Il vero dato sull’occupazione è che il Jobs Act va completato

Non passa settimana senza che il lavoro e le sue statistiche occupino con forza il dibattito pubblico  generando schiere contrapposte di detrattori del governo e di strenui difensori dei risultati del Jobs Act. Il clima di scontro è favorito dalla diffusione costante di numeri e dati che, dall’avvio dell’ultima riforma del lavoro, vengono rilasciati da diversi enti nazionali e internazionali. Se infatti sommiamo Istat, Inps, Ministero del Lavoro, Isfol, Banca d’Italia, Eurostat e Ocse, solo per citarne alcuni, e consideriamo che spesso si tratta di dati che provengono da fonti diverse ed elaborati con tecniche statistiche differenti, è facile immaginare la confusione che si può generare. I dati non sono neutrali, possono essere interpretati e offerti al pubblico in modi diversi a seconda dell’opinione che si vuole generare. Così si può passare dalle cifre di Bankitalia della scorsa settimana che ci informavano di essere tornati al numero di occupati pre-crisi a quelli dell’Inps di questa settimana che fotografano uno scenario diverso, con un 2016 caratterizzato dalla caduta libera del numero di contratti di lavoro, e in tutto questo l’Istat che negli ultimi mesi certifica una sostanziale stagnazione del mercato del lavoro italiano. Come è possibile tutto questo? La spiegazione si ottiene approfondendo la natura dei singoli numeri e dati. La Banca d’Italia nelle sue elaborazioni tiene conto ad esempio non solo degli occupati residenti nel nostro paese ma anche di coloro che vi lavorano ma non vi risiedono; in questo modo i numeri assoluti sono più alti.  L’INPS invece non si occupa di statistiche ma di dati amministrativi, ossia certifica tutti i nuovi contratti che vengono firmati ogni giorno, ed è bene ricordare che può capitare il caso di un lavoratore che si trova ad avere più di un contratto. È chiaro quindi come non conoscendo queste informazioni basilari su come i numeri sono ottenuti spesso si paragonano dati molti diversi e andrebbero letti in parallelo.

 

Qual è quindi veramente la situazione del mercato del lavoro italiano che gli ultimi dati dell’Inps ci consegnano? Proviamo ad andare con ordine. Nei primi 8 mesi del 2016 il numero di nuovi contratti di lavoro stipulati in Italia è calato dell’8,5%, soprattutto a causa di un forte crollo dei contratti a tempo indeterminato, che sono diminuiti del 32,9%, ben 392 mila in meno dello stesso periodo dell’anno precedente. Crescono invece i contratti a termine del 2,5% e quelli di apprendistato del 18%, mentre diminuiscono anche i contratti stagionali del 7,4%, dato negativo se pensiamo che nel mese di agosto questi tipi di contratto sono più utilizzati rispetto ad altri momenti dell’anno. In pratica ad agosto su 100 nuovi contratti avviati solo 25 erano a tempo indeterminato, mentre lo scorso anno erano 10 in più.

 

Tutto questo si può spiegare con la riduzione degli incentivi per l’assunzione a tempo indeterminato a partire dall’inizio del 2016. Se prima ad una impresa che era intenzionata ad assumere un nuovo lavoratore conveniva economicamente scegliere questo tipo di contratto, oggi non è più così vantaggioso e i numeri lo dimostrano. In tanti hanno cercato di giustificare questi dati sostenendo che le imprese hanno anticipato le assunzioni previste per quest’anno al 2015, per approfittare degli incentivi, ma se questo poteva avere un senso per spiegare le cifre dei primi mesi dell’anno, è difficile pensare che il calo delle assunzioni di giugno-luglio-agosto sia dato da questo motivo.

