Tirocini: una politica del lavoro tutto sommato efficace

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La nota tecnica elaborata dall’Anpal sui tirocini consegna due evidenze relativamente ai tirocini.

La prima, sulla quale qui non ci si sofferma, è in chiaroscuro. Come rilevato dal direttore di ADAPT, Francesco Seghezzi, la crescita molto rilevante dei tirocini:

 

a) può essere il segnale di un’economia in crisi, nella quale i tirocini assumono sia il ruolo i una pre-prova, sia di uno strumento di abbassamento del costo del lavoro;

b) può essere il frutto di un cattivo utilizzo dello strumento, qualora non orientato alla formazione, bensì all’utilizzo di forza lavoro sotto costo;

c) può essere il portato di un’eccessiva attenzione del progetto Garanzia Giovani sul tirocinio, piuttosto che sull’incontro domanda/offerta, tenendo presente che Garanzia Giovani ha certamente in parte spinto il ricorso ai tirocini, perché finanziati dalle risorse pubbliche.

 

La seconda evidenza, sulla quale verte questo approfondimento, porta verso una visione del fenomeno dei tirocini maggiormente a tinte chiare, se i dati dell’Anpal sono visti dal lato della realizzazione delle politiche attive per il lavoro.

Partiamo da una constatazione: la promozione dei tirocini extracurriculari costituisce uno dei livelli essenziali delle prestazioni che il d.lgs 150/2015 prevede per l’attività dei centri per l’impiego. L’articolo 18, comma 1, lettera g), del decreto assegna espressamente ai servizi pubblici per il lavoro la funzione essenziale della “promozione di esperienze lavorative ai fini dell’incremento delle competenze, anche mediante lo strumento del tirocinio”.

 

Normativamente, quindi, il tirocinio è a tutti gli effetti una “politica attiva”: cioè un dispositivo che serve per attivare la persona nella ricerca del lavoro, nel caso di specie acquisendo un’esperienza all’interno di un’azienda, utile per apprendere gli elementi fondamentali di un certo mestiere e le regole dei rapporti con l’impresa e così, successivamente risultare maggiormente spendibile nel mercato, aumentando le probabilità di successo occupazionale.

 

Nello stesso tempo, il tirocinio è un utilissimo sistema per incrementare le relazioni tra i servizi pubblici per il lavoro e le imprese: infatti, attraverso la promozione dei tirocini, di competenza dei centri per l’impiego, e la redazione dei progetti formativi in collaborazione con le aziende, si creano le condizioni per contatti positivi tra i servizi per il lavoro e gli imprenditori, dai quali possa successivamente scaturire una maggior fiducia di questi ultimi sui primi e, quindi, la captazione di un maggior numero di vacancy ai fini dell’incontro domanda/offerta.

 

Il tirocinio, quindi, per un verso è uno strumento per incrementare l’occupabilità dei lavoratori, mentre per altro verso è una politica anche verso le imprese di promozione dei servizi.

Al netto, quindi, dei rischi retrostanti, evidenziati sopra, l’incremento dei tirocini dal punto di vista dell’efficacia dei servizi per il lavoro ai lavoratori ed alle imprese è un elemento tutt’altro che negativo.

Non solo: i numeri evidenziati dall’Anpal possono rivelarsi decisivi per sfatare, almeno in parte, il mito dei centri per l’impiego “inutili” e da abolire, da ultimo enfatizzato da Il Messaggero del 6 maggio 2018, con l’articolo “Il flop degli uffici di collocamento: danno lavoro al 3% dei disoccupati”, nel quale, riportando i soliti dati (dalla fonte mai, tuttavia, qualificata su base certa) dell’intermediazione di lavoro del solo 3% da parte dei servizi pubblici, si afferma che “la cifra di chi bussa ai centri (Cpi), secondo le stime di Isfol e Istat, supera i due milioni e mezzo di persone, circa 360 mila al mese. A realizzare il sogno di avere un lavoro sono in pochi: 36 mila collocati l’anno”. Ci sarebbe da osservare, comunque, che i conti di queste stime non tornano: il 3% di 2,5 milioni è 75.000 e non 36.000.

