Il mio canto libero – Salario minimo: mai compromettere l’autonomia collettiva

 
Bollettino ADAPT 13 giugno 2022, n. 23
 
Nelle società insicure la cattiva politica è sempre tentata di ricercare il consenso attraverso l’offerta di soluzioni legislative. Sembra talora, soprattutto in materia di lavoro, che i volantini di un tempo oggi si facciano norma. Le leggi vengono così costruite con una forte impronta comunicazionale e nascono, esse stesse da una pressione mediatica. Se poi un istituto diventa oggetto di una campagna ostile insistita, ancorché menzognera, ne diventa presto la vittima sacrificale. Così è accaduto al contratto a progetto che pure fu disegnato da Marco Biagi in base all’intuizione di quel lavoro ibrido a risultato che avremmo poi chiamato smartworking. E così poi è stato dei voucher che sempre Biagi ha suggerito per la regolarizzazione dei lavori brevi in agricoltura e nelle famiglie.
 
La tesi della legge sul salario minimo dei dipendenti si sostiene attraverso la illusione ottica per cui sarebbe funzionale ad assorbire il lavoro povero. Eppure, osservando con attenzione la realtà, poveri sono i lavoratori subordinati che involontariamente fanno poche ore, ancorché correttamente remunerate, e i lavoratori autonomi occasionali o a partita iva costretti ad accettare un compenso vile e non protetti né da leggi né da contratti collettivi. Nel primo caso la risposta è la crescita economica accompagnata da una riduzione del costo indiretto del lavoro che incoraggi la propensione ad assumere. Nel secondo caso la soluzione non può consistere nella trasformazione forzosa di tutti i prestatori autonomi in subordinati ma in una norma, questa sì necessaria, che tuteli la giusta remunerazione anche delle libere professioni secondo le tariffe ministeriali o gli “usi” rilevabili dalle Camere di Commercio.
 
Il ministro del lavoro non ipotizza la cifra fissa ma insiste per una disposizione che dia efficacia erga omnes ai trattamenti economici complessivi dei livelli minimi dei contratti sottoscritti dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative dei settori di riferimento (o più prossimi). Con la possibile conseguenza di aprire la strada ad una incursione legislativa nella definizione dei criteri di rappresentatività e quindi nella autonomia collettiva così gelosamente conservata dagli attori sociali nei lunghi decenni successivi alla adozione della carta costituzionale. Ne vale la pena? In fondo i contratti sospetti di produrre concorrenza sleale sono applicati ad una percentuale di lavoratori stimata attorno all’uno per cento e sono agevolmente contrastabili attraverso la via amministrativa combinata con il calcolo della rappresentatività realizzato in base a un accordo tra le stesse organizzazioni. D’altronde, proprio il carattere relativo (confronto tra organizzazioni) e non assoluto (percentuale sull’intera platea di imprese o lavoratori) del criterio di calcolo giustifica l’autodisciplina mediante accordo interconfederale.
 
In gioco è la fondamentale libertà di associazione e di contrattazione mai riconducibile ad un assetto pubblistico. L’esperienza italiana, fondata sul pluralismo dei corpi della rappresentanza, ha sin qui dimostrato un equilibrio che può essere pericoloso mettere in discussione. Questo deve piuttosto evolvere verso la dimensione aziendale e territoriale ove la rappresentatività si definisce ancor più naturalmente e i salari, collegandosi alla produttività, alla professionalità e alla scomodità possono crescere senza stimolare la maggiore inflazione. Ne dovrebbe essere complemento una detassazione secca e agevolata così che davvero chi lavora di più e meglio, o più faticosamente, possa guadagnare di più.
 

Maurizio Sacconi
Chairman ADAPT Steering Committee
@MaurizioSacconi

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