Politically (in)correct – Elezioni del 25 settembre: considerazioni sui programmi dei partiti su lavoro e pensioni

Bollettino ADAPT 5 settembre 2022, n. 29

 

Un rivoluzionario del secolo scorso soleva dire che i programmi sono solo bandiere piantate nella testa della gente. In sostanza gli elettori non si orientano ad esprimere un voto dopo aver letto i volumetti in cui sono raccolte le proposte e le promesse dei partiti, anche perché non ci vuole molto a capire che nessuno è mai riuscito ad organizzare l’economia e la società in coerenza con le proprie ambizioni. Di solito succede il contrario. Da dove viene l’ispirazione al voto? Da ciò che sopravvissuto delle ideologie, da un’idea vaga di appartenenza, da interessi non sempre legittimi; ma, nella normalità dei casi, dall’ésprit de finesse che i partiti e le coalizioni sono riusciti ad esprimere nell’identità che presentano agli elettori. In fondo questo “spirito” è lo stesso che finirà poi per determinare l’azione delle maggioranze e dei governi. Ma sta al commentatore – nel corso di una campagna elettorale – prestarsi con buona volontà al rito collettivo della lettura dei copioni che i protagonisti della recita mandano a memoria. Nel nostro caso per quanto riguarda i temi del lavoro e delle pensioni.

 

Lavoro

 

A leggere i programmi elettorali in materia di lavoro si ha l’impressione che l’accelerazione dei tempi della consultazione elettorale abbia preso impreparati i partiti, che sono stati costretti a riassettare le solite proposte con ben pochi sforzi di innovazione (ammesso e non concesso che i gruppi dirigenti fossero in grado di innovare). Anzi, il più delle volte vengono esacerbati i toni della narrazione nella convinzione che – a mostrarsi più generosi – si guadagnino voti.  Le proposte sono più o meno le stesse: si rincorrono da destra a sinistra e risalgono indietro la corrente con un florilegio di incentivi per le nuove assunzioni, detassazioni, decontribuzioni sorrette sovente da una maggiore rigidità nelle regole del lavoro. Come se fosse possibile realizzare una politica caratterizzata da una maggiore stabilità a spese dello Stato. Sono convinto che un’attenta ricognizione delle incentivazioni già esistenti, metterebbe in evidenza che si è già tentato di tutto e che è illusorio scoprirne delle nuove a cui nessuno fino ad ora ha pensato.  Anche le proposte che sembrano inedite in realtà non lo sono.

 

Fratelli d’Italia

 

Fratelli d’Italia, per esempio, oltre ad un articolato programma di incentivi mirati e alla informatizzazione delle politiche attive del lavoro, propone una misura rivolta alle aziende riassumibile così: più assumi meno tasse paghi. Così Giorgia Meloni ha spiegato il senso della proposta: “Non voglio uno Stato che metta in tasca i soldi ai cittadini per restare a casa, voglio uno Stato che crei le condizioni ottimali per avere una vita più che dignitosa”. È evidente la polemica contro il reddito di cittadinanza che la coalizione di centro destra vorrebbe abolire o rivedere radicalmente, anche per allocare diversamente le risorse stanziate. Ma la proposta in sé non sembra molto diversa da bonus triennale per le assunzioni che il governo Renzi aveva inserito nella legge di bilancio per il 2015. La legge (legge n.190/2014) introdusse delle misure importanti per favorire l’occupazione, mediante il riconoscimento di una decontribuzione triennale (2015, 2016 e 2017) fino a 8.060 euro l’anno per le assunzioni (e le trasformazioni dei contratti) a tempo indeterminato effettuate nel corso del 2015.   Nella successiva legge di bilancio la norma venne prorogata sia pure in termini più ridotti. A conti fatti si ritenne che i risultati ottenuti non fossero corrispondenti ai rilevanti stanziamenti finanziari e che la misura avesse ‘’premiato’’ assunzioni che in parte sarebbero state fatte comunque. Succede così di accorgersi che le aziende esitano a sottoporsi alle condizionalità a cui sono subordinati gli incentivi, le decontribuzioni e le detassazioni, perché – come sosteneva Marco Biagi – nessun incentivo economico è in grado di superare l’ostacolo di un disincentivo normativo, che alla fin dei conti sfocia nella tutela reale del lavoratore contro il licenziamento. Merita una segnalazione il fatto che nei programmi del centro destra non si avverte il piagnisteo assordante che emana dai testi del centro sinistra e sinistra quando vengono affrontati i problemi del lavoro. Opportunamente si richiede la reintroduzione dei voucher.