In disparte la circostanza che non tutti coloro che entrano in contatto con i Cpi cercano lavoro (moltissime sono le persone che chiedono certificati di disoccupazione, oppure svolgono colloqui di orientamento, e anche quelle che si iscrivono nelle liste solo per ottenere prestazioni sociosanitarie, sebbene l’articolo 19, comma 7, del d.lgs 150/2015 vieti alle PA di assegnarle sulla base del requisito della disoccupazione), l’analisi dell’Anpal deve portare a valutare l’operato dei centri per l’impiego in tutt’altro modo.

 

Soffermiamoci sui dati del 2016: i tirocini attivati sono stati 318.535, le aziende ospitanti 153.291 e i lavoratori coinvolti 299.595, cioè circa il 94% del numero totale dei tirocini.

L’Anpal informa che il 40% dei tirocini sono stati promossi dai centri per l’impiego: dunque, sono imputabili ai servizi pubblici 127.414 tirocini; se vale la media vista prima, secondo la quale su 100 tirocini 94 riguardano lavoratori differenti, allora i servizi pubblici hanno attivato nel 2016, su questa politica attiva, 119.769 lavoratori.

Ora, sempre l’Anpal informa che il 39,1% dei lavoratori coinvolti in un tirocinio a distanza di 6 mesi ha trovato occupazione con contratti di apprendistato o a tempo determinato o, in parte più limitata, a tempo indeterminato. Quindi, attraverso il tirocinio, di fatto i servizi per il lavoro hanno intermediato assunzioni per circa 46.830 persone.

Alcune considerazioni. Di per sé, il lavoratore avviato a tirocinio, ai fini delle rilevazioni sugli occupati effettuate dall’Istat, su indicazioni dell’Eurostat, è considerato come occupato. Sul piano statistico, quindi, i tirocini elevano il tasso di occupazione (si concordi o meno col criterio statistico, che, comunque, questo è e fa fede). Dunque, i servizi per il lavoro pubblici hanno contribuito ai dati degli occupati per circa 127.414 persone, nel 2016.

 

In secondo luogo, il numero dei 36.000 lavoratori “collocati” dai servizi pubblici secondo le “stime” richiamate da Il Messaggero è frutto di interviste campionarie: insomma, sono 36.000 circa le persone che hanno dichiarato di aver reperito lavoro tramite i centri per l’impiego.

È assai facile, tuttavia, che un disoccupato ritenga di aver reperito autonomamente un lavoro, anche se per il conseguimento di questo obiettivo sia stato avviato grazie, ad esempio, ad un colloquio di orientamento che lo abbia saputo indirizzare correttamente alle aziende giuste alle quali proporsi. Allo stesso modo, un lavoratore potrebbe considerare di aver reperito autonomamente il lavoro se “confermato” a seguito di un tirocinio, non avendo modo di considerare appieno il tirocinio medesimo come politica del lavoro finalizzata indirettamente all’intermediazione.

Assai probabilmente, quindi, la percentuale del 3% di intermediazioni da parte dei cpi è fortemente sottostimata e realisticamente non tiene conto dei tirocini, né ai fini dell’avvio ad occupazione ai fini Istat, né degli esiti occupazionali.

 

Banalmente, semplicemente sommando al dato stimato di 36.000 lavoratori che hanno trovato lavoro quello dei 127.414 avviati a tirocinio, si potrebbe affermare che nel 2016 163.414 persone hanno cambiato status da disoccupato a occupato a fini statistici, con un tasso di efficacia, sui 2,5 milioni che “frequentano” i Cpi, per restare a quanto afferma Il Messaggero, pari al 6,54%. Ragionevolmente, abbassando ad 1,5 milioni le persone che si rivolgono ai centri per l’impiego per cercare un lavoro (escludendo chi chiede solo pratiche amministrative, anche ai fini della percezione della Naspi), il tasso di efficacia salirebbe al 10,89%. Se alla base di calcolo di 1,5 milioni di persone che contattano i centri per l’impiego sommiamo invece i 36.000 che dichiarano di aver reperito lavoro tramite essi e le 46.830 che si può stimare nel 2016 abbiano trovato lavoro a seguito dell’esperienza del tirocinio, 82.830 persone avrebbero così trovato un lavoro, con un tasso di efficacia pari al 5,52%, quasi il doppio delle “stime” che da anni circolano rispetto all’efficacia dei centri per l’impiego.

