Politically (in)correct – Per essere credibili è il momento di scendere in trincea

“Con responsabilità e umiltà diciamo a noi stessi e al Paese che la fiducia nelle cose che faremo, che sapremo fare tutti insieme, è già l’alba preziosa di un domani migliore”. Con queste parole il Presidente Vincenzo Boccia ha concluso la sua relazione all’Assemblea annuale della Confindustria, il 24 maggio scorso. Del resto, tutto il discorso di Boccia era improntato se non proprio all’ottimismo, almeno ad una serena consapevolezza della realtà del nostro Paese e del suo sistema produttivo, dalla quale derivano sia un’attenzione per la difficoltà delle sfide, sia la fiducia (è questa la parola-chiave della relazione) di riuscire a superarle.

 

“Oggi vogliamo partire da alcuni dei nostri punti di forza – ha sottolineato Boccia in apertura – Siamo il secondo Paese manifatturiero in Europa, il settimo nel mondo: dobbiamo fare in modo che il Paese ne sia più consapevole, affinché tutti acquisiscano cultura industriale e coerenza di comportamenti. Siamo noni nel mondo per valore dell’export, che nel 2016 è salito a 417 miliardi di euro. Record assoluto”. Ed ancora: “Per complessità, completezza e numero di destinazioni – ha proseguito – le nostre vendite all’estero sono seconde soltanto a quelle tedesche nella graduatoria elaborata dal Wto e dalle Nazioni Unite. Siamo nelle prime tre posizioni in 8 dei 14 settori manifatturieri; in tre siamo i primi”.

 

Sono affermazioni importanti. Una delle più significative organizzazioni economiche del Paese si è schierata dalla parte giusta nel confronto/scontro aperto nel Paese, In Europa, nel Mondo. E lo ha fatto non per scelta di carattere politico, ma per convinzione ed interesse delle aziende rappresentate e dei loro dipendenti. Anche gli imprenditori possono essere contaminati dal virus del populismo dilagante ed orientate dalle soluzioni sbrigative e facilone proposte da quei movimenti. Come non esistono più i tradizionali e secolari confini tra destra e sinistra, anche i ceti sociali che facevano riferimento ai partiti progressisti o conservatori (come alle categorie stinte del lavoro e del capitale) oggi somigliano alle balene che perdono l’orientamento e si arenano sulle spiagge. Spesso le classi lavoratrici sono diventate la nuova base elettorale delle forze populiste (ne è dimostrazione il voto per Marine Le Pen in Francia), le quali promettono – nell’ambito di politiche isolazioniste, protezioniste e sostanzialmente xenofobe e in sintonia con la sinistra radicale – il ripristino di quelle tutele e garanzie, messe in crisi dai processi economici e sociali connessi alla globalizzazione.

 

La sfida planetaria aperta tra internazionalizzazione dell’economia, libertà ed integrazione dei mercati, da un lato, e neo protezionismo, dall’altro, nel vecchio continente si traduce in un confronto decisivo tra europeisti e “sovranisti”. Questo scontro non ha soltanto un profilo di carattere istituzionale e culturale, ma si riversa immancabilmente sulle politiche economiche e del lavoro, nelle quali è più marcata e significativa la convergenza dei populismi di destra e di sinistra; al punto da influire anche sulle scelte dei partiti “storici”. In sostanza, è la demagogia che è in agguato, sempre pronta a tenere banco, contro l’equilibrio dei bilanci pubblici, la sostenibilità dei sistemi di welfare: quelle condizioni che dovrebbero essere le premesse irrinunciabili della stabilità e della crescita.

 

Le politiche tendono a confondersi. E a cercare un nemico esterno sul quale scaricare le proprie responsabilità. Lorenzo Bini Smaghi, nel suo ultimo saggio ‘’La tentazione di andarsene’’ (Il Mulino) cita un brano di Guido Carli del 1993 (dopo la sottoscrizione del Trattato di Maastricht): “Una delle eredità più persistenti della cultura autarchica fascista, è senza dubbio la sindrome del complotto internazionale. Quando gli squilibri interni raggiungono una dimensione tale da intaccare la fiducia, ecco che scatta questa mentalità difensiva, ecco il complotto internazionale, ecco comparire gli speculatori, i disertori, i pescicani che portano all’estero interi pezzi della ricchezza nazionale”.

 

Vincenzo Boccia ha le idee chiare, sia sulle forze politiche, sia sull’Europa, ma si esprime con troppa prudenza, in modo indiretto, senza chiamare le cose e le persone col loro nome; come se volesse parlare a nuora perché suocera intenda. “Il primo passo è l’operazione verità. Su debito pubblico, deficit e crescita facciamoci guidare da competenza e serietà. E abbandoniamo ricette fantasiose e di facile consenso. Lasciamo a chi si inventa leader – ha affermato nel suo discorso – senza nemmeno avere il senso della storia, di propagandare avventure pericolose che ci porterebbero dritti fuori dall’Europa e dentro fallimenti pubblici e privati: a pagare a caro prezzo sono da sempre i soggetti sociali più deboli e le imprese”.  Di grazia, tuttavia, dobbiamo leggere tra le righe per comprendere chi, secondo Boccia, non dice la verità o si propone come leader inventato?

