Politiche attive, i rischi di un (auto)GOL

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Bollettino ADAPT 13 settembre 2021, n. 31

 

Nel dibattito politico-sindacale le politiche attive sono il convitato di pietra ormai da più di vent’anni. In particolare ora vengono invocate e attese per contrastare la disoccupazione e per contribuire alla ripresa dall’emergenza pandemica che l’economia italiana sta attraversando nel più ampio quadro nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Nel PNRR sono destinati alle politiche attive oltre sei miliardi di euro. 600 milioni per il rafforzamento dei Centri per l’impiego, 600 milioni per l’implementazione del sistema duale e 4,4 miliardi di euro per il Piano Nazionale Nuove Competenze (PNC) e per il Programma Nazionale per la Garanzia Occupabilità dei lavoratori (GOL).

 

Non molto si conosce dei due piani, baricentro del nuovo sistema di politiche attive in Italia, se non che entro la fine dell’anno il governo dovrà procedere con i decreti interministeriali che, a seguito di intesa in Conferenza Stato-Regioni, forniranno il quadro normativo di riferimento e le linee guida che le Regioni si impegneranno a seguire nell’implementazione delle misure negli anni successivi (entro il 2022 dovranno essere adottati i piani regionali ed eseguito il 10% delle attività previste nel piano quinquiennale 2021-25).

 

Gli obiettivi sono ambiziosi. Da quanto emerge da alcune slide presentate dal Ministro del lavoro ad agosto alle regioni e poi ai sindacati – unica fonte da noi reperibile al momento – nel quinquennio 2021-2025 dovranno essere raggiunti almeno ben tre milioni di beneficiari, di cui il 75% disoccupati di lunga durata, donne, persone con disabilità, giovani under 30, lavoratori over 55.

 

Il programma GOL e il piano PNC paiono doversi intendere integrati gli uni con gli altri, nell’ambito di una tanto richiamata quanto al momento indefinita cooperazione e sinergia tra servizi e attori diversi, nell’ottica di un superamento della distinzione tra le politiche della formazione e le politiche attive del lavoro. Sono configurati cinque percorsi e tipologie di intervento a seconda delle caratteristiche dei beneficiari e dalla loro vicinanza la mercato del lavoro. Si va dai percorsi di reinserimento lavorativo, a quelli di upskilling e reskilling per chi ha esigenza di aggiornare o riprogettare il proprio profilo professionale, sino a percorsi di lavoro ed inclusione nei casi di bisogni complessi oppure a percorsi collettivi con azioni di gruppo per lavoratori coinvolti in crisi aziendali.

 

Non è ancora del tutto chiaro se il Programma GOL si limiterà a fissare obiettivi da raggiungere e livelli essenziali delle prestazioni che le regioni dovranno garantire adoperando comunque misure e politiche attive di tipo regionale oppure se si tratta piuttosto di una o più misure specifiche (come lo sono il Reddito di cittadinanza o l’Assegno di ricollocazione, per intenderci). Il rischio, per come sono stati presentati, che i percorsi, pur a fronte della volontà di creare dei modelli, non riescano a raggiungere quel livello di personalizzazione che la complessità del mercato del lavoro odierno richiede. Personalizzazione che aggiunge di certo oneri a chi deve gestire accompagnare le persone coinvolte, ma che sembra l’unica strada per evitare una burocratizzazione che, sebbene appaia confortante per alcuni, difficilmente porterà efficienza.

 

Ma non solo. Anche la platea dei beneficiari, seppur più ampia rispetto alle misure ordinarie, con la rinnovata attenzione ai lavoratori in cassa integrazione – già previsti tra i destinatari delle politiche attive dell’art. 22 del d.lgs. n. 150 n. 2015 rimasto a lungo inattuato – e con il riconoscimento (ancora imprecisato) dei working poors, è sempre definita e individuata sulla base di uno status occupazionale (occupato/disoccupato) dimenticando che le transizioni da presidiare sono molteplici e ignorando ciò che emerge inequivocabilmente dal dialogo con le aziende e le imprese: tutti dovrebbero avere diritto alle politiche attive, anche gli occupati (formazione, supporto nella gestione delle carriere, orientamento professionale, certificazione delle competenze, ecc.) così da superare la logica riparatoria, in un mercato del lavoro come quello attuale in cui l’urgenza non è appena quella di reinserire disoccupati quanto piuttosto di accompagnare lavoratori già occupati in riorganizzazioni e conversioni professionali, tanto più in un contesto dove le nuove assunzioni avvengono nella grande maggioranza dei casi con contratti a tempo determinato che sicuramente non fanno venire meno la necessità di tutele transizionali. I dati che provengono dal mercato del lavoro sembrano andare inoltre in questa direzione. La ripresa occupazionale in corso è dominata, come già avvenuto dal 2014, da lavoratori temporanei pur in presenza di un quadro normativo (il Decreto Dignità) che non promuove queste forme di lavoro. Pensare quindi che le politiche attive siano un insieme di strumenti dedicati principalmente a chi non ha un lavoro (fatte salve certe categorie di lavoratori) significa arrendersi ad attendere che i lavoratori temporanei diventino disoccupati e agire in modo emergenziale.

 

Anche la scelta di insistere sui Centri per l’impiego come canale privilegiato se non unico («i CPI sono la porta d’accesso a GOL») per accedere alle politiche attive appare francamente inspiegabile, e non è un caso che la Commissione abbia imposto, disattendendo le richieste dell’Italia, che i target da raggiungere siano fissati a livello di singolo Centro per l’impiego e non a livello regionale.

 

Si continua a trascurare il contributo che può essere offerto anche dagli operatori “privati”, che non sono solo le Agenzie per il lavoro, che hanno ben dimostrato il valore aggiunto che possono offrire – è sufficiente pensare al caso Veneto, dove gli Assegni per il lavoro utilizzati dai lavoratori sono circa 60mila (numeri impensabili per l’Assegno di ricollocazione nazionale, per intenderci) sono spesi per lo più presso le Apl. Ma anche le imprese, le associazioni e le organizzazioni sindacali dovrebbero giocare un ruolo decisivo: le parti sociali, approfittando del regime privilegiato previsto dall’art. 6 del d.lgs. 276/2003, ben potrebbero accreditarsi come operatori delle politiche attive. E in questa direzione, al di là degli aspetti formali, si muovono esperienze come quelle dell’azienda Bayer o dell’azienda Timken che, con la collaborazione di Confindustria Bergamo e Confindustria Brescia, hanno assunto, anche con accordi sindacali, l’impegno a ricollocare lavoratori in esubero. Così come manca all’appello il sistema formativo, quando ormai tutti riconoscono che uno dei problemi principali dell’inefficenza del mercato del lavoro sia proprio la difficoltà di incontro tra domanda e offerta.

 

È irrealistico immaginare che la transizione di un’economia, di un modello sociale (e delle stesse persone) possa passare soltanto da un ufficio pubblico che, piaccia o non piaccia, agli occhi dei cittadini e agli occhi delle imprese, non è diverso da un qualsiasi ufficio amministrativo-burocratico. E in questo senso anche il sindacato, che da tempo ambisce di rispondere ai nuovi bisogni, comprensibilmente preoccupato di non riuscire a intercettare i lavoratori al di fuori delle aziende ordinarie, può rivendicare uno spazio che non sia appena consultivo.

 

Giorgio Impellizzieri

Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@giorgioimpe

 

Francesco Seghezzi

Presidente Fondazione ADAPT

Scuola di alta formazione su transizioni occupazionali e relazioni di lavoro

@francescoseghezz

 

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