Politically (in)correct – Blocco dei licenziamenti: dalla padella alla brace

Bollettino ADAPT 26 ottobre 2020, n. 39

 

Gli errori si pagano. Di solito però quando a sbagliare è un governo a pagare è il Paese e il suo sistema economico e sociale. Il blocco dei licenziamenti appartiene al novero dei ‘’peccati capitali’’ di cui è impossibile implorare il perdono.  La crisi sanitaria e le sue conseguenze sull’economia (ovviamente non la crisi in sé, ma i provvedimenti per mitigare il contagio) sono state devastanti in Italia come in tutte le nazioni colpite (con effetti più gravi nei Paesi sviluppati) ma nessun governo si è preso la briga di adottare una misura che, da noi, ha un solo precedente nell’immediato dopoguerra. Peraltro sarebbe bastato riflettere su quell’esperienza per non ripercorrere la strada del blocco dei licenziamenti economici. Quando qualche mese dopo il divieto cessò, iniziarono imponenti processi di ristrutturazione, di riconversione e di cessazione delle attività (con decine di migliaia di licenziamenti) nei settori industriali stravolti e deformati prima dall’autarchia poi dall’ economia di guerra.

 

Al contrario, dopo il crack finanziario mondiale del 2008-2009 e della crisi dei debiti sovrani del 2010, risultò azzeccata la scelta del ministro del Lavoro del Governo Berlusconi, Maurizio Sacconi, di salvaguardare i posti di lavoro attraverso un impegno massiccio sulla cig (anche in deroga). Il governo giocò invece la carta degli ammortizzatori sociali, estendendone, mediante la cig in deroga e la riorganizzazione, in via amministrativa, della cig ordinaria e di quella straordinaria, la copertura anche ai quei settori del mondo del lavoro dipendente (più della metà) che ne erano privi. Due dati testimoniano più di tante parole lo sforzo compiuto in tale direzione che ha consentito alle imprese di mantenere collegate le maestranze senza dover interrompere il rapporto di lavoro. Quando, nel contesto del <collegato lavoro> (in seguito la norma prese altre vie legislative più rapide), fu previsto, nell’ottobre del 2008, il rifinanziamento della cig in deroga, lo stanziamento era fissato in 400 milioni. Nel febbraio 2009, in seguito all’accordo tra lo Stato e le Regioni, furono mobilitati 8 miliardi (rispettivamente 5,5 e 2,5) per l’anno in corso e per il 2010. Il c.d. tiraggio della cig (ovvero l’effettiva utilizzazione delle ore autorizzate) fu pari al 65% nel 2009 e al 50% nel 2010.

 

Gli schemi della riduzione d’orario – secondo l’Isfol – consentirono di salvaguardare circa 700mila posti di lavoro tra il IV trimestre del 2007 e il I trimestre del 2011. Nei primi anni ’90 per ogni punto di Pil perso il tasso di occupazione subiva una flessione media dell’1,1%. Nel 2009, per ogni punto la flessione fu dello 0,48%. Nel 2020, per quanto riguarda la cig, l’impegno finanziario stanziato nella sequela di decreti anti-covid è stato più massiccio e più concentrato. È credibile, quindi, che il blocco dei licenziamenti economici non fosse necessario perché le aziende – quanto meno nella prima fase del lockdown – non avevano particolari urgenze di licenziare, essendo coperte dall’integrazione delle retribuzioni generosamente elargita dallo Stato. L’alleggerimento degli organici lo hanno pagato i lavoratori a termine e i titolari di altri contratti precari, sui quali è stata scaricata quel ridimensionamento precauzionale degli organici che alle imprese era precluso sulla manodopera stabile. È fin troppo ovvio che – ove fosse riemersa l’esigenza di fare nuove assunzioni sarebbe stato molto più facile accedere all’occupazione temporanea, piuttosto che privarsi degli organici stabili, peraltro più tutelati anche sul piano sindacale di quelli che non lo sono.  È vero che – per fortuna – nel decreto Agosto la proroga è divenuta più flessibile e articolata: il blocco è stato prorogato fino al 15 novembre limitatamente alle aziende che ricorrono ad incentivi, contributi o che fruiscono di ammortizzatori sociali. I sindacati hanno accettato questa mediazione, sulla base di una considerazione banale: se un’impresa non chiede la cig, evidentemente non ha necessità di adeguare gli organici.

 

Ma ora il gioco si è fatto più duro e difficile in vista della scadenza della proroga dopo il 15 novembre. Il governo, rappresentato dai ministri Catalfo e Gualtieri, ha incontrato le confederazioni sindacali che già erano insorte come un solo uomo quando il ministro Patuanelli aveva dichiarato che il blocco non sarebbe stato più sostenibile. Il governo, in quella sede ben presto divenuta notturna, ha proposto di fare un passo avanti togliendo di mezzo – se abbiamo ben compreso – il legame tra divieto di licenziare (il cui limite sarebbe stato portato fino al prossimo 31 gennaio, un mese in più di quanto prospettato finora), per allinearlo con la scadenza dello stato d’emergenza.

 

Nello stesso tempo verrebbe prorogata la cassa integrazione per altre 18 settimane utilizzabili fino a giugno. In sostanza, quanto meno, il governo avrebbe intenzione di condizionare la proroga del blocco non più alla cig autorizzata ma solo a quella utilizzata. I sindacati hanno però rilanciato chiedendo di allungare il blocco dei licenziamenti «almeno fino al 21 marzo»,. La loro è una posizione comprensibile, da tanti punti di vista, nel contesto della gravità dei problemi di sicurezza che si stanno ponendo, in modo accelerato, di ora in ora. Ma il divieto sta già impiegando importanti risorse per assicurare un reddito e non un’occupazione e imbalsamare posti di lavoro finti.  Questa sarebbe certamente la soluzione più facile nel breve periodo, offerta incautamente dal governo stesso, ma è insensata sul piano economico e produttivo perché si basa su di un presupposto inesistente, come se appartenesse alla realtà – anche alla più remota – che, passata la bufera della crisi sanitaria e delle ricadute del lockdown sull’economia, tutto potesse tornare come prima e allo stesso modo di prima. Il blocco dei licenziamenti nei fatti ha la pretesa di congelare la situazione pre-covid e restituirla ‘’più forte e gagliarda di prima’’.  Tutto ciò impedisce alle aziende di riorganizzarsi e di adeguare gli organici alle nuove esigenze produttive.

 

Ma vi sono alternative altrettanto realistiche? Più si va avanti, più sarà difficile tornare indietro, perché quando si rinviano le terapie necessarie, anche quelle dolorose, le patologie si aggravano. D’altro canto, nessun governo prenderebbe, a cuor leggero, la decisione di impartire il ‘’liberi tutti’’, fissandone la data sul calendario. Le stesse imprese non se la sentirebbero di aprire una campagna di licenziamenti di massa da un giorno all’altro. Ma più il tempo passa, a questa svolta potrebbero essere costrette in mancanza di altre vie d’uscita. Siamo così nella tragica situazione di chi deve optare tra l’arrostire in padella o l’ardere sulla brace. Se le parti sociali sapessero mettere in campo qualche idea e volessero parlarne tra loro, prendendosi in proprio le inevitabili responsabilità,  il Paese sarebbe grato.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

Politically (in)correct – Blocco dei licenziamenti: dalla padella alla brace