L’Agenzia delle Entrate fornisce alcuni chiarimenti sulla tassazione del reddito al tempo del lavoro da remoto

ADAPT - Scuola di alta formazione sulle relazioni industriali e di lavoro
Per iscriverti al Bollettino ADAPT clicca qui
Per entrare nella Scuola di ADAPT e nel progetto Fabbrica dei talenti scrivi a: selezione@adapt.it

Bollettino ADAPT 24 maggio 2021, n. 20

 

Il 17 maggio del 2021 la Divisione Contribuenti dell’Agenzia delle Entrate ha fornito un parere di notevole importanza per quanto riguarda la gestione della tassazione del reddito dei lavoratori dipendenti che hanno lavorato da remoto durante la pandemia da COVID-19.

In particolare, il parere (Risposta n. 345/2021) costituisce la risposta ad un interpello proposto da parte di una società appartenente a un Gruppo di dimensione internazionale, i cui dipendenti svolgono spesso la propria attività lavorativa presso le consociate estere, attraverso l’istituto giuridico del distacco.

 

Nel caso di specie, si rappresenta il caso di un dipendente fiscalmente residente in Italia, ma ordinariamente distaccato presso una consociata con sede di lavoro a Parigi, il quale, rientrato in Italia allo scoppiare della pandemia da coronavirus nel febbraio del 2020, svolge da allora la propria prestazione lavorativa in remote working.

 

Fino al rientro del dipendente in Italia, la società aveva svolto i suoi obblighi di sostituto di imposta secondo la disciplina individuata dall’articolo 51, comma 8-bis del Testo Unico delle imposte sui Redditi (TUIR), il quale sancisce che “il reddito di lavoro dipendente prestato all’estero in via continuativa […] da dipendenti che nell’arco di dodici mesi soggiornano nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni, è determinato sulla base delle retribuzioni convenzionali definite annualmente con il decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale di cui all’art. 4, comma 1, del decreto legge 31 luglio 1987, n. 317, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 ottobre 1987, n. 398.”

 

È importante considerare, al fine di comprenderne al meglio le implicazioni, che la disciplina appena menzionata costituisce una deroga a quanto previsto dai precedenti 8 commi del medesimo articolo, i quali regolano la determinazione del lavoro dipendente sulla base del principio fondamentale secondo il quale “il reddito di lavoro dipendente è costituito da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro” (articolo 51, comma 1).

 

L’articolo 8-bis, al fine di determinare il reddito imponibile, si rifà al contrario a “retribuzioni convenzionali”, le quali, come si evince dall’articolo 4, comma 1, del d.l. 317/1987, devono essere determinate “con riferimento e comunque in misura non inferiore ai contratti collettivi nazionali di categoria raggruppati per settori omogenei”, senza tenere conto della retribuzione effettivamente corrisposta al lavoratore.

 

La società, dunque, domanda all’Agenzia delle Entrate se il fatto che il lavoratore distaccato all’estero abbia svolto la propria attività lavorativa dalla propria abitazione italiana nel corso del 2020 modifichi o meno le modalità di determinazione del reddito dipendente ai fini dell’imposizione fiscale.

 

Al fine di sostenere l’applicabilità dell’articolo 51, comma 8-bis del TUIR anche durante il periodo di remote working del dipendente, la società menziona le raccomandazioni emanate dall’OCSE il 3 aprile 2020 in materia di interpretazione delle Convenzioni contro le doppie imposizioni, nelle quali il suddetto organismo invita i Paesi aderenti a “fare esclusivo riferimento ai comportamenti che si sarebbero tenuti in uno scenario di normalità, senza dare rilevanza alle deviazioni dettate dall’emergenza e dai vincoli alla mobilità imposti dai Governi”.

 

Di conseguenza, seguendo questa linea di ragionamento, la società ritiene di poter considerare i mesi svolti dal dipendente in remote working quale periodo utile ai fini del computo dei giorni di attività svolta all’estero, il quale, in questo modo, soddisferebbe il requisito temporale minimo utile al fine dell’applicazione delle regole dell’articolo 51, comma 8bis del TUIR.

 

L’Agenzia delle Entrate, nel rispondere al quesito posto dalla società, tuttavia afferma come le menzionate raccomandazioni dell’OCSE non possano essere utilizzate al fine di interpretare la normativa fiscale nazionale, data la loro natura di norme internazionali pattizie: medesima considerazione deve essere svolta per quanto riguarda le diposizioni, di simile tenore, contenute all’interno di un accordo amichevole tra Italia e Francia siglato il 23 luglio del 2020, anch’esse portate dalla società interpellante a sostegno della propria posizione.

 

Al contrario, l’ente fiscale italiano ritiene di dovere utilizzare come criteri interpretativi quelli contenuti in una circolare del Ministero delle Finanze (n. 207 del 2000) e una della stessa Agenzia delle entrate (n. 17/E del 2017), le quali sanciscono che il criterio da adottare ai fini dell’applicazione delle norme interne che disciplinano la tassazione del reddito di lavoro dipendente sia quello della presenza fisica del lavoratore nello Stato in cui viene effettuata la prestazione lavorativa.

 

Di conseguenza, l’Agenzia delle Entrate ritiene che la disciplina contenuta al comma 8-bis dell’articolo 51 del TUIR sia applicabile unicamente al periodo intercorrente dal 1° novembre 2019 al 22 febbraio 2020, periodo nel quale il lavoratore ha effettivamente soggiornato all’estero per più di 183 giorni: per quanto concerne i redditi conseguiti a partire dal 23 febbraio 2020, l’imponibile dovrà al contrario essere rideterminato sulla base delle indicazioni contenute nei commi 1-8 del medesimo articolo.

 

L’appena descritto parere dell’Agenzia delle Entrate risulta particolarmente interessante, dato il suo fornire specifiche indicazioni in merito a una situazione vissuta da molti lavoratori italiani “expatriates”, ritrovatisi a dovere rientrare in Italia durante il periodo di massimo sviluppo della pandemia da COVID-19.

 

Non solo: esso permette a quei lavoratori che, grazie all’enorme sviluppo del cosiddetto “smart working”, stanno considerando di svolgere la propria prestazione lavorativa, per periodi più o meno lunghi, in un paese diverso rispetto a quello in cui è presente la loro vera e propria sede di lavoro, di avere un quadro leggermente più chiaro in merito alle relative questioni fiscali.

 

Diletta Porcheddu

Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@DPorcheddu

 

 

L’Agenzia delle Entrate fornisce alcuni chiarimenti sulla tassazione del reddito al tempo del lavoro da remoto