 

Il Partito democratico

 

In verità anche il Partito Democratico si mostra cauto rispetto alla “mistica” della precarietà. E’ vero che si accoda alla proposta dell’adozione di un salario minimo garantito per tutti, quale una misura di civiltà per combattere l’opportunismo dei lavoretti sottopagati, dei contratti pirata, delle cooperative spurie e delle piattaforme digitali. Il salario minimo garantito sarebbe fissato da una commissione indipendente di cui faranno parte anche sindacati e organizzazioni datoriali. Le imprese sarebbero vincolate a usarlo solo in assenza di un contratto collettivo.

 

Il lavoro temporaneo, se viene usato in maniera reiterata, dovrebbe costare di più, attraverso una buonuscita compensatoria, che l’impresa pagherebbe a un lavoratore che non viene stabilizzato, in maniera proporzionale alla durata cumulata dei contratti temporanei che ha avuto. Ogni lavoratore dovrebbe ricevere un “codice personale di cittadinanza attiva”, nel quale confluirebbe un conto personale della formazione per un monte ore complessivo minimo iniziale di 150 ore. E che varrebbe per tutta la vita, indipendentemente dalle transizioni da un contratto di lavoro a un altro o da una forma di lavoro a un’altra.

 

Per i rapporti a tempo indeterminato a tutele crescenti si propone la riduzione del costo del lavoro di un punto all’anno per 4 anni, in modo che alla fine della prossima legislatura il costo dei contributi sia al 29% rispetto al 33% di oggi. La riduzione del cuneo contributivo sarebbe fiscalizzata per salvaguardare le pensioni future. Va sottolineato positivamente che, nel programma, il Pd non sconfessi (ma lo ha fatto incomprensibilmente Enrico Letta in campagna elettorale sconfessando il jobs act) i provvedimenti di cui è stato protagonista in materia di lavoro e che sono aspramente criticati dalle formazioni alla sua sinistra e anche da qualche esponente dem. “Se molti giovani sono disoccupati è anche perché oggi, in Italia, la transizione tra scuola e lavoro – è scritto ancora nel programma – è più lunga che in tutti gli altri paesi europei. Ecco perché, accanto a quanto fatto finora col Jobs act e con la Buona scuola, disegneremo anche in Italia, come già esiste da tempo in Francia, Germania e nei paesi del Nord Europa, un canale formativo professionalizzante che si sviluppi, in maniera integrata con il nostro sistema d’istruzione, a livello secondario e terziario. Sarà un percorso con pari dignità rispetto all’offerta accademica, con percorsi di studio meno teorici e più pratici, e con un finanziamento stabile. Nei prossimi cinque anni per il settore manifatturiero si stima un bisogno di 272 mila nuovi addetti, molti dei quali periti e laureati tecnico-scientifici. La via verso la qualità del lavoro passa anche dal saper intercettare questa domanda.

 

Il M5S

 

La nuova edizione del grillismo in regime contiano, non si fa mancare nulla. Nove euro lordi l’ora di salario minimo legale per dire stop alle paghe da fame e dare dignità ai lavoratori che oggi percepiscono di meno. Rafforzamento delle misure del decreto dignità per mettere i lavoratori, in particolare i giovani, in condizione di sviluppare progetti di vita agevolando i contratti a tempo indeterminato Stage e tirocini non possono essere strumento di sfruttamento della manodopera.  Va previsto pertanto un compenso minimo per i tirocinanti e il riconoscimento del periodo di tirocinio ai fini pensionistici. Per proteggere e creare nuovi posti di lavoro nel Mezzogiorno va resa strutturale la decontribuzione Sud. Nel programma si insiste per l’introduzione di un meccanismo (cashback fiscale) che permetta l’immediato accredito su conto corrente delle spese detraibili sostenute con strumenti elettronici. In questo modo semplifichiamo la vita dei contribuenti e contrastiamo l’evasione. Non possono mancare il taglio del cuneo fiscale, né l’adozione di interventi per un’effettiva parità salariale tra uomini e donne, per fare in modo che di fronte alle stesse qualifiche e alle stesse mansioni le donne abbiano una retribuzione reale non inferiore a quella degli uomini. Tocca poi al M5S ricordarsi dello Statuto dei lavori da valere anche per autonomi, partite Iva, liberi professionisti e per le nuove tipologie di lavoro. Il reddito di cittadinanza non si tocca tranne che per rendere più efficiente il sistema delle politiche attive. Ma il M5S si lancia da trampolino storico del movimento operaio, quello del ‘’lavorare meno, lavorare tutti’’, proponendo la sperimentazione di una riduzione dell’orario di lavoro soprattutto nei settori a più alta intensità tecnologica. Le imprese che aderiscono al programma ottengono esoneri, crediti di imposta e incentivi aziendali per l’acquisto di nuove dotazioni tecnologiche e nuovi macchinari. 

