si considerano i livelli più utilizzati, più densi di personale, i 9 euro lordi già sono inferiori anche ai minimi dei settori multiservizi (livello III) e vigilanza (livello IV), che pure sono sempre citati come i settori con le retribuzioni più basse. La larghissima parte del mercato del lavoro sta già sopra questa soglia, che, di conseguenza, potrebbe rivelarsi poco utile, se non frustrante per quei lavoratori convinti dalla campagna mediatica che la loro situazione economica cambierebbe e che nulla vedrebbero succedere.

D’altro canto, se fosse individuato un valore sensibilmente più alto di quelli già utilizzati, nel breve periodo l’effetto prevalente sarebbe quello di spiazzamento, con chiusura di aziende (quindi perdita dei posti di lavoro) o fughe nel lavoro nero, certamente peggiorativo.
 
Emmanuele Massagli

Presidente ADAPT

Associazione per gli Studi Internazionali e Comparati sul Diritto del Lavoro e delle Relazioni Industriali

@EMassagli
 
*pubblicato anche su Tempi, 6 luglio 2023

Compendio del catechismo sul salario minimo. Domande e risposte (semplici) sulla religione laica tornata alla ribalta nell’ultima settimana*