Oltre gli aspetti formali e le questioni legali: una lezione americana sulla qualità dei tirocini

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Bollettino ADAPT 8 giugno 2020, n. 23

 

Tanto colpiti, quanto trascurati, i tirocinanti sono stati una delle categorie più coinvolte dagli effetti dell’epidemia da Co-vid 19 sul mercato del lavoro italiano. Come si è avuto modo di rilevare in altre sedi (per una ricognizione completa delle normative si veda AA.VV., I tirocini extracurriculari al tempo di COVID-19: dall’inizio della pandemia alla fine del lockdown, WP, ADAPT – University Press, giugno 2020), le regioni italiane hanno disciplinato in modo disomogeneo l’istituto: ora disponendone la sospensione, ora ammettendo o escludendo l’attivazione di nuovi tirocini.

 

In Italia il rachitico discorso pubblico sugli stage si è concentrato – in questo tempo straordinario ancora di più che in quello ordinario – sui profili strettamente giuridici ed economici. Improvvisamente privati di un’entrata economica mensile, l’opinione pubblica si è preoccupata – con poca veemenza e scarsi risultati – di assicurare un sostegno economico allo stagista: a quella creatura ibrida, in bilico tra ciò che dovrebbe essere, un soggetto in formazione, e ciò che spesso è, un lavoratore, alla quale è precluso l’accesso a misure di sostegno al reddito come la cassa integrazione.

 

Che le (comprensibili) rivendicazioni economiche siano le uniche a trovare spazio svela un equivoco in cui gli stessi tirocinanti rischiano di cadere, complici gli atteggiamenti spesso biasimevoli delle aziende ospitanti: quello di considerare il tirocinio un rapporto di lavoro, piuttosto che un tempo di formazione e orientamento.

 

In questa prospettiva sembra interessante seguire il tentativo di alcuni professori statunitensi che si sono riproposti di integrare le diffuse ricerche sugli aspetti formali e legali delle internships, con una indagine delle esperienze in concreto dei tirocinanti, per scoprire se il tempo speso in stage è un tempo utile. Matthew Hora (assistant professor of Adult and Higher Education in the Division of Continuing Studies at UW-Madison) in un interessante webinar ha intervistato Sean Edmung Rogers (del Schmidt Labor Research Center, University of Rhode Island), autore dell’articolo All internships are not created equal: Job design, satisfaction, and vocational development in paid and unpaid internships (Human Resource Management Review, 2019).

 

A partire da ricerche empiriche e da una ricostruzione della letteratura scientifica in materia di organizzazione del lavoro e delle risorse umane, il paper appena menzionato individua gli elementi che incidono sui risultati occupazionali di un’internship e sulla soddisfazione degli stagisti. Si introduce in particolare il concetto del job design come onnicompresivo di tutte le caratteristiche da cui dipende la qualità di un tirocinio.

 

La varietà dei compiti assegnati, la loro complessità, il grado di responsabilità e autonomia riconosciuta, il livello di stress da sopportare, le opportunità di relazioni sociali (sia con pari che con superiori) e, soprattutto, la puntualità nei tempi e nei contenuti dei feedback sono alcune delle leve che, se adeguatamente calibrate, possono garantire un’esperienza di stage realmente formativa e capace di orientare il giovane che fa il suo accesso nel mercato del lavoro.

 

Particolare attenzione, secondo gli autori deve essere riferita al senso del lavoro (task significance) affidato allo stagista. Già Adam Smith, nel descrivere il passaggio dall’economia preindustriale a quella industriale, così come altri studiosi che hanno osservato le implicazioni dello scientific managament, in opposizione al lavoro artigianale, rilevava la necessità di un senso del lavoro e della consapevolezza del nesso tra il contributo del singolo lavoratore e l’insieme generale. Il tirocinante che non conosce il “significato del proprio lavoro”, che non è reso partecipe del progetto nel quale è inserito, secondo Rogers, vive un “distacco psicologico” che rende l’esperienza di internship inefficace.