 

Se quindi le statistiche dell’Istat degli ultimi mesi ci dicono che il numero degli occupati (non dei contratti) è stazionario, il trend dell’Inps, che è negativo lungo tutti gli ultimi 8 mesi, ci fa immaginare che nei prossimi mesi assisteremo, purtroppo, ad un calo di occupazione, o quantomeno non ad una forte ripresa come ci auspicheremmo. Se infatti il numero di lavoratori oggi è molto simile a quello del 2008, non bisogna dimenticare che negli anni di crisi la popolazione è aumentata, per cui non possiamo più accontentarci degli occupati di qualche anno fa, motivo per cui il tasso di occupazione è ancora sotto i livelli pre-crisi. Infatti, pur con i miglioramenti che si sono visti, e che sembrano chiaramente oggi determinati unicamente dalla presenza di forti incentivi nell’anno passato, l’Italia resta l’ultimo paese in Europa per tasso di attività, ossia per numero di persone attive rispetto al totale della popolazione. Oggi nel nostro Paese continuano a lavorare solo un terzo delle persone, il numero dei disoccupati è fermo da un anno a circa 2,9 milioni e quello degli inattivi supera i 14 milioni.

 

Ma oltre al tentativo di riordinare numeri e dati è importante cercare di leggere le trasformazioni in atto nel mondo del lavoro, per evitare di rimanere imbrigliati nel dibattito contingente. È emblematica in questo senso la polemica che si è generata a fronte dell’aumento, certificato dall’INPS, dei licenziamenti per giusta causa, che nell’ultimo anno sono cresciuti di circa il 31%. Questo dato, in parte prevedibile dopo le novità in materia di articolo 18 introdotte dal Jobs Act, è stato letto come un fallimento della riforma che ha portato più lavoratori a perdere il lavoro. Lo stesso dato però può farci dare un giudizio diverso, seppur sempre critico: infatti in un mercato del lavoro moderno la possibilità di terminare un rapporto di lavoro è più elevata e proprio per questo  è fondamentale sviluppare tutto un sistema di politiche del lavoro che consentano a chi ha perso il posto di trovarne altri, di ricollocarsi e riqualificarsi a seconda delle condizioni di mercato. Analizzato sotto questa angolatura il dato è molto differente e introduce un elemento fondamentale, ossia che il concetto di politiche occupazionali e quello di politiche del lavoro non vanno confusi. Le prime si esercitano attraverso gli incentivi fiscali ed altre leve economiche, sono utili in periodo di crisi e spesso non hanno una visione a lungo termine, per questo devono essere accompagnate dalle seconde che, intervenendo sulla regolazione dei meccanismi di domanda e offerta di lavoro possono incidere in modo strutturale. Oggi si discute molto sugli effetti delle politiche occupazionali, degli effetti degli incentivi, incagliandosi in analisi di breve termine, mese dopo mese e settimana dopo settimana evitando sempre di allargare lo sguardo verso quelle politiche del lavoro che davvero possono aiutare a risolvere i problemi storici del nostro mercato. Parliamo di un moderno sistema di politiche attive che, dopo gli annunci degli scorsi mesi oggi sembra essere tornato nel dimenticatoio, politiche educative che davvero facciano incontrare giovani e lavoro, un panorama contrattuale che non si fossilizzi sul dualismo tra subordinazione ed autonomia ma che sia al passo con le esigenze di imprese e lavoratori di oggi. Difficile dunque dire se il Jobs Act funziona quando questo importante pezzo della riforma è allo stato presente solo sulla carta ma senza alcun concreto sbocco operativo.

 

Perché i numeri sono importanti ed è doveroso riportarli e soprattutto renderli comprensibili a tutti, ma occorre un impegno di tutti per guardare al disegno più ampio, perché i cambiamenti epocali che stiamo vivendo non riguardano il prossimo mese, mai prossimi vent’anni.

 

Francesco Seghezzi

Responsabile comunicazione e relazioni esterne di Adapt

Direttore ADAPT University Press

@francescoseghezz

 

Michele Tiraboschi

Coordinatore scientifico ADAPT

@Michele_ADAPT

 

Pubblicato anche su Avvenire, il 20 ottobre 2016

 

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Il vero dato sull’occupazione è che il Jobs Act va completato
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