È legittima la disciplina sanzionatoria prevista dal Jobs Act per i licenziamenti collettivi

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Bollettino ADAPT 12 febbraio 2024, n. 6
 
La recente sentenza della Corte Costituzionale n. 7/2024, che ha confermato il regime sanzionatorio previsto dal Jobs Act per i licenziamenti collettivi illegittimi (in conseguenza della violazione dei criteri di scelta), ha avuto una notevole risonanza mediatica.
 
Da una lettura approfondita, tuttavia, la sentenza in esame non contiene particolari elementi di novità e invero si inserisce perfettamente nel “solco” dei principi già espressi negli ultimi anni dalla Consulta, nei diversi casi in cui quest’ultima ha esaminato la legittimità costituzionale di altre norme del Jobs Act.
 
La Corte di appello di Napoli aveva censurato l’applicazione ai licenziamenti collettivi della tutela indennitaria prevista dal Jobs Act (art. 10, d.lgs. n. 23/2015), per tre ordini di motivi:

1. perché ciò non sarebbe stato previsto dalla legge delega, in quanto quest’ultima prevedeva la tutela indennitaria solo per il licenziamento per “motivi economici” e tale definizione, ad avviso della Corte di appello di Napoli, non avrebbe potuto ricomprendere anche la fattispecie dei licenziamenti collettivi;

2. perché determinerebbe “una disciplina ingiustificatamente e irragionevolmente differenziata, in riferimento allo stesso licenziamento collettivo, tra lavoratori “giovani” (con anzianità a partire dal 7 marzo 2015) e quelli “anziani” (assunti prima della data suddetta), i quali ultimi conservano, invece, la reintegrazione nel posto di lavoro”;

3. perché, in ogni caso, la tutela solo indennitaria non costituirebbe una sanzione adeguata a un licenziamento illegittimo.
 
La Consulta, però, ha dichiarato non fondate tutte le censure, per le seguenti ragioni:

1. non è ravvisabile alcun “eccesso di delega”, in quanto nel concetto di “licenziamento economico” deve ricomprendersi, in forza di un’interpretazione sia letterale sia in base alla ratio legis (a seguito di un’approfondita analisi dei lavori parlamentari da parte della Consulta stessa), anche il licenziamento collettivo, che è pur sempre motivato da “ragioni d’impresa” (e quindi “economiche”);

2. con riguardo all’asserita violazione del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), la Corte ha correttamente richiamato le motivazioni già espresse nella precedente sentenza n. 194 del 2018, in cui si era espressa sui licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, e il consolidato principio per cui “non contrasta, di per sé, con il principio di eguaglianza un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche”: pertanto, nel caso di specie, la ragionevolezza del differente trattamento è data dal fatto che il “contratto di lavoro a tutele crescenti e la relativa disciplina dei licenziamenti miravano ad incentivare l’occupazione, soprattutto giovanile, e la fuoriuscita dal precariato a mezzo della creazione di una fattispecie di lavoro subordinato a tempo indeterminato maggiormente “attrattiva” per i datori di lavoro”, evidentemente in ragione della forte limitazione della tutela reintegratoria e della calcolabilità del rischio economico;

3. la Corte ha poi ribadito un altro principio consolidato, ovvero che la tutela reale costituisce “solo uno dei modi per realizzare la garanzia del diritto al lavoro (sentenze n. 183 del 2022, n. 150 del 2020, n. 194 del 2018 e n. 46 del 2000)”: di conseguenza, non è incostituzionale la tutela indennitaria prevista dal Jobs Act, che mantiene comunque una sufficiente funzione dissuasiva nei confronti del datore di lavoro.
 
Infine, vi è un invito al legislatore a rivedere complessivamente le tutele previste in caso di licenziamento illegittimo, vista la presenza di discipline differenti che sono la conseguenza di una stratificazione degli interventi normativi succedutisi nel tempo: anche tale invito non è una novità, essendo già contenuto nella precedente sentenza n. 183 del 2022 (in quel caso, peraltro, la Corte aveva rilevato pure un deficit di adeguatezza della tutela indennitaria per le aziende con meno di 15 dipendenti).
 
Tuttavia, se è pur vero che la situazione ad oggi è piuttosto variegata, è altrettanto vero che ormai i soggetti coinvolti (aziende, lavoratori e sindacati) hanno ormai “metabolizzato” il complessivo sistema di tutele, il quale progressivamente si uniformerà nel tempo, riducendosi sempre di più la popolazione che ha iniziato il rapporto di lavoro in essere in data antecedente al marzo 2015.
 
Ritengo quindi – questo è il mio parere squisitamente personale – che sarebbe più urgente e necessario un intervento legislativo che limiti in qualche modo la discrezionalità del giudice sulla quantificazione dell’indennità risarcitoria prevista dall’art. 3 del Jobs Act, in quanto ad oggi – dopo Corte Cost. n. 194/2018 – risulta esageratamente ampia la “forchetta” indennitaria tra 6 e 36 mensilità di retribuzione.
 
Basterebbe prevedere, a mio avviso, un intervento mirato che preveda possibilità per il giudice di aumentare/diminuire l’indennizzo fino a un massimo di 6 mensilità rispetto all’importo risultante dal conteggio svolto in base al solo criterio della anzianità (che è stato considerato incostituzionale in quanto l’art. 3, d.lgs. n. 23/2015, lo indicava come unico parametro utilizzabile dal Giudice). In questo modo, infatti, si permetterebbe al Giudice di tenere in considerazione ulteriori parametri per la quantificazione dell’indennità, ma si permetterebbe allo stesso tempo una ragionevole prevedibilità del rischio di causa in caso di impugnazione del licenziamento.
 
Federico Ubertis

ADAPT Professional Fellow

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