Una regolazione agile per il lavoro che cambia

Il cambiamento del lavoro inizia oggi a essere finalmente compreso nella sua profondità e radicalità: Industry 4.0, la stampante 3D, la robotica e l’intelligenza artificiale, i big data, la biotecnologia, la nanotecnologia e la genetica, stanno portando anche il nostro Paese nel cuore di quella che è stata definita la Quarta Rivoluzione Industriale.

 

Non parliamo di scenari avveniristici. È il World Economic Forum a ricordarci che i principali cambiamenti sottesi a questa nuova “Grande Trasformazione” del lavoro avverranno da qui ai prossimi cinque anni. E che il prezzo che potremmo pagare, in assenza di una precisa strategia, rischia di essere molto alto: disoccupazione tecnologica di massa, obsolescenza di professionalità e competenze, aggravamento del già marcato disallineamento tra domanda e offerta di lavoro con una definitiva marginalizzazione dell’Italia nello scenario economico globale. Fattori demografici (invecchiamento, malattie croniche, bassi tassi di occupazione e alti tassi di inattività e lavoro nero) uniti a storiche inefficienze strutturali e di sistema che colpiscono tanto il sistema creditizio quanto il welfare, la scuola, l’innovazione e la ricerca rendono l’Italia in posizioni di particolare debolezza in uno scenario di marcato dinamismo e “agilità” che pure dovrebbe essere propizio alle dimensioni delle nostre imprese e al DNA dei nostri lavoratori e imprenditori.

 

Più volte annunciata, anche nelle versioni catastrofiste della “fine del lavoro”, questa imminente rivoluzione non è mai stata da noi presa sul serio soprattutto in relazione alla sempre evidente convergenza, ancora oggi negata da molti attori del sistema italiano di relazioni industriali, dei nuovi paradigmi dello sviluppo economico e di quelli dello sviluppo sociale nella piena valorizzazione della persona. La più recente evoluzione del quadro regolatorio del lavoro ne è un esempio emblematico perché ancora oggi tutto incentrato, pur dopo cinque riforme negli ultimi cinque anni, attorno al modello del lavoro subordinato standard proprio di quel Novecento industriale scandito da logiche verticistiche di comando e controllo assai lontane dai nuovi modelli d’impresa e di lavoro.

 

I tumultuosi cambiamenti in atto, che incidono su imprese e lavoro, non sono solo di tipo economico, ambientale e geo-politico. Stili di vita, preferenze, esigenze personali e professionali, in particolare dei cosiddetti millennials, sono in rapida evoluzione. Non più un posto di lavoro per tutta la vita, ma neanche un unico luogo di lavoro durante lo stesso rapporto di lavoro, e neppure un orario fisso. Non poche persone preferiscono oggi lavorare per obiettivi, fasi e cicli ed essere conseguentemente valutate sulla produttività e sul risultato raggiunto piuttosto che in base a parametri come l’ora di lavoro e la presenza fisica nei locali aziendali. La mobilità e il cambiamento di occupazione non sono più visti in negativo ma anzi come un passaggio spesso obbligato per acquisire nuove e maggiori competenze. Le tecnologie di nuova generazione non sono altro, in questa dimensione, che uno strumento che può andare incontro a questi profondi mutamenti sociali e culturali che potrebbero aprire a nuove opportunità professionali e occupazionali. Ci troviamo, quindi, in uno scenario nel quale il lavoro è già agile, prima ancora che una legge lo riconosca. Per contro, una legge promozionale e di sostegno potrebbe massimizzare le opportunità e contenere i rischi che sono inevitabilmente connessi a ogni fase di trasformazione epocale come quella che stiamo vivendo.

 

Ce lo diceva bene Marco Biagi, già quindici anni fa, con parole che assumono oggi, nella dimensione della Quarta Rivoluzione Industriale e del c.d. “Internet delle Cose”, un valore profetico e premonitore più di quanto avessimo a suo tempo inteso e poi parzialmente realizzato, in un contesto ideologico e culturale di invincibile conservazione che ci pare oggi definitivamente demolito dalla “Grande Crisi”, con la legge del 2003 a lui dedicata.

 

“Il mercato e l’organizzazione del lavoro si stanno evolvendo con crescente velocità” – ci diceva Marco Biagi nel saggio presentato al comitato scientifico di Confindustria che portò poi al Libro Bianco sul mercato del lavoro del 2001“non altrettanto avviene per la regolazione dei rapporti di lavoro”. Per poi aggiungere: “il sistema regolativo dei rapporti di lavoro ancor oggi utilizzato in Italia e, seppur con diversi adattamenti, in Europa, non è più in grado di cogliere – e governare – la trasformazione in atto. La stessa terminologia adottata nella legislazione lavoristica (es. «posto di lavoro») appare del tutto obsoleta. Assai più che semplice titolare di un «rapporto di lavoro», il prestatore di oggi e, soprattutto, di domani, diventa un collaboratore che opera all’interno di un «ciclo». Si tratti di un progetto, di una missione, di un incarico, di una fase dell’attività produttiva o della sua vita, sempre più il percorso lavorativo è segnato da cicli in cui si alternano fasi di lavoro dipendente ed autonomo, in ipotesi intervallati da forme intermedie e/o da periodi di formazione e riqualificazione professionale”.

