Lavoro agile e produttività: i rischi tra le pieghe di obiettivi, risultati e controlli

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Bollettino ADAPT 22 marzo 2021, n. 11

 

Sembra ormai piuttosto diffuso l’assioma secondo cui all’introduzione di forme (genuine) di lavoro agile nell’impresa consegua necessariamente un incremento di alcuni tra i principali indici di valutazione delle performance, come produttività, efficienza, qualità del lavoro. La stessa norma-incentivo del 2018 poneva tra le sue finalità – oltre che migliorare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro – quella di incrementare la competitività dell’impresa a mezzo lavoro agile, e in precedenza pure il decreto interministeriale del 25 marzo 2016, all’art. 2, richiamava tale modalità di lavoro tra gli indicatori dei fondamentali aziendali (sul punto si veda, criticamente, M. Menegotto, A. Rosafalco, Lavoro agile, competitività e contrattazione, D. Garofalo, Produttività, efficienza e lavoro agile, in D. Garofalo, (a cura di), La nuova frontiera del lavoro: autonomo-agile-occasionale).

 

Non mancano anche indagini approfondite (D. de Masi, Smart Working. La rivoluzione del lavoro intelligente, Marsilio, 2020) che, seppur in via prospettica e svolte mediante il c.d. metodo Delphi, assestano le stime attorno ad un + 20% di produttività in caso di adozione di forme di lavoro agile rispetto a modalità di lavoro tradizionali (v. D. Porcheddu, “Smart working. La rivoluzione del lavoro intelligente”: i risultati della ricerca).

 

Laddove si volesse indagare in profondità il fenomeno, si scoprirebbe tuttavia che non si può prescindere da un’analisi differenziata per territorio, settore, dimensione ed organizzazione d’impresa. Da questo punto di vista ci pare utile richiamare una delle ultime pubblicazioni ISTAT, tra le cui pieghe si può leggere come oltre la metà delle imprese segnala assenza di effetti su produttività, costi operativi, efficienza, investimenti in formazione del personale, adozione di nuove tecnologie”. Il 62,2% delle imprese dichiara nessun effetto in termini di produttività e percentuali simili anche in riferimento a costi operativi; per altro verso, sempre privo di effetti è lo strumento per il 49,7% dei casi indagati in termini di aumento del benessere personale.

 

Certo potrà obiettarsi che si tratta di dati relativi a quel “lavoro agile d’emergenza … quale misura di allontanamento dal luogo di lavoro” (la definizione è di M. Brollo, Il lavoro agile alla prova della emergenza epidemiologica), ma non si può neppure prescindere da tali recenti evidenze, soprattutto allorché si consideri la puntuale proroga della “modalità semplificata” di attuazione e la improbabile svolta organizzativa immediata dettata da un prossimo ritorno ai meccanismi ordinari della legge 81.

 

Ancora il saggio della prof.ssa Brollo (p. 207) sopra richiamato ci ricorda infatti come “siamo incapaci di considerare una questione cruciale che rimane inevitabilmente sullo sfondo: lo smart working non è per tutti; anzi, per ora, è possibile per pochi” riportando ricerche che certificano come al massimo il 30% della forza lavoro italiana a regime potrà effettivamente svolgere lavoro da remoto. In altri termini, sul nesso lavoro agile – produttività (che vuol dire, anzitutto, organizzazione) ogni dichiarazione aprioristica risulta estremamente farraginosa, rischiosa di portare fuori strada, essendo invece doveroso un approccio chirurgico, secondo modelli organizzativi e contrattuali adattabili alle singole specificità, che consentano anche, laddove si volesse, una qualche forma di verifica/controllo dei risultati dell’organizzazione e della prestazione lavorativa, per i quali però sembrano doverosi alcuni approfondimenti, al fine di evitare lo sconfinamento in forme di controllo vietate dalla legislazione vigente (art. 4 St. Lv.) piuttosto che a vincoli di rendimento che sconfinino in forme di cottimo (art. 2100 c.c.).

 

A tal proposito la norma (art. 21 co. 1 l. n. 81/2017) elegge il patto individuale di lavoro agile quale sede deputata, tra l’altro, a regolare le modalità di esercizio del potere di controllo di parte datoriale circa l’esecuzione della prestazione svolta all’esterno dei locali. Ciò, letto unitamente all’inciso definitorio (art. 18 co. 1 l. n. 81/2017) secondo cui la modalità di lavoro agile può essere svolta anche “con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi assume particolare rilevanza laddove si voglia introdurre concreti strumenti di misurazione della performance individuale e/o collettiva.

 

Si tratta tuttavia di un tema problematico, da gestire evitando approcci approssimati. L’assegnazione al lavoratore agile di obiettivi per unità di tempo, con il conseguente necessario rispetto di un ritmo produttivo superiore a quello ordinario, nel presupposto che la concessione del lavoro agile incrementi di fatto l’obbligo prestazionale, sembra infatti poter determinare alternativamente: a) la spettanza del trattamento di cottimo/concottimo, la cui disciplina generale è ancora presente nell’ordinamento e non se ne può allo stato escludere la riattualizzazione proprio in riferimento allo smart working; b) il legittimo rifiuto del lavoratore a perseguire il risultato. Ai sensi della normativa civilistica generale (artt.1175 e 1375 c.c.) i lavoratori dipendenti, sia ordinari che in modalità agile, sono infatti tenuti al rispetto di un regime di lavoro “normale”, non incrementale per esclusiva determinazione aziendale, tantomeno per la sola attribuzione dello smart working.

 

Il controllo poi dell’attività svolta, per la verifica del range prestazionale in funzione del monitoraggio della produttività, se non riferito al solo risultato finale realizzato al termine di un prolungato arco temporale, comporta rischi sanzionatori significativi, anche penali. La violazione dell’art. 4 St. Lav. integra infatti ipotesi di reato ai sensi dell’art. 171 del Codice in materia di protezione dei dati personali.

 

Rilevano poi un novero di vincoli (limiti di orario giornaliero e settimanale, obbligo di riposo settimanale, periodi di disconnessione, limiti alla prestazione notturna, ferie obbligatorie con piena astensione dal lavoro) che condizionano l’elasticità in senso estensivo della prestazione del lavoratore agile. Un obiettivo prestazionale particolarmente sfidante sembra potersi conciliare poco anche con questi aspetti dell’istituto.

 

Saranno pertanto indispensabili, nel prossimo passaggio da smart working emergenziale a smart working “genuino”, sia una attenta valutazione sia una accentuata cautela operativa. Occorrerà un approccio all’istituto non emozionale ma giuslavoristico – si tratta ad ogni effetto di contrattazione individuale di alcuni aspetti del rapporto di lavoro – accorto ed adeguatamente informato.

 

Stefano Malandrini

Confindustria Bergamo

 

Marco Menegotto

Confindustria Bergamo

@MarcoMenegotto

 

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