 

Quanto all’Europa, l’integrazione è una delle grandi opzioni di questo periodo storico e dello scontro politico aperto: “Con 500 milioni di consumatori e 21 milioni di imprese è il mercato più vasto e ricco del mondo. Ma potremo difenderlo soltanto se capiamo che la concorrenza non è tra i paesi dell’Unione europea bensì tra l’Unione e il resto del mondo e che la questione industriale va rimessa al centro dell’agenda di politica economica europea e italiana”.

 

L’altra decisiva scelta di campo si chiama globalizzazione dell’economia contro i pericoli di un risorgente protezionismo proveniente da Oltreoceano. Anche in questo caso la Confindustria compie, a parole, una scelta netta: “Per il nostro sistema produttivo, l’interconnessione delle catene globali del valore è tanto virtuosa quanto irreversibile. Per questo sosteniamo con forza la liberalizzazione degli scambi internazionali. Il protezionismo, la chiusura e l’isolamento non sono mai la risposta giusta. La globalizzazione va governata attraverso regole condivise ed applicate uniformemente, non arrestata, o spinta a regredire”.

 

Ma proprio qui sta l’hic Rhodus hic salta di Viale dell’Astronomia. La più importante organizzazione economica del Paese non può essere soltanto uno spettatore, un analista che intravvede i pericoli, li denuncia (con puntualità, ma anche con un eccessivo fair play), avanza delle proposte interessanti (dal Patto di scopo al Patto di Fabbrica) e resta in attesa che qualcuno le raccolga. Come se vivessimo in tempi normali, con istituzioni solide e forze politiche e sociali egualmente responsabili. Non è più il tempo dell’analisi, ma della lotta. Non è un caso che sia stato il ministro Carlo Calenda a svolgere l’intervento che la platea si aspettava. Lo scontro politico in corso, in Italia come in Europa, non ha niente di una ordinaria competizione. A rischio è il sistema politico ed economico.

 

Se il voto andasse in un certo modo non sarebbe sconfitta solo una coalizione di partiti a fronte di un’altra vittoriosa. Sarebbe una tragica sconfitta del Paese. La portata delle sfide all’ordine del giorno non sono da meno di quelle che furono poste all’Italia nell’immediato dopoguerra, quando i governi non decisero soltanto di appartenere all’alleanza delle democrazie occidentali, ma di orientarsi pure verso l’economia di mercato (grazie anche al Piano Marshall). La ricostruzione e la riconversione dell’apparato produttivo – minato dall’ingessatura provocata dall’autarchia e dalle distorsioni imposte dalla produzione bellica – si rivolsero ai beni di consumo durevoli per i quali era forte la domanda sui mercati internazionali. Furono poste, così, le premesse per quella vocazione alle esportazioni che ha qualificato il nostro apparato produttivo e ne ha consentito la tenuta anche nelle fasi più difficili della nostra storia.

 

Economia e politica si tengono l’una con l’altra, come le libertà politiche e civili si tengono insieme con quelle economiche. Ecco perché, adesso, i “sovranprotezionisti” mettono in discussione non solo il libero mercato e la globalizzazione, ma anche la Nato e l’Unione europea che, pur con i loro limiti e difetti, sono le istituzioni che hanno garantito e garantiscono sia le libertà economiche che quelle politiche, perché sono fondate su medesimi valori. Non è un caso che lo slogan veterocomunista “fuori l’Italia dalla Nato e fuori la Nato dall’Italia” oggi lo abbiano ereditato i “grillini”.

 

A quel tempo lontano, Angelo Costa (storico presidente della Confindustria del 1945 al 1955) per avendo come interlocutori Giuseppe Di Vittorio (non Susanna Camusso), Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti (non Matteo Renzi e Beppe Grillo) fu consapevole che la rinascita del Paese era connesso alla sconfitta delle forze politiche e sindacali che contestavano sia quell’assetto istituzionale che quel modello di sviluppo. Vincenzo Boccia è convinto di affermare la linea contenuta nella sua relazione se nelle elezioni politiche dovessero prevalere coloro che vogliono il reddito di cittadinanza (“dobbiamo finanziare lo sviluppo e non la disoccupazione” ha affermato Boccia), uscire dall’Euro e dall’Unione?

 

Se “mercato unico, difesa e sicurezza, lotta al terrorismo, ricerca e questione industriale, coesione economica e sociale, immigrazione, infrastrutture europee e politica di bilancio comune per fronteggiare gli shock, ambiente ed energia”, sono, per la Confindustria le grandi sfide europee, esse devono essere difese, innanzi tutto, sul piano politico.

Anche gli imprenditori devono scendere in trincea, quando non si tratta solo di difendere l’apparato produttivo, ma le condizioni politiche stesse della sua agibilità e del suo sviluppo. Altrimenti sono solo parole, parole e parole.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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