Liberare (e non congelare) il lavoro*

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Bollettino ADAPT 14 giugno 2021, n. 23

 

Il chiasso sociale e mediatico attorno al superamento del blocco dei licenziamenti è talmente elevato da risultare sospetto. In uno scenario di crescita annua del 5% concentrare tutte le attenzioni sulle “uscite” senza preoccuparsi di come sfruttare il rimbalzo economico è dannoso, prima ancora che ideologico. Il prolungamento del blocco dei licenziamenti di due o tre mesi, così come la sua neutralizzazione a partire da fine giugno, non è la scelta dalla quale dipenderà la qualità del mercato del lavoro italiano nei prossimi mesi.

 

I posti di lavoro persi per la crisi economica conseguente alla crisi pandemica sono 415.000 circa. Come calcolato da Banca d’Italia, prima del divieto di licenziamento economico si avevano circa 45.000 licenziamenti al mese. Dalla entrata in vigore della misura ad oggi ne sono stati calcolati meno della metà. Non sono tutti recessi genuini: assai frequenti sono stati gli accordi informali tra datori di lavoro e dipendenti atti a fingere un licenziamento per evitare che la persona uscente perdesse il trattamento di disoccupazione non riconosciuto a chi si dimette (è assai curioso che nessun governante si sia posto il problema di congelare questo vincolo nel periodo pandemico).

 

Nel complessivo, i rapporti di lavoro che si sarebbero interrotti senza l’intervento del legislatore sono circa 360.000. È scorretto prevedere che questi recessi si possano realizzare tutti contemporaneamente. Il numero va decurtato della somma di quei lavoratori che sarebbero stati licenziati nei mesi scorsi, ma che oggi sono assunti in imprese tornate a crescere (tante nell’industria). Vanno esclusi anche coloro che intanto si sono autonomamente ricollocati. D’altro canto, vanno considerati come possibili licenziati coloro che sono ancora in cassa integrazione a zero ore e chi è occupato in aziende in forte crisi. Non si dimentichi che il termine di cui si legge sui giornali (fine giugno) interessa la CIG Covid utilizzata dall’industria, ove i lavoratori rischiano meno; i settori maggiormente in crisi (servizi, commercio, turismo) termineranno invece periodo di utilizzo dei propri strumenti di sostegno al reddito solo a fine ottobre.

In caso di sblocco a fine mese, è quindi ragionevole prevedere un numero di licenziamenti tra i 30.000 e 100.000 nel periodo 1° luglio – 31 dicembre 2021.

 

Non è certamente uno scenario positivo, ma neanche drammatico se lo sforzo della politica fosse concentrato sulle soluzioni per ricollocare velocemente queste persone piuttosto che sugli stratagemmi per prolungare l’eccezionale situazione di congelamento della occupazione. Sulla componente costruens delle politiche del lavoro però si legge poco o nulla. Anzi, il Ministro competente ha più volte ripetuto che il dossier più urgente è quello dedicato agli ammortizzatori sociali, la cui riforma è prevista entro luglio. Anche in questo caso, il messaggio veicolato indirettamente è tutto difensivo. Inoltre, un intervento sulle c.d. politiche passive può comportare un incremento del costo del lavoro per qualche settore (commercio, artigianato, cooperazione) o tipologia di impresa (le piccole), oltre che per lo Stato. È ragionevole attivare oggi una tale riforma, che scaricherebbe i costi maggiori proprio sui settori più in difficoltà? Ha senso farlo senza avere chiaro il quadro delle politiche attive in grado di evitare che i percettori delle varie forme di sostegno al reddito finiscano per dipendere soltanto dal trasferimento statale?

 

È certamente più problematico politicamente e sindacalmente, ma in un momento di annunciata crescita uno Stato tradizionalmente poco incisivo sulle dinamiche economiche come il nostro non dovrebbe pretendere di orientare la ripresa, bensì avere la lungimiranza di sfruttarla, di approfittarne. Bene allora non perdere ancora troppo tempo a discutere di licenziamenti, bensì attivarsi legislativamente per permettere alle imprese che stanno ripartendo di cogliere ogni possibile opportunità per assumere. Concretamente vuole dire superare i numerosi vincoli che il Decreto Dignità ha imposto alla c.d. flessibilità in entrata (contratto a termine e somministrazione in primis), incoraggiare le forme contrattuali più sicure e formative per i giovani (apprendistato) e operare con convinzione verso la semplificazione della burocrazia e degli adempimenti amministrativi che complicano l’attivazione e la gestione dei rapporti di lavoro.

 

Emmanuele Massagli

Presidente ADAPT

Associazione per gli studi sulle relazioni industriali e di lavoro

@EMassagli

 

*Pubblicato anche su Quotidiano Nazionale, 14 giugno 2021

 

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