Referendum sul lavoro: il punto di vista del Prof. Andrea Lassandari
Bollettino ADAPT 3 giugno 2025, n. 21
Abbiamo chiesto al Prof. Andrea Lassandari e al Prof. Arturo Maresca di rispondere ad alcune nostre domande in merito ai quattro quesiti referendari che saranno oggetto della votazione dell’8 e 9 giugno 2025 in tema di lavoro.
Il Prof. Andrea Lassandari insegna diritto del lavoro presso l’Università di Bologna, qui sotto potete leggere le sue risposte. Potete invece trovare l’intervista al Prof. Arturo Maresca, Professore ordinario di diritto del lavoro presso l’Università Sapienza di Roma, a questo link.
Negli ultimi anni il mercato del lavoro è stato oggetto di frequenti interventi legislativi: accanto all’attivismo del legislatore, anche il sindacato ha iniziato ad intestarsi un’autonoma iniziativa di modifica delle disposizioni legali. Per la seconda volta (il primo tentativo, nel 2017, fu bloccato dalla Corte costituzionale), infatti, il sindacato prova ad incidere sulla regolamentazione del lavoro ricorrendo allo strumento del referendum abrogativo. Prima di entrare nel merito dei quesiti proposti dalla CGIL, ritiene che questo rinnovato protagonismo del sindacato nella definizione delle norme sul lavoro, anche attraverso l’utilizzo dell’istituto referendario, rappresenti un’evoluzione positiva della sua funzione di rappresentanza?
Considero l’iniziativa referendaria del sindacato una risposta al contesto politico e istituzionale in cui esso si muove.
Il sindacato ha sempre utilizzato diversi strumenti nell’esercizio della sua funzione di rappresentanza e tutela: quelli tradizionali, come la contrattazione collettiva o la mobilitazione, ma anche altri, pure inizialmente impiegati con cautela, come lo strumento giudiziario. Non gli sono così neanche sconosciute l’iniziativa legislativa e lo stesso referendum.
La CGIL oggi sta facendo un tentativo di intervento legislativo come peraltro ha fatto la stessa CISL, con la recentissima proposta di legge sulla partecipazione.
I referendum sono senz’altro uno strumento a disposizione anche del sindacato, impiegabili nel caso in cui non siano evidentemente condivisi il contenuto di determinate norme, così come l’indirizzo politico di cui queste costituiscono espressione.
Oggi il sindacato opera in un contesto che vede ridimensionata o comunque resa più complessa la connessione con il potere politico e, di conseguenza, anche la capacità di incidere sulle scelte legislative. A differenza di quanto accadeva nel secolo scorso, è in buona parte venuta meno la doppia rappresentanza, sia sindacale che politica, dei lavoratori. Alcune delle riforme del lavoro più contestate degli ultimi decenni dai sindacati sono state promosse da governi di centrosinistra.
A fronte di questa nuova situazione, il referendum – pur difficile da utilizzare, specie per i vincoli tecnici e il quorum – è allora uno strumento prezioso per far emergere istanze sociali e conflitti che altrimenti rischierebbero di restare senza rappresentanza istituzionale.
Entrando nel merito dei quesiti referendari, due di questi attengono alla disciplina dei licenziamenti. Il primo mira ad abrogare totalmente il d. lgs. n. 23/2015 – uno dei decreti attuativi del c.d. Jobs Act – che prevede le tutele in caso di licenziamento illegittimo per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 e su cui già più volte si è pronunciata la Corte costituzionale. A suo avviso, le ragioni che avevano spinto il legislatore del 2015 ad intervenire sulla disciplina dei licenziamenti possono dirsi oggi superate?
Non so dire se le ragioni del legislatore del 2015 siano oggi considerate superate. Probabilmente no, se si ascolta quanto diversi ispiratori