Rapportando ai 6.600 dipendenti circa dei servizi pubblici per il lavoro le persone che tra “dichiarazioni” e tirocini si può stimare abbiano trovato lavoro tramite i centri per l’impiego, ogni dipendente avrebbe in media contribuito a collocare 12,55 persone.

In ogni caso, i servizi pubblici avrebbero avuto modo comunque di riferirsi direttamente a circa il 40% delle imprese ospitanti i tirocini, quindi circa 61.316 aziende.

 

L’analisi del fenomeno dei tirocini, quindi, dal lato delle politiche attive per il lavoro rivela che si tratta di uno strumento potenzialmente molto utile, perché al di là dei numeri e delle stime (che restano imprecise e, comunque, sebbene tenendo conto dei tirocini ben maggiori di quelle “storiche” ma ancora non soddisfacenti, anche perché 6.600 dipendenti dei servizi pubblici italiani non potranno mai produrre i volumi che in Francia assicurano 50.000 loro colleghi ed in Germania oltre 100.000) confermano come il tirocinio sia effettivamente uno strumento di contatto circolare tra persone in cerca di lavoro, servizi pubblici per il lavoro ed imprese, molto utilizzato e con un tasso di efficacia significativa.

Occorre tenere presente un fattore: indubbiamente i tirocini possono essere spinti dai morsi della crisi economica e dalla “droga” del finanziamento pubblico delle indennità connesse, ma per altro verso i servizi per il lavoro, sia pubblici, sia privati, possono intermediare evidentemente il lavoro e le esigenze che esprime il mercato e, quindi, il sistema delle aziende.

 

Se la domanda di lavoro è ancora limitata, mentre quella di tirocinio “tira”, non può non considerarsi corretto l’adempimento da parte dei servizi pubblici per il lavoro ad un livello essenziale delle prestazioni, foriero di successivi buoni esiti occupazionali.

Il problema resta quello della promozione di tirocini realmente formativi che non dissimulino forme di lavoro vero e proprio, o tirocini per mansioni generiche prive della necessità di specifiche attività formative.

C’è poi il rischio della possibile “trappola” dei tirocini: un vortice nel quale il lavoratore si veda coinvolto in proposte solo di tirocini.

Questi rischi vanno affrontati con le regole di controllo e di ingaggio. Il rischio dei tirocini di cattiva qualità si deve prevenire con l’attenta attività di promozione e di costruzione dei progetti formativi da parte dei promotori, a monte, e l’efficace attività dei servizi ispettivi, a valle. Il rischio dell’intrappolamento nei tirocini potrebbe essere gestito stabilendo che l’esperienza dei tirocini, se reiterata due volte (con ditte diverse, ovviamente) per la stessa attività lavorativa, implichi un riconoscimento formale della competenza e della qualifica, così da imporre alle aziende che propongano un terzo tirocinio di passare direttamente a forme di assunzione vera e propria, o un trattamento economico e contributivo molto più elevato e parametrabile a quello del lavoro subordinato vero e proprio.

 

Insomma, le cautele sono sempre opportune quando l’utilizzo di uno strumento letteralmente esplode, ma anche la valutazione delle positività dietro i fenomeni appare necessaria, sia per valutare l’efficacia delle politiche, sia per provare a immaginare correttivi.

 

Luigi Oliveri

ADAPT Professional Fellow

@rilievoaiace1

 

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