 

Lo studio di questo fattori, secondo gli Autori, è fondamentale anche per orientare i college che nel mondo anglosassone svolgono un ruolo di intermediazione e promozione di un rapporto, quello di internships, che dovrebbe essere triangolare: esattamente come accade in Italia dove all’azienda ospitante e al tirocinante si aggiunge anche il soggetto promotore (che, ai sensi delle Linee Guida del 25 maggio 2017, siglate in Conferenza Stato Regioni, può essere un’università, un centro per l’impiego, un’agenzia per il lavoro, et cetera). Soggetti promotori capaci di formulare linee guida e di sistematizzare le best practices, possono essere capaci di costruire esperienze utili per tutte le parti coinvolte e anche di presidiarne lo svolgimento con un’attività di monitoraggio intensa, nei tempi nei modi e nei contenuti.

 

Forse non è realistico, tanto più nel contesto emergenziale attuale, immaginare che le aziende rinuncino allo strumento dei tirocini; eppure è necessario ricordare che le stesse aziende devono interfacciarsi con dei soggetti promotori per attivare uno stage. Dalla qualità dei soggetti promotori, dal loro grado di coinvolgimento, dalla loro capacità di discernimento, può innescarsi un circolo virtuoso capace di escludere dal mercato del lavoro i tirocini dallo scarso valore, sia dal punto di vista formativo che da quello economico.

 

Un esempio è la figura del mentore, più volte citata in letteratura come elemento nevralgico in un tirocinio (M. Hoy, Building Pathways to Working with Collections: Can Internships and Student Work Experience Help?, Australian Academic & Research Libraries, 42:1, 2011, pp. 29-42). Un professionista esterno all’azienda, appartenente al soggetto promotore, che nelle sue funzioni di guida del tirocinante, responsabile a valutare lo sviluppo personale e professionale, accompagnando il giovane anche in una dimensione di orientamento e motivazionale, rappresenterebbe un valore aggiunto per tutte le parti in causa: per il tirocinante che meglio può far fruttare i mesi di internship e per la stessa azienda che potrà disporre di una risorsa che, nei limiti di quanto è possibile in un momento di transizione delicato come quello dalla scuola a lavoro, è adeguatamente supportata.

 

Il coinvolgimento sostanziale e non appena formale dei soggetti promotori, su tutti le università, risponderebbe a un’esigenza piuttosto diffusa tra i giovani che hanno appena concluso un percorso di studi e si affacciano al mercato del lavoro, tanto più in un momento così eccezionale come quello presente. È sempre più diffusa in letteratura (I. Schoon, J. Bynner, Young people and the Great Recession: variations in the school-to-work transition in Europe and the United StatesLongitudinal and Life Course Studies, vol. 10, n. 2., pp. 153-173; D. Grant-Smith, P. Mcdonald, Planning to work for free: building the graduate employability of planners through unpaid work, Journal of Youth Studies, 2017) la convinzione che la transizione scuola-lavoro sia sempre più ancorato alla sola responsabilità e proattività del giovane che deve progettare e costruire la propria occupabilità da solo.

 

Già nel 1992, d’altronde, Beck ne La società del rischio, teorizzava i processi di individualizzazione che caratterizzerebbero la società moderna e, dunque, lo stesso mercato del lavoro. Il passaggio alla vita adulta, che ieri era incanalato attraverso strutture e istituzioni, oggi è rimesso alla libertà individuale che, da un lato, può muoversi tra molte possibilità ma, dall’altro lato, è foriero di insicurezze e instabilità.

 

Come ADAPT sta scoprendo in queste settimane, grazie al MOOC gratuito «L’occupabilità ai tempi del Coronavirus», organizzato in collaborazione con le Agenzie per il lavoro, con la partecipazione di centinaia di laureandi e neolaureati, l’esigenza più evidente, più ancora di quella economica, è quella di avere un «luogo della transizione» che fornisca strumenti e metodi per una fase così delicata.

 

Giorgio Impellizieri

ADAPT Junior Fellow

@Gimpellizzieri

 

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