Scuola-lavoro. Prendiamoci cura dei nostri ragazzi costruendo una vera cultura della prevenzione

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Bollettino ADAPT 10 ottobre 2022, n. 34

 

La seconda domenica di ottobre, in Italia, è dedicata alla Giornata nazionale per le vittime degli incidenti sul lavoro. Vittime di una strage silenziosa e dolorosa che non possiamo ricordare solo nelle ricorrenze o lasciare alla retorica delle frasi di circostanza che, ritualmente, si ripetono all’indomani del singolo accadimento. Tutte queste vittime meritano rispetto e l’impegno concreto, da parte di tutti noi, per rendere i luoghi di lavoro più sicuri e per contribuire a costruire una vera cultura della prevenzione a favore di chi lavora ma anche di chi frequenta ambienti di lavoro per motivi di studio, formazione e addestramento pratico.

 

Non possiamo infatti dimenticare, in questo giorno, tra le tante vittime del lavoro anche Giuseppe e Giuliano, i due ragazzi che nel 2022 hanno perso la vita mentre erano coinvolti in una esperienza di alternanza scuola-lavoro. Giuliano, l’ultimo in ordine di tempo, era uno studente dell’ITIS Leonardo Da Vinci di Portogruaro. Lo scorso 16 settembre, al quarto giorno di stage aziendale, è stato travolto da una lastra di acciaio del peso di due tonnellate. Non si può morire sul lavoro, si urla a gran voce a ogni “morte bianca”. A maggior ragione non è accettabile la morte di un ragazzo chiamato a frequentare un ambiente lavorativo per svolgere una esperienza formativa che lo apra alla vita e non che gliela tolga. Lo strazio dei familiari e lo sgomento dei compagni di scuola di Giuliano sarebbero di per sé argomenti “forti” per mettere una pietra tombale su queste esperienze. Cosa infatti si può rispondere al padre Enzo, operaio metalmeccanico, quando afferma che “con la morte di Giuliano il mio mondo è finito”? E quale conforto ora si può dare alla mamma Antonella e al fratellino di soli dieci anni? Sicuramente non sono di aiuto dissertazioni sulle forme contrattuali in forza delle quali si sono registrate queste disgrazie, come se una morte sia più tollerabile se si realizza durante un contratto di lavoro a tempo indeterminato rispetto a uno stage, come nel caso di Giuliano che, come hanno raccontato i genitori, si trovava in azienda animato da un forte desiderio di crescere come persona e di imparare un mestiere per la vita. 

 

Allora il modo più adeguato per guardare a quanto è successo non è quello di ricadere in un complesso dibattito tecnico sul metodo didattico della alternanza formativa, ma prendere sul serio quel desiderio di un apprendimento e di una crescita integrale e pienamente umana. Che non può essere tale se non si sviluppa anche in esperienze concrete e reali, che della vita fanno parte. La soluzione, lo sanno bene i genitori e gli educatori, non può essere certo quella di eliminare a parole i rischi presenti nel percorso di crescita dei nostri figli, ma imparare tutti a prenderci cura di loro. In questo caso fino al dettaglio della progettazione dei percorsi in alternanza: la formazione alla sicurezza, l’erogazione di vera formazione, la promozione di esperienze di qualità, i controlli e le sanzioni. Inutile difendere il grande valore educativo dell’alternanza se non siamo poi capaci, nella pratica, di realizzare percorsi di apprendimento seri e svolti in totale sicurezza. E chi crede nel valore di queste esperienze non può che essere in prima linea a reclamare la loro piena serietà, contro l’approssimazione, se non la malafede, che molte volte prevale.

 

Michele Tiraboschi

Ordinario di diritto del lavoro

Università di Modena e Reggio Emilia

@MicheTiraboschi 

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