Salari e bollette, dietro il dibattito sull’indice IPCA

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Bollettino ADAPT 14 febbraio 2022, n. 6
 
Il tema del caro energia è entrato nel dibattito delle relazioni industriali producendo uno scontro tra i leader sindacali di Uil e Cgil e il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, tanto aspro quanto carico di impliciti.
Ad innescare il confronto è stato il leader della Uil, Pierpaolo Bombardieri, secondo il quale il Patto della fabbrica, sottoscritto nel 2018 dai sindacati con Confindustria, che fissa i rinnovi contrattuali sulla base dell’indice Ipca al netto degli aumenti dei costi dell’energia «ora non esiste più, con una inflazione al 5% e aumenti del costo dell’energia di questa portata».
 
Intervistato del Corriere della Sera Carlo Bonomi ha ribattuto: «Non è così. Il prezzo dei beni energetici c’è, ma viene spalmato nel tempo per evitare che scarti bruschi come quello attuale rendano l’indice ballerino». Per Bonomi dunque la soluzione, se si vogliono innalzare i salari subito, sarebbe quella di «siglare contratti di produttività in ogni impresa, addizionali al contratto nazionale». Cosa impossibile in un Paese come l’Italia costellato da micro e piccole imprese, ha duramente risposto il segretario della Cgil Maurizio Landini.
 
A ben vedere, l’osservazione di Bombardieri non riguarda tanto la salute del Patto Per la Fabbrica, quanto proprio l’utilizzo dell’indice IPCA. Lo scontro rimanda alla divergenza storica nelle relazioni industriali emersa nel 2009 quando le parti sociali avevano firmato un accordo quadro di riforma degli assetti contrattuali concordando l’utilizzo dell’IPCA depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati proprio perché valutato più idoneo a interpretare il reale incremento del costo della vita rispetto all’inflazione programmata, che invece era stato l’indice di riferimento delle relazioni industriali dal 1993 al 2009. Questa scelta fu criticata dalla CGIL, che per questo motivo non firmò l’accordo quadro. L’IPCA col tempo è comunque stato accettato comunemente, fino ad entrare nel Patto per la fabbrica. Patto la cui applicazione non era però stata contestata sinora dai sindacati su questo punto, bensì proprio sul meccanismo fondamentale dell’ancoraggio dei salari all’inflazione: per i sindacati gli aumenti sono da legare non solo all’inflazione, ma alle performance dei diversi settori , quindi vanno fatte salve le diverse prassi contrattuali.
 
E qui sta un elemento di parziale contraddizione: la maggior parte dei rinnovi contrattuali siglati negli scorsi due anni ha infatti stabilito degli aumenti dei minimi tabellari superiori, e in ogni caso indipendenti, rispetto all’andamento dell’inflazione, superando nei fatti il nodo della contestazione interpretativa sul Patto. Gli aumenti superiori all’inflazione erano quindi stati considerati come una vittoria dei sindacati. Che ora temono però che quegli aumenti non siano sufficienti ad assorbire la perdita di potere d’acquisto dovuta all’aumento dei costi dell’energia.
 
Per questo la UIL non solo invita a considerare la questione dell’aumento dei prezzi dell’energia nei futuri rinnovi, ma ipotizza una sorta di clausola di vacanza contrattuale da applicare a quei contratti che non saranno rinnovati prima di un anno o anche sei mesi.
 
Il problema dei recenti rinnovi non è però comunque stato (o non è stato soltanto) l’utilizzo dell’indice IPCA per il calcolo degli aumenti, bensì la scelta di predeterminare gli aumenti fissandoli in tranche annuali in sede di rinnovo. Una questione che era già stata posta dal  rinnovo del CCNL dell’industria metalmeccanica che era tornato sui suoi passi rispetto alla scelta, innovativa e discussa, del rinnovo del 2016 di determinare aumenti salariali ex-post in base all’inflazione misurata, e non ex-ante per gli anni di vigenza contrattuale. Se anche dunque l’IPCA considerasse sufficientemente il costo dell’energia, come dice Bonomi, molti contratti tarderebbero ad adeguarvisi.
 
Anche l’osservazione di Bonomi ha però un sottotesto: se è vero che il caro bollette impatta sul potere di acquisto dei lavoratori, è innegabile che lo stesso succeda per i costi di produzione delle imprese. Non per nulla il costo dell’energia è escluso dal riferimento contemplato nell’accordo del 2009 come nel patto per la fabbrica: perché costituisce una componente dell’aumento dell’inflazione che non dipende strettamente dalle leggi di domanda ed offerte e che quindi non rispecchia una maggiore disponibilità economica da parte delle imprese. Non possono dunque essere queste ultime a farsi carico degli effetti sulle famiglie di questi aumenti di costi, dice Bonomi. E quindi, se un margine di aumento dei salari può essere trovato esso può essere ricavato solo attraverso gli aumenti di produttività: se produciamo di più a parità di ore lavorate, allora potremo aumentare i salari. Uno scambio contrattuale che tipicamente si realizza con la contrattazione aziendale.
 
A prescindere dal detto e non detto del dibattito, è da sottolineare il fatto che le parti sociali ipotizzino una soluzione contrattuale, senza rivolgersi necessariamente alla politica, proprio mentre si rilancia anche il dibattito sul salario minimo. Gli esempi non mancano. Il CCNL dell’industria del legno prevede da tempo che ogni gennaio le parti si incontrino e sulla base dell’IPCA dell’anno precedente incrementino le retribuzioni base (oltre a ciò è previsto nell’ultimo rinnovo un aumento di 50 euro quale recupero degli andamenti inflattivi non riconosciuti né erogati a gennaio 2020, causa pandemia). Quale che sia il prodotto di questo acceso confronto, sarà interessante capire dunque se la contrattazione riuscirà a prevedere formule innovative, anche a livello nazionale, per adeguarsi più rapidamente all’andamento dei prezzi.
 
Francesco Nespoli

Ricercatore LUMSA

@Franznespoli

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