Il lavoro irregolare: la piaga dell’economia sommersa italiana

Interventi ADAPT

| di Samuele Ognibene

Bollettino ADAPT 27 ottobre 2025, n. 37

L’economia sommersa

Si definisce “economia sommersa” l’insieme delle componenti di valore aggiunto occultato tramite comunicazioni intenzionalmente errate del fatturato e/o dei costi nel bilancio di un’impresa oppure generato tramite l’impiego di lavoro in nero e dei fitti senza regolare contratto. Secondo un report ISTAT datato 17 ottobre 2025, in Italia, nel 2023, il valore dell’economia sommersa è stato pari a poco meno di 198 miliardi di euro, in crescita di 14,9 miliardi rispetto al dato del 2022.

Il lavoro irregolare in Italia: qualche dato

Il numero di unità di lavoro irregolari (definito come il volume totale di lavoro irregolare prestato da tutte le persone che vi concorrono, anche solo per qualche ora, trasformato in unità equivalenti a tempo pieno) si attesta a circa 3 milioni e 132mila (con un aumento di questo dato del 4,9% rispetto all’anno precedente), occupate prevalentemente in lavoro dipendente (2 milioni e 274mila unità), mentre il tasso di irregolarità si assesta al 12,9%. Si stima invece che su 100 occupati, poco meno di 10 siano irregolari. Il numero totale di posizioni lavorative irregolari, tenendo a mente che una persona può svolgere più di un lavoro, è superiore a 3 milioni e 600mila unità. Sempre secondo i dati riportati dall’ISTAT, sui circa 198 miliardi di euro citati in precedenza, la componente connessa al lavoro non regolare ammonta a 77,2 miliardi.

Lavoro irregolare: settori economici

Guardando alla concentrazione di lavoro irregolare nei diversi settori dell’economia, si riscontra una maggiore incidenza di lavoro non regolare nel settore servizi alla persona, categoria da ricomprendere all’interno del macro-aggregato del settore terziario e di cui fa parte anche ad esempio il lavoro domestico, con un tasso che si assesta al 40,5% sul totale delle unità di tempo pieno lavorate, seguito dal settore agricolo con il 17,6%. Sempre al settore dei servizi alla persona è da ricondurre la crescita più marcata del tasso di irregolarità, con un +1,2%, seguito dal settore del commercio, trasporti, alloggio e ristorazione, dove si registra un incremento di 0,5 punti percentuali.

È in ogni caso importante segnalare come, a partire dal 2015, il fenomeno del lavoro irregolare sia in lenta diminuzione. Questi dati, però, continuano a testimoniare chiaramente che la presenza del lavoro irregolare è una caratteristica preponderante del mercato del lavoro italiano, collocando l’Italia al di sopra della media europea per percentuale di presenza del lavoro irregolare, lontana dai Paesi più virtuosi in questo ambito, come la Germania, l’Austria e i Paesi Bassi.

Il lavoro irregolare come necessità: il caso dei braccianti agricoli

Alcuni studi hanno dimostrato come la principale motivazione che spinge i dipendenti ad accettare un lavoro irregolare sia la necessità di ottenere un salario e la mancanza di vere alternative.

Un esempio in merito attiene alla condizione di centinaia di migliaia di lavoratori impiegati nel settore agricolo: secondo il settimo rapporto su agromafie e caporalato redatto dall’Osservatorio Placido Rizzotto della Federazione Lavoratori Agroindustria (FLAI-CGIL) e datato dicembre 2024, sono oltre 200mila i lavoratori irregolari (tra cui 50mila donne) impiegati nel settore primario.

Questi lavoratori, spesso migranti provenienti da altri Paesi privi di documenti di identità e con scarsa o praticamente nulla conoscenza della lingua italiana, vedono nel sottostare a questa forma di sfruttamento l’unica via per poter ottenere una paga con cui vivere. Il salario mediano corrisposto a questi lavoratori irregolari è di circa 20 euro al giorno, per una giornata lavorativa spesso lunga dalle 12 alle 14 ore; totalmente assenti sono ogni forma di tutela e sicurezza sul posto di lavoro.

Non è dunque un caso se, nel dibattito pubblico, si sia addirittura ritenuto che, in taluni casi, l’irregolarità sia talmente grave da ricordare forme di schiavitù. Il confine tra un lavoro irregolare e uno sfruttamento criminale, infatti, è purtroppo in questo ambito molto labile: alcune infime condizioni lavorative nel settore agricolo raggiungono livelli tali da sconfinare nei reati previsti dall’articolo 603-bis del Codice Penale, secondo cui «chiunque svolga un’attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione, approfittando dello stati di bisogno dei lavoratori (…) è punito con la reclusione da cinque a otto anni e con la multa da mille a duemila euro per ciascun lavoratore reclutato» e, talvolta, anche dall’articolo 600 del Codice Penale, il quale stabilisce che «chiunque esercit[i] su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà, ovvero riduc[a] o mant[enga] una persona in uno stato di soggezione continuativa», attuando questa condotta «mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di vulnerabilità (…) o di una situazione di necessità», commette un illecito penale punibile con la reclusione da otto a venti anni.

