Quiet quitting: una silenziosa ridefinizione di “lavoro”

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Bollettino ADAPT 5 dicembre 2022, n. 42
 
Il fenomeno del quiet quitting non gode ancora di una definizione formalizzata: il termine copre un ampio spettro di comportamenti, dal sottrarsi al famigerato “extra-mile”, evitando dunque straordinari e mansioni o responsabilità che esulino dal proprio contratto, a fare il minimo indispensabile per non incorrere nel licenziamento, sino al disamoramento e all’apatia nei confronti del proprio lavoro. Nonostante un approfondimento sulle sfumature del termine sarebbe senza dubbio di grande interesse e potrebbe influenzarne la spiegazione, basti ora considerare il fenomeno come un movimento di controcultura rispetto alla dilagante hustle culture di origine americana. In altre parole, all’attività febbrile richiesta dal mito del successo americano si risponde con un pacato, quasi inudibile diniego.
 
Il fenomeno non è passato inosservato a livello aziendale, visto l’impatto non indifferente sia sulla produttività del singolo lavoratore che sul clima del luogo di lavoro. Sono dunque le stesse aziende, gli imprenditori e i management guru ad avere un vivo interesse nell’approfondimento del tema e a fornire le prime interpretazioni ed eventuali soluzioni. L’analisi che ne deriva attribuisce il quiet quitting a una perdita di senso che esula dall’ambito professionale. Infatti, se il lavoro è visto come luogo della realizzazione personale e della costruzione identitaria dell’individuo, un disinteresse verso questa sfera equivale a una crisi non solo professionale, ma piuttosto esistenziale. Gli individui non coinvolti nella propria mansione starebbero dunque vivendo una crisi che riguarda la totalità della persona, laddove il lavoro dovrebbe fornire sia una definizione identitaria che uno scopo di vita. Bisognerebbe quindi partire da questi due elementi per ristabilire l’etica del lavoro auspicata: senso di appartenenza ed obbiettivi. Le azioni da intraprendere rispetto al problema identitario hanno come punto di partenza una maggiore definizione e cura dei valori aziendali. Ciò andrebbe da un lato a fornire una base ideologica condivisa che rafforzerebbe il senso comunitario tra colleghi, dall’altro, auspicando un’identificazione della persona con i suddetti principi, andrebbe a fornire al singolo quelle certezze e quei punti saldi necessari per avere una visione del mondo e di sé coerente e ben definita. Imprescindibile in questo processo sarebbe poi fornire obbiettivi per il singolo lavoratore e concedergli l’autonomia e il potere decisionale per portarli a termine e stabilirne di nuovi. Assumendosi maggiori responsabilità e svincolandosi dal controllo altrui, l’individuo si avvicinerebbe poi alla realizzazione come intesa nella cultura del successo – ovvero basata su quegli aspetti tradizionalmente attribuiti al genere maschile, riassumibili nel concetto per cui il leader è da ammirare, non il follower. Ne deriva che, per assicurare a tutti quel minimo di soddisfazione necessaria per mantenere un determinato standard di produttività, ognuno dovrebbe essere, in certa misura, un “boss”. Affermazione, seppur controintuitiva, che si è cercato di calare anche nella pratica.
 
Si tratta di un modello manageriale definito orizzontale, organico, “umanistico”. Un esempio è stato Zappos, azienda di vendita online di scarpe e vestiti, il cui carismatico CEO, Tony Hsieh, avrebbe introdotto una “Holacracy” nel 2013. Questo sistema andrebbe a incoraggiare la formazione spontanea di team operanti senza supervisione centralizzata, così da permettere al lavoratore di strutturare i propri obbiettivi e progetti. Un altro esempio è la “Spaghetti Organisation” applicata da Oticon, compagnia danese che produce apparecchi acustici. Anche in questo caso, attraverso una struttura “bottom-up”, il sistema sarebbe basato su progetti piuttosto che su ruoli.
 