 

Terzo Polo

 

Il Terzo Polo usa parole nuove, a cominciare dall’approccio ai problemi più urgenti del mercato del lavoro evitando le narrazioni drammatiche – a cui siamo abituati – di realtà ostile ai giovani condannati ad una vita da precari.  Innanzi è forte la sottolineatura della difficoltà delle imprese a reperire manodopera adeguata, tanto da richiedere nel programma il rafforzamento delle politiche di formazione fino a compensare le imprese per i costi sostenuti nei rapporti con gli ITS e gli enti di formazione ai fini della promozione delle competenze per nuove assunzioni. Mettere in primo piano il mismacht tra domanda e offerta di lavoro significa affrontare il problema del lavoro che “c’è”, e che viene rifiutato.  Quanto alla precarietà il Terzo Polo chiede una “flessibilità regolata” e una “pulizia” di certi rapporti contrattuali spuri (che era poi la linea del jobs act).   Viene criticato il decreto dignità per aver contrastare il lavoro flessibile regolare senza riuscire a combattere gli abusi. Con riguardo al lavoro sommerso, viene criticata l’abolizione dei voucher (uno degli obiettivi perseguiti con accanimento dalla Cgil). Anche le proposte di correzione del reddito di cittadinanza (RdC) prendono le mosse dai ciò che è emerso dalle analisi delle esperienze compiute: i beneficiari non vengono occupati se non in misura minima per la semplice ragione che non sono occupabili per i limiti nel loro bagaglio di scolarizzazione, di competenze e di pratiche lavorative. Per questi motivi sono ritenuti necessari un maggiore impegno nella formazione dei beneficiari dei sussidi, un coinvolgimento delle agenzie del lavoro private e il trasferimento degli interessati, risultati non occupabili, ai servizi degli enti locali per lavori di pubblica utilità. Vi è poi un discorso generale di semplificazione delle norme e degli adempimenti burocratici nonché delle forme di contenzioso inutili; tutto ciò allo scopo di attirare investimenti, esteri in particolare. Si tenga conto che nei programmi della sinistra tendono a moltiplicarsi i controlli, le ispezioni, i divieti e le sanzioni. Mentre in quelli della destra l’ingresso di capitali stranieri viene considerato con sospetto tanto da prevedere misure di protezionismo.

 

Pensioni

 

Per quanto riguarda le pensioni il programma elettorale che mi convince di più è quello del Terzo Polo, per un motivo molto semplice: nelle 68 pagine del documento il tema che ossessiona gli italiani viene affrontato in modo marginale, confermando la mia opinione che non si tratta di una priorità e che dal 1° gennaio dell’anno prossimo occorre tornare nel percorso tracciato dalla riforma Fornero dopo i danni provocati (e ancora operanti) in questi ultimi anni di follia. Nel testo dell’alleanza tra Calenda e Renzi ho trovato solo dei riferimenti condivisibili riguardanti un programma di incentivazione all’attivazione di piani di previdenza complementare per gli under 35, con un regime fiscale più favorevole allo scopo di consentire un montante contributivo più elevato. Invece, nei programmi degli altri partiti e coalizioni, anche quando non si percorre – come nei testi unitari e distinti di quelli di centrodestra –  la strada dei passi perduti dei trattamenti minimi elevati a mille euro mensili, si fa ampio sfoggio – con maggiore o minore cautela – sia alla flessibilità in uscita, a partire da una età da “giovani anziani” sia alla c.d. pensione di garanzia per i giovani, senza rendersi conto – in questo caso – del ridicolo a cui ci si espone, con la pretesa di  assicurare ai  giovani una tutela per quando saranno anziani come se fosse impossibile per loro procurarsi una normale pensione lavorando.
 