In questi casi, i lavoratori sono soggiogati al datore di lavoro nella quasi totalità degli aspetti della propria vita professionale e privata, dipendendo da esso non solo per la retribuzione del proprio lavoro subordinato, ma anche per il trasporto verso il luogo di lavoro, per vitto e alloggio, essendo obbligati (anche, e soprattutto, per mancanza di alternative percorribili) a vivere in veri e propri “ghetti”, nell’accezione più significativa del termine, lontani dai centri abitati, privi di servizi igienici, acqua corrente, elettricità e in cui è praticamente impossibile mantenere le più basilari norme igieniche. Non sono mancati anche casi in cui il bracciante agricolo è finanche tenuto a pagare per i servizi offertogli: in tali casi, dunque, si vedrà sottratti dalla sua già misera “busta paga” i costi per vitto, alloggio e trasporto, creando, nel tempo, una situazione di perenne indebitamento con il datore di lavoro, che in molte circostanze richiede inoltre di elargire pagamenti ricorrenti a fronte della loro garanzia di poter rimanere in territorio italiano. Questa condizione di dipendenza dall’imprenditore e di isolamento dal “mondo esterno” comporta che, se anche essi volessero muoversi attivamente per cercare di denunciare gli abusi subiti e migliorare la propria condizione lavorativa e di vita, non saprebbero a chi rivolgersi e come farlo.

Il lavoro irregolare come scelta “consapevole”

Non mancano però anche casi di segno inverso, in cui sono i lavoratori a decidere consapevolmente (forse per scarsa conoscenza del mercato del lavoro e dei propri diritti) di accettare un lavoro irregolare per poter ottenere una retribuzione maggiore (non dovendo curarsi di pagare trattenute fiscali IRPEF o contributi INPS, sia per quanto riguarda il lavoro dipendente che quello indipendente) o per non perdere sussidi statali che non potrebbero essere erogati a un lavoratore che figura attivamente occupato, non curandosi della conseguente mancanza di tutela, anche a proposito di strumenti di previdenza sociale.

Un esempio significativo in merito si rinviene nel settore del lavoro domestico e riguarda lavoratori e lavoratrici impiegati con mansioni di baby-sitter o badanti. Secondo il “Rapporto annuale su lavoro domestico 2022” redatto dall’Osservatorio Nazionale DOMINA in collaborazione con la Fondazione Leone Moressa circa un individuo occupato su due in questo ambito lavora irregolarmente.

I motivi principali di questa mancata regolarizzazione, emersi dai questionari somministrati ai datori di lavoro, sono l’impiego per un tempo limitato (“solo per poche ore/giorni”), gli eccessivi costi che sarebbero da sostenere, l’esplicita richiesta del lavoratore. Dal punto di vista dei lavoratori, invece, il sondaggio ha avuto come risultato maggiormente diffuso la risposta “non so”, seguita da “costi elevati”, “impiego per poche ore/giorni” e “richiesta esplicita del lavoratore”. Dunque, secondo quanto sostenuto dal 13,3% dei datori di lavoro domestico e dal 6,8% degli occupati, sarebbe il lavoratore stesso a richiedere di non voler lavorare regolarmente.

Nonostante sia evidente che un sondaggio non possa esprimere un valore assoluto, ciò è sicuramente esemplificativo di come alcuni lavoratori vedano (in modo sicuramente “miope”) un vantaggio nel lavorare irregolarmente; inoltre, il sondaggio somministrato ai lavoratori fa emergere la scarsa conoscenza degli obblighi e dei diritti legati al mondo e al mercato del lavoro (quantomeno per gli individui impiegati in questo settore, ma  la medesima riflessione potrebbe essere estesa ad ampie fasce di lavoratori in Italia), in quanto ben il 44,1% degli intervistati avrebbe risposto di non sapere il perché della propria situazione lavorativa irregolare.

Considerazione finali

In conclusione, da questi dati emerge quanto sia fondamentale da un lato continuare la lotta contro il lavoro irregolare, cercando di fare sì che a coloro che sono ora costretti ad accettare un’occupazione non regolare siano offerte opportunità concrete di formazione professionale (sia teorica che pratica) e di lavoro, dall’altro cercare di aumentare la diffusione delle conoscenze di base riguardo al mercato del lavoro e ai diritti e alle tutele di cui il lavoratore può e deve godere.

Samuele Ognibene

Studente del Dipartimento di Economia “Marco Biagi”

Università di Modena e Reggio Emilia

X@samuognibene