Il contributo dei lavoratori stranieri alla crescita europea
Bollettino ADAPT 19 maggio 2025, n. 19
Lo scenario europeo post-pandemico è segnato da una crescita economica lenta e da bassa produttività. Due dei fattori principali, come già ampiamente discusso anche qui sul Bollettino (ad esempio in questo articolo di Francesco Seghezzi), sono il basso tasso di fertilità e l’aumento dell’età media della popolazione, che porta a un invecchiamento – e in molti casi ad un calo – della forza lavoro. Un recente contributo sul blog della Banca Centrale Europea mostra però come, in molti casi, questo calo sia stato controbilanciato da un forte aumento della forza lavoro. Gli autori evidenziano infatti che il suo tasso di crescita è più che raddoppiato rispetto al periodo pre-Covid (dall’1 al 3% circa).
Secondo la BCE, questo risultato è dovuto sia all’incremento della forza lavoro nazionale (che comunque invecchia), sia – soprattutto – a quello della componente straniera: sebbene nel 2022 gli stranieri rappresentassero solo il 9% del totale, il loro contributo ha generato metà della crescita complessiva degli occupati negli ultimi tre anni, pari a 3,1 milioni di persone. I migranti, inoltre, hanno inciso non solo sull’offerta di lavoro ma anche sull’output: tassi occupazionali in aumento e flussi migratori sostenuti hanno dato impulso al PIL. Dal 2021, infatti, il PIL è cresciuto del 5% circa, con un aumento di 1 punto percentuale solo nel 2024. Il ruolo della forza lavoro straniera qui appare evidente, rappresentando circa la metà dell’intera crescita registrata nel 2024.
Il contributo della manodopera straniera ha però avuto un impatto differenziato nei vari paesi europei. In Italia, ad esempio, la partecipazione dei migranti al mercato del lavoro resta bassa, ma ciò non ha impedito una crescita trainata in gran parte da lavoratori autoctoni. Diversamente, in paesi come Germania e Spagna l’alto impiego di migranti ha mitigato gli effetti del calo demografico, mentre in Francia e Olanda l’effetto è stato più contenuto.
Gli autori spiegano che la rapida integrazione dei lavoratori stranieri sia stata resa possibile da vari fattori: in primis, il loro livello di istruzione, ormai paragonabile a quello dei lavoratori nazionali (entrambi registrano una crescente partecipazione all’istruzione terziaria). In secondo luogo, una maggiore presenza in settori high-skilled: sebbene i migranti restino prevalenti nei lavori meno qualificati, il tasso di overqualification è calato (dal 40% al 35% circa dal 2019). Tuttavia, permane un’alta incidenza di contratti a termine tra i lavoratori stranieri, e questo può ostacolare una crescita più robusta e inclusiva.
In definitiva, in un’Europa segnata da declino demografico e partecipazione stagnante al mercato del lavoro, i lavoratori migranti rappresentano una risorsa preziosa. Come dimostrato nel blog BCE, hanno ampliato l’offerta di lavoro, ridotto i colli di bottiglia occupazionali e sostenuto la crescita del PIL. Il loro impatto varia da paese a paese, ma – come emerge dai casi di Spagna e Germania – è chiaro che senza di loro la ripresa sarebbe stata più debole.
Infine, pur a fronte di un miglioramento qualitativo del loro contributo – grazie a livelli di istruzione più elevati e a una crescente presenza nei settori avanzati – restano criticità, specie nella piena valorizzazione delle competenze. Investire nel riconoscimento delle qualifiche straniere potrebbe rafforzarne la stabilità occupazionale, migliorare la qualità dei contratti e accrescerne ulteriormente il contributo alla crescita economica e alla produttività dell’area.
Alessandra Della Vecchia
Apprendista di Ricerca ADAPT
@Alessandra64683
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