Rifiuta il full-time e viene licenziata: secondo la Cassazione il recesso è legittimo

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Bollettino ADAPT 5 dicembre 2023, n. 42
 
La Corte di Cassazione con l’ordinanza 23 ottobre 2023, n. 29337 si è espressa in merito alla legittimità del licenziamento individuale conseguente al rifiuto da parte del dipendente alla trasformazione del contratto di lavoro a tempo parziale in contratto di lavoro a tempo pieno. La Suprema Corte ha stabilito che il datore di lavoro può legittimamente recedere da un contratto di lavoro part-time se il lavoratore rifiuta il full-time purché dimostri l’inutilizzabilità della prestazione a tempo parziale e l’assenza di alternative organizzative al licenziamento.
 
Questi i fatti di causa. Nel marzo 2019 la dipendente di una società, titolare di un contratto di lavoro part-time orizzontale da venti ore settimanali, era stata licenziata dal datore di lavoro per soppressione della posizione lavorativa in seguito al rifiuto della proposta della società della conversione del contratto di lavoro in tempo pieno.
 
La dipendente riteneva il recesso del datore illegittimo in quanto privo di giustificato motivo oggettivo e ritorsivo, e lo impugnava dinanzi al Tribunale di Milano. Il giudice di primo grado aveva respinto la domanda ritenendo esistenti al momento del licenziamento comprovate esigenze organizzative tali da legittimare il recesso.
 
Il giudice di secondo grado adito dalla lavoratrice in riforma della pronuncia di primo grado aveva ritenuto, invece, non incontrovertibile il nesso eziologico tra il recesso del datore e la riorganizzazione aziendale dovuta a una crescita dell’attività lavorativa. Inoltre, il giudice aveva sostenuto la ritorsività del licenziamento in quanto direttamente conseguente al rifiuto di trasformazione del rapporto da part-time in full-time.
 
La questione giunge quindi dinanzi alla Corte di Cassazione, chiamata a decidere su tre motivi di ricorso addotti dalla società ricorrente:

a) la Corte d’Appello ha considerato il recesso del datore illegittimo in quanto privo di gmo, negando in tal modo che il licenziamento sia scaturito da un’effettiva esigenza organizzativa. La riorganizzazione è stata infatti ritenuta pretestuosa e non effettiva, ma una simile affermazione implica un sindacato del giudice in merito all’opportunità della scelta organizzativa imprenditoriale il che eccederebbe i limiti di legittimità del sindacato stesso;

b) inoltre il medesimo organo giudicante ha ritenuto il licenziamento ritorsivo. Il ricorrente sostiene che non sia configurabile in questo caso la fattispecie prevista dall’art. 1345 c.c. – motivo illecito – in quanto questo dovrebbe presentarsi come causa unica e determinante ai fini del recesso;

c) infine, per la società ricorrente, la Corte d’Appello ha omesso la valutazione di fatti decisivi, in quanto non ha in concreto verificato l’inutilizzabilità della prestazione a seguito del rifiuto e dunque anche l’impossibilità per il datore di inserire in modo differente la dipendente all’interno dell’assetto organizzativo.
 
La Corte di Cassazione ritiene i tre motivi di ricorso fondati.
 
Nella decisione il giudice di ultima istanza analizza anzitutto la disciplina applicabile ratione temporis al recesso, partendo dal dispositivo dell’art. 8 co. 1 d.lgs. n. 81/2015.
 
La disposizione, infatti, prevede che il rifiuto del dipendente alla trasformazione del contratto di lavoro da full time a part time, e viceversa, non costituisce giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Tuttavia, per la Suprema Corte, dalla disposizione non deve trarsi la regola per cui al datore è fatto assoluto divieto di licenziamento ma deve interpretarsi nel senso che sull’imprenditore grava un particolare onere della prova ai fini della dimostrazione della sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di recesso.
Nel caso de quo, il giudice di legittimità sottolinea come la società ricorrente sia tenuta a provare la sussistenza e l’effettività delle esigenze economiche e organizzative che hanno reso inutilizzabile la prestazione part time; il rifiuto da parte della dipendente; il nesso causale tra le intervenute esigenze organizzative che hanno comportato la necessità della modificazione del “tempo della prestazione” e il licenziamento.
 
Nell’ottica della Corte per aversi licenziamento legittimo, in un simile caso, questo non deve essere intimato a causa del rifiuto ma a causa dell’impossibilità per il datore di utilizzare altrimenti la prestazione a fronte di effettive e comprovate esigenze organizzative.
 
Per quanto riguarda il motivo ritorsivo la Corte conferma l’interpretazione del ricorrente per cui seppur non sia possibile escluderlo nel caso oggetto di giudizio, affinché possa configurarsi ai sensi dell’art. 1345 c.c. è richiesto un nesso causale unico e determinante.
 
All’esito della ricognizione del contenuto della sentenza oggetto di commento, si possono operare alcune considerazioni conclusive.
 
La questione sottoposta all’attenzione della Corte di Cassazione non rappresenta un quid novi, in quanto sia la giurisprudenza di legittimità (ex multis Cass. n. 14871/2017, Cass. n. 20750/2017, Cass. n. 12794/2019) che la dottrina si sono espresse, in numerose occasioni, in merito al licenziamento economico, e alla giustiziabilità delle scelte imprenditoriali.
 
Il giustificato motivo oggettivo, difatti, rappresenta un’estrinsecazione della scelta che l’imprenditore opera sulla base di esigenze gestionali e organizzative del complesso produttivo. Le scelte che attengono alla gestione e all’organizzazione dell’impresa costituiscono delle prerogative tutelate dall’art. 41 Cost., che incontrano quale unico limite l’utilità sociale. In un’ottica sistematica, tuttavia, va individuato il limite posto da un altro principio costituzionale espresso dall’art. 4 Cost. consistente nell’interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro quale declinazione del più ampio diritto al lavoro.
 
Proprio per tali ordini di ragioni si deve evidenziare come la scelta economica va procedimentalizzata e assoggettata a un controllo esterno. La portata del controllo giudiziale, secondo una giurisprudenza consolidata, non può però estendersi fino a travolgere il merito delle ragioni d’impresa che hanno portato al recesso ma deve far riferimento unicamente a due elementi “di legittimità”: effettività e veridicità delle ragioni addotte e nesso di causalità tra la scelta economica e il licenziamento.
 
La pronuncia in oggetto accoglie e ripropone queste considerazioni di fondo, presentando inoltre la scelta del licenziamento quale extrema ratio, da operarsi unicamente laddove sia impossibile collocare differentemente e utilmente il lavoratore all’interno dell’assetto organizzativo dell’impresa.
 
Nello stesso segno si pone anche un’altra recente ordinanza della Cassazione, del 13 novembre 2023, n. 31561 la quale riafferma la necessità che il datore operi un accurato vaglio delle differenti possibili collocazioni dei lavoratori (c.d. obbligo di repêchage). Anche la ricollocazione del lavoratore tuttavia, necessita di un controllo giudiziale estrinseco che permetta di valutare oggettivamente la possibilità di ricollocamento, questo in quanto in caso contrario afferma la Corte “si lascerebbe l’adempimento dell’obbligo alla volontà potestativa dell’imprenditore, che potrebbe riservare la scelta a valutazioni che, in quanto occulte non potrebbero essere sindacabili neanche nella loro effettività e veridicità” (Cass. n. 31561/2023, punto 2.3).
 
Tabata Maini   

ADAPT Junior Fellow

Rifiuta il full-time e viene licenziata: secondo la Cassazione il recesso è legittimo