Politically (in)correct – Pensioni: il Cile volta pagina

Bollettino ADAPT 14 novembre 2022, n. 39

 

Dopo la sonora sconfitta nel referendum costituzionale (il 60% dei votanti ha bocciato alcuni mesi or sono il testo della nuova Costituzione, il governo cileno di Gabriel Boric ha avviato un processo di riforma del sistema pensionistico. Anche in questo caso, il 36enne presidente di sinistra, non ha voluto fare economia di articoli. Il testo della nuova Carta fondamentale, bocciato era composto da 388 articoli, 57 disposizioni transitorie raccolte 178 pagine. Queste dimensioni da elenco telefonico di una metropoli rappresentano già un buon motivo per bocciare una Carta Costituzionale.

 

Per quanto riguarda la riforma pensionistica proposta dal governo Boric, tra le relazioni introduttiva, tecnica, statistica e previsionale e 350 articoli 17 titoli e 37 disposizioni transitorie, si arriva a ben 419 pagine. Il problema del sistema pensionistico cileno in passato ha suscitato un dibattito nella letteratura internazione perché rappresentava un modello, non solo teorico ma “realizzato” di superare – attraverso forme di capitalizzazione – la crisi dei sistemi finanziati col metodo della ripartizione determinata dalle trasformazioni intervenute nel mercato del lavoro, nell’economia e nei trend demografici.

 

La riforma pensionistica cilena del 1981 è stata imitata in diversi paesi dell’America latina con l’obiettivo di contribuire al risanamento finanziario che – insieme alla lotta ad un’inflazione impazzita – doveva servire alla normalizzazione democratica di quelle realtà. Il preesistente regime previdenziale obbligatorio (l’Inp del 1924) era una delle principali cause dello sfascio economico del Cile. Eccessivamente oneroso (il prelievo contributivo ammontava ormai al 65% della retribuzione), particolarmente frantumato in una miriade di casse e fondi pubblici “privilegiati” (in numero di 100 circa e connotati da profonde diseguaglianze), il sistema obbligatorio ante-riforma non era solo insostenibile, ma produceva altresì, come accade sempre in tali situazioni, pratiche generalizzate d’evasione e lavoro nero. Il riordino impostato dal ministro Pinera (del governo Pinochet) ricordava il classico uovo di Colombo. I lavoratori potevano scegliere se restare nel vecchio modello a ripartizione o aderire ad uno nuovo, organizzato a capitalizzazione. In questo secondo caso, i versamenti erano completamente a loro carico (in misura del 10% della retribuzione, elevabile fino al 20% per coloro che intendevano assicurarsi altre coperture, tra cui quella sanitaria). Le risorse confluivano in fondi pensione privati, raggruppati in apposite Administradoras (società di gestione) regolate dallo Stato, in un contesto normativo di grande libertà d’adesione, mobilità e portabilità (le 4 più importanti AFP erano controllate da società straniere). Nelle condizioni ottimali la prestazione pensionistica avrebbe dovuto garantire un tasso di sostituzione intorno al 45% del reddito.

 

Fin dall’inizio, tuttavia, erano emersi i problemi, a testimoniare che non esistono scorciatoie per fuoriuscire dai sistemi a ripartizione in bancarotta. Sarebbe toccato allo Stato cileno provvedere alla transizione: fare fronte, cioè, all’onere delle pensioni in essere private del finanziamento col metodo della ripartizione (ovvero del prelievo sulle retribuzioni dei lavoratori attivi, i quali, in un contesto a capitalizzazione, con il loro gettito contributivo non provvedono più al fabbisogno dei trattamenti vigenti, ma devono usare le proprie risorse per accumulare ed incrementare, su di una posizione individuale, i montanti accantonati ed investiti). Dai sistemi a ripartizione, insomma, si esce con difficoltà, poiché, per riuscirvi, si chiede sempre ad un gruppo di generazioni di prendersi carico, contemporaneamente, dei costi del finanziamento delle pensioni già liquidate (tramite il prelievo contributivo) e di reperire altre risorse da indirizzare agli strumenti della capitalizzazione. Inoltre, nel caso cileno, lo Stato era tenuto a finanziare la pensione sociale agli indigenti, doveva garantire una pensione minima, pari al 22% del salario medio dopo 20 anni di contribuzione e al raggiungimento dell’età pensionabile legale (65 anni per gli uomini e 60 per le donne) ed erogava un “buono di riconoscimento” ai fondi privati, ragguagliato all’ammontare dei versamenti che gli interessati avevano effettuato nel precedente regime. In aggiunta, lo Stato si assunse per decenni il carico delle vecchie pensioni, dal momento che, nel sistema previgente erano rimasti 300mila lavoratori contribuenti ed iscritti a fronte di un milione di prestazioni erogate (nel nuovo modello del 1981 la situazione era completamente rovesciata: 4milioni di assicurati e circa 200mila pensioni).

 

In sostanza, in Cile, fin dall’inizio apparve chiaro che il concorso pubblico alla previdenza riformata e privatizzata era pari al 6% del Pil. Un importo ragguardevole, da non sottovalutare, viste le dimensioni e i limiti dell’economia cilena. Il caso cileno venne imitato dagli altri fondi pensione latino-americani (presenti in 11 paesi), i quali non costituivano una forma di previdenza complementare, ma erano in pratica la copertura pensionistica primaria: non erano, cioè, il secondo, ma il primo pilastro. Le ricorrenti incertezze dei mercati finanziari hanno raffreddato molti degli entusiasmi iniziali, anche se, nel caso cileno, è capitalizzata nelle AFP un ammontare corrispondente a più della metà del Pil. È noto che i sistemi a capitalizzazione restituiscono – con la maggiorazione dei rendimenti e dei benefici fiscali – le risorse che vengono accumulate sulle posizioni individuali. In sostanza – come si legge nella relazione al disegno di legge (il documento, datato 7 novembre 2022, è recentissimo) – le pensioni vigenti + tanto per gli uomini quanto – e ancor più – per le donne non sono adeguate a contrastare la povertà, in conseguenza, tra i diversi motivi, di un’aliquota contributiva del 10% a fronte di un media dei paesi Ocse di circa il 19%. La relazione segnala, pertanto, un aspetto che induce a riflettere a proposito della congruità del trattamento pensionistico.

 

In un sistema a capitalizzazione la prestazione è ragguagliata, in senso inversamente proporzionale, all’attesa di vita, che nell’arco dei 40 anni di vigenza della riforma del 1981 è passata da 13 anni per gli uomini a 65 anni e a 21 per le donne a 60 anni, rispettivamente a 22 e a 31 anni nel periodo 2023-2029. Per affrontare tali problemi la presidente Michelle Bachelet, nel 2008, non trovò una ricetta migliore dell’intervento pubblico, con l’introduzione di “un pilar solidario” una sorta di pensione minima che poi si trasformò, sotto il governo Pinera (un caso di omonimia), nella “pension garantizata universal” (PGU). Ma nel 2022, nota la relazione illustrativa, il 23% dei pensionati riscuote un assegno inferiore al livello di povertà e il 72% inferiore al salario minimo. Il progetto presentato dall’attuale governo cileno è quello di rafforzare il sistema attraverso l’introduzione di una pensione di base, pubblica, finanziata dallo Stato. Ma vediamo più in dettaglio il progetto di legge. Va sottolineato, innanzitutto, che la sua definizione è avvenuta tramite il “dialogo sociale” svolto in tutto il paese dal 3 maggio all’8 giugno di quest’anno quando, in 16 giornate, sono state coinvolte circa 1.200 persone (41% lavoratori, 29% imprenditori, 30% rappresentanti dello Stato) per raccogliere un’ampia gamma di opinioni e di esperienze. Il progetto istituisce un sistema pensionistico misto, che abroga e sostituisce quello in vigore ed è articolato su tre pilastri: 1) un pilastro non contributivo (ovvero fiscale) formato dalla PGU e da interventi di solidarietà, ragguagliato all’importo complessivo della pensione; 2) un pilastro contributivo misto nel quale convergono una quota a capitalizzazione individuale (a cui è destinato il ricalcolo dei versamenti effettuati nel precedente regime) e la nuova prestazione definita “seguro social previsional” finanziata dalla contribuzione obbligatoria dei datori  in misura del 6% della retribuzione dei lavoratori. 3) il classico terzo pilastro volontario a capitalizzazione individuale.

 

Novità anche nella governance del sistema. Al posto delle Administradoras della riforma del 1981, vengono istituite: l’IPPA (Inversor de pensionas pubblico y autonomo) con il compito – sostanziale – di gestire il processo di transizione dalla capitalizzazione alla ripartizione delle risorse accumulate nei conti individuali; l’IPP (Inversores de pensiones privatos), società private incaricate di gestire le risorse a capitalizzazione individuale (il terzo pilastro). Vengono poi indicate le possibili opzioni dei lavoratori. In primo luogo possono restare nel precedente sistema gestito dalle società specializzate e autorizzate che prenderanno il posto delle AFP. Oppure potranno aderire al sistema IPPA o a quello IPP. Sono poi previste diverse forme di previdenza complementare e/o integrativa (per esempio il Fondi generazionali ragguagliati alle particolari esigenze di chi aderisce. Fa anche la sua comparsa, a livello dei soggetti gestori, anche una sorta di separazione tra assistenza (seguro) e previdenza (previsional).

 

Si tratta, in conclusione, di una trasformazione molto complessa. Il processo di attuazione e di funzionamento della riforma va seguito con l’interesse che merita il “salto” di sistema destinato a sollecitare – sia pure in modo invertito – il dibattito che a suo tempo suscitò la riforma Pinera. Da noi quella riforma di stampo liberista (che individuava nella capitalizzazione la salvezza di sistemi pensionistici ormai condannati al declino e alla insostenibilità) ispirò, anni dopo, la proposta dell’economista Franco Modigliani, il quale (insieme alla sua allieva professoressa Ceprini) si era messo a studiare il più grave dei nostri malanni nazionali: il sistema pensionistico obbligatorio. Lo aveva fatto con una meticolosità severa e puntigliosa, ritoccando più volte il suo progetto per adattarlo alle mutevoli vicende dei mercati finanziari. L’idea di Modigliani era semplice: si trattava di accantonare il trattamento di fine rapporto dei lavoratori italiani in un Fondo nazionale, con una gestione a capitalizzazione. Nel tempo, con i rendimenti maturati, il Fondo avrebbe cominciato a pagare le nuove pensioni; poi, nel giro di quasi ottant’anni, esso avrebbe potuto sostituire l’Inps. Certo, quando i mercati avevano cominciato a perdere dei colpi, la proposta di Modigliani – pur con il rispetto dovuto ad un premio Nobel – era sembrata meno praticabile. Ma il “grande vecchio” era sempre disposto a varcare l’Oceano o ad apparire in video-conferenza o a rilasciare un’intervista o pubblicare un saggio, tutte le volte che era chiamato ad illustrare e a difendere la sua creatura. Come sappiamo, a partire dal 2007, al Tfr maturando venne affidata la funzione di principale risorsa finanziaria per le forme di previdenza privata a capitalizzazione.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

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