Tuttavia, sia Zappos che Oticon hanno poi dovuto fare un passo indietro, finendo poi per rientrare nel tradizionale modello gerarchico. La struttura organizzativa orizzontale sembra infatti sopravvivere con successo in pochissime aziende -si veda Gore, Morning Star, Valve e Haier. Ma per comprendere le criticità di questo progetto sarà necessario tornare alla base del ragionamento.
 
L’interpretazione appena esposta del quiet quitting è infatti inscritta in quella stessa cultura che i quitters vogliono fuggire. Se può essere vero che i lavoratori “evitanti” non trovano necessariamente realizzazione nel lavoro e non si identificano interamente con il ruolo professionale, non è però scontato che questo significhi per loro una crisi esistenziale. Bisogna fare un ulteriore passo indietro. L’interpretazione del quiet quitting come crisi della persona presuppone una percezione del lavoro come perno dell’esistenza sana, da cui la soluzione dell’aumento di autonomia e responsabilità così da ristabilire la centralità del lavoro nella vita della persona. Ma se fosse proprio questo il punto dell’abbandono? Se si prova a intendere il fenomeno come un movimento di controcultura, allora il suo scopo sarà la decostruzione della cultura dominante, nello specifico della hustle culture e del mito del successo. E se il principio fondamentale di questa ideologia è proprio il lavoro, e in particolare un lavoro inteso come vocazione totalizzante e scopo di vita, allora è probabile che la decostruzione inizi proprio da quello. In altre parole, il quiet quitting potrebbe non essere che una protesta contro una certa definizione di lavoro. Le cause dietro a questa necessità di risignificazione possono essere diverse – dalla caduta di confini tra pubblico e privato con la digitalizzazione e l’introduzione dello smart working, alla difficoltà di identificazione con ruoli che diventano sempre più fluidi, alla ricerca di nuove forme di “realizzazione personale” – fatto sta che il lavoro muta da sfondo ubiquo della vita della persona ad ambito definito della stessa. Per cui, agire non oltre i limiti del proprio contratto non è più sintomo di crisi esistenziale, ma piuttosto di un riposizionamento del lavoro entro tempi e spazi precisi, ovvero in un compartimento della vita piuttosto che nella vita tutta. E una mancanza di passione e iniziativa in ambito professionale non sono necessariamente indicatore di un disagio generalizzato nel momento in cui si slega la realizzazione personale da quella lavorativa.
 
Questa diversa interpretazione del quiet quitting andrebbe così a chiarire perché le soluzioni aziendali siano spesse volte fallimentari. Un incremento di autonomia e responsabilità è proprio ciò che farebbe straripare il lavoro dal suo ambito: sia a livello concreto, perché inevitabilmente aumenterebbero le ore di straordinario, sia a livello mentale, dal momento che la libertà decisionale andrebbe a discapito della prevedibilità e del senso di sicurezza, richiedendo un coinvolgimento più intenso. Quindi, quell’autonomia che si vuole accordare ai dipendenti è in realtà estremamente vincolante, perché porta il peso di un’ideologia, di una definizione egemonica di successo e di realizzazione. In altre parole, è un’autonomia volta a riaffermare la cultura dominante e a posizionare nuovamente il lavoro al centro della vita della persona.
 
È verso questa visione del mondo che i quitters provano disagio. Questi non sono necessariamente persone disamorate o apatiche rispetto al contenuto della loro mansione. Non sembra infatti trattarsi di una protesta rispetto alla qualità del lavoro da svolgere, quanto piuttosto rispetto all’imposizione di un significato prestabilito per quel lavoro: è un lavoro che, a prescindere dalle attività che implica e ruolo che ne deriva così come dal carattere e dalle aspettative della persona, deve inderogabilmente significare passione, realizzazione, importanza. Il quitter vorrebbe poter decidere quanto lasciare che l’ambito lavorativo si espanda rispetto agli altri, spesso propendendo per un atteggiamento basato sul work-life balance. È in questo che sta la libertà decisionale effettivamente ambita, la libertà di valutare il peso del lavoro nella propria vita.
 
Sofia Milani

Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@MiSofistes

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