 

Come abbiamo cercato di dimostrare in un recente contributo, anche il Jobs Act, nel superare le vecchie rigidità del Novecento industriale, compie un meritorio passo in avanti, ancora tutto da verificare invero sul piano delle politiche attive e di ricollocazione, senza tuttavia portare il nostro Paese nella modernità del lavoro del futuro che, per definizione, è agile e cioè a risultato, per progetti, fasi, cicli.

 

Può essere che il superamento del lavoro a progetto, ma non delle vecchie collaborazioni coordinate e continuative, abbia colto e interpretato alcune patologie e disfunzioni pratiche nella implementazione della legge Biagi, ma certamente lascia un vuoto normativo rispetto a una dimensione del lavoro sempre meno scandita da orari, luoghi di lavoro e relativi controlli e, per contro, sempre più caratterizzata da una dimensione collaborativa volta a valorizzare, a livello individuale e aziendale o comunque di prossimità e rete, competenze, professionalità, obiettivi, progetti e con essi la produttività e qualità del fattore lavoro e la sua corretta remunerazione in termini di valore creato e condiviso.

 

Resta insomma quanto mai attuale il monito di Marco Biagi: “il quadro giuridico-istituzionale ed i rapporti costruiti dalle parti sociali, quindi il diritto del lavoro e le relazioni industriali, devono cogliere queste trasformazioni in divenire, agevolandone il governo”. E con esse la sua precisa indicazione di metodo: “si tratta di uscire dalla logica di un confronto di breve respiro: le parti sociali devono trovare le convergenze per coltivare una nuova progettualità nella gestione delle risorse umane e dei rapporti collettivi di lavoro, modernizzando il sistema delle regole che dovrà diventare sempre più concordato e meno indotto dall’attore pubblico”.

 

Il Governo si presta ora ad affrontare il tema del lavoro agile in Parlamento. Obiettivo di una nuova legge non dovrebbe tuttavia essere quello di introdurre nell’ordinamento giuridico una nuova tipologia contrattuale dagli incerti confini applicativi, in quanto connessa alla utilizzazione nei contesti produttivi e di lavoro di tecnologie di nuova generazione in continua e rapida evoluzione; e tanto meno quello di introdurre correttivi alle regole, molte delle quali peraltro di matrice comunitaria, che, come nel caso del telelavoro, hanno sino a oggi limitato la diffusione di forme flessibili di lavoro da remoto anche in chiave di (sola) conciliazione dei tempi di vita e di lavoro delle donne. Lo stesso tema della conciliazione resta centrale ma, a ben vedere, riguarda oggi tutte le persone, in tutte le fasi della vita, e si estende ai temi del benessere, della salute, della previdenza e dell’apprendimento continuo sollecitando la costruzione di un nuovo Welfare della persona che risponda alla domanda, sempre più centrale, di garantire la sostenibilità a tutte le persone e in tutte le dimensioni.

 

L’obiettivo di un progetto di legge con lo sguardo rivolto al futuro dovrebbe essere al tempo assai più ambizioso e limitato e cioè fornire alle parti del contratto di lavoro e agli attori del sistema di relazioni industriali, in chiave di prossimità e sussidiarietà, una adeguata cornice legale entro cui ricondurre una nuova idea di lavoro e impresa che via via emerge con la diffusione della fabbrica digitale, della economia della condivisione e di quei “sistemi intelligenti” tra di loro connessi per il tramite di reti di impresa, piattaforme open acess di cooperazione, distretti industriali e della conoscenza popolati da ricercatori, analisti, progettisti, startupper, freelance, creativi, programmatori e sviluppatori che si muovono in una dimensione agile e in continua evoluzione. Una dimensione che, come tale, non può essere cristallizzata in logiche definitorie astratte e immobili nel tempo.

 

Nella grande trasformazione del lavoro sempre meno rilevano compiti e mansioni meramente esecutivi del Novecento industriale e sempre meno trovano applicazione quei meccanici processi imitativi o riproduttivi che hanno caratterizzato i metodi di produzione e organizzazione del lavoro di stampo fordista e taylorista. Anche la più recente evoluzione della riflessione pedagogica, sociologica e manageriale segnala una tendenziale evoluzione delle aziende da organizzazioni economiche finalizzate, anche per espressa definizione codicistica, alla mera produzione o allo scambio di beni e servizi, a vere e proprie learning organization, in cui sono sempre più diffuse figure professionali ibride, a metà tra la ricerca e la gestione del cambiamento nei processi produttivi e organizzativi, che integrano lavoro, apprendimento, ricerca e progettazione generando un elevato valore aggiunto in termini di innovazione nei processi produttivi e/o dei modi di erogare servizi.

 

Per questo resta valido il suggerimento di Marco Biagi verso una dimensione sussidiaria e concordata del nuovo assetto regolatorio del lavoro che, per funzionare, deve essere sempre meno indotto dall’attore pubblico, là dove un testo di legge sarebbe per contro apprezzabile solo nella misura in cui, quale “norma cornice” di tipo permissivo e non definitorio, consentisse alle parti di sottoscrivere appositi accordi di lavoro per adattare caso per caso le regole standard del relativo rapporto e con esse orari e luoghi del lavoro in modo da contemperare le variabili e multiformi esigenze della produzione e con preferenze personali o stili di vita sempre più differenziati e mutevoli e come tali gestibili solo a livello individuale o di prossimità.

 
Michele Tiraboschi

Coordinatore scientifico ADAPT

@Michele_ADAPT
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