In generale, ho l’impressione che sulle pensioni – con l’eccezione delle sparate dei mille euro – stia crescendo una maggiore ragionevolezza.  L’unico partito che mantiene la solita damnatio memoriae (ovviamente non ci prendiamo cura delle frattaglie dell’ultrasinistra) è la Lega. “La pensione è un diritto non negoziabile per chi ha lavorato una vita – è scritto nel programma -.  La profonda necessità di una revisione pensionistica in Italia è un’esigenza non più rimandabile. Nel nostro Paese coesistono differenti criticità legate al mercato del lavoro e del sistema di previdenza post professionale. I temi sono direttamente e strettamente correlati. Ritardare l’accesso alla pensione, crea ripercussioni sui giovani e sull’intero mercato del lavoro, rallenta il cambio generazionale’’. In sostanza il gruppo dirigente della Lega continua a propagandare – attraverso la manipolazione dell’età pensionabile – l’obiettivo per cui i prepensionamenti determinino il ricambio generazionale, nonostante che proprio l’esperienza di quota 100 abbia dimostrato che questa corrispondenza non esiste. In ogni caso, anche il partito di Salvini ha moderato i toni. Nel 2018 impose all’alleanza la parola “azzeramento”; in questa campagna elettorale si avvale di definizioni più corrette politicamente: “Questo è l’obiettivo che abbiamo in mente: dobbiamo superare la legge Fornero con Quota 41”.  Fino ad ora nessuno è riuscito a farsi spiegare che cosa propone la Lega per coloro che non arrivano a questa anzianità contributiva: situazioni a cui provvede l’ordinario trattamento di vecchiaia. Infatti se per andare in pensione quello dei 41 anni fosse il solo requisito vi sarebbero milioni di persone, soprattutto donne ma anche giovani, che non riuscirebbero mai a raggiungere tale limite, se non ad età avanzate, ammesso che fosse loro consentito di contribuire a lavorare. Il programma comune del centrodestra è ancora più evasivo in questa delicata materia. L’età del pensionamento deve diventare flessibile, ma l’asso di briscola viene giocato sulla pensione minima a mille euro mensili per 13 mensilità. Che poi è il vero strappo della coalizione. A parte i costi, la pensione a mille euro garantiti   avrebbe delle ricadute notevoli sull’intero sistema pensionistico. Al di sotto di questo importo vi è oggi il 67% dei trattamenti in essere (parliamo di pensioni e non di pensionati). Non è malafede ritenere che se questo fosse l’importo della prestazione comunque assicurato a prescindere dai contributi versati, sicuramente sarebbero favoriti gli evasori. Giorgia Meloni sembra essersi smarcata dalla narrazione del Conducator, anche se condivide la proposta comune dei mille euro.  Persino il M5S usa una cautela inattesa e imprevista, nel senso che affronta, nel programma, il problema dell’età pensionabile sulla via dei passi perduti dei lavori disagiati che costituiscono la soluzione individuata dal governo Draghi a fianco di Quota 102. E’ sicuramente più giustificato consentire l’anticipo della pensione per chi si trova in condizioni personali, famigliari e lavorative difficili (a parte che costoro si potrebbero avvalere anche dell’Ape sociale); l’importante però e non esagerare nell’individuare le mansioni ritenute meritevoli di tutela. E purtroppo ci siamo già infilati su questa strada.

 

Nel programma del Pd non vi sono recriminazioni per il passato, ma vengono indicate soluzioni per il futuro non dissimili – come impostazione – da quelle indicate da Mario Draghi, il 20 luglio, al Senato. Siamo dunque sul terreno del “politicamente corretto”. “Vogliamo favorire – è scritto – una maggiore flessibilità nell’accesso alla pensione, a partire dai 63 anni di età, da realizzarsi nell’ambito dell’attuale regime contributivo e in coerenza con l’equilibrio di medio e lungo termine del sistema previdenziale. Va inoltre introdotta, per le nuove generazioni, una pensione di garanzia, che stanzi fin da subito le risorse necessarie a garantire una pensione dignitosa a chi ha carriere lavorative discontinue e precarie. È necessario consentire l’accesso alla pensione a condizioni più favorevoli a chi ha svolto lavori gravosi o usuranti o lavori di cura in ambito familiare, anche rendendo strutturali l’APE sociale (da estendere agli autonomi) e Opzione donna. È necessario rafforzare la previdenza complementare e gli strumenti che possono favorire il ricambio generazionale e la gestione delle crisi aziendali”.  Si tratta di obiettivi non incompatibili con il rientro nei canoni della riforma Fornero (anche perché quando si recano dei danni al sistema pensionistico come quelli del 2018, i postumi rimangono per decenni), sempre che l’anticipo – nel testo non è detto con chiarezza, ma è così – sia condizionato al calcolo col sistema contributivo anche per le quote ora in regime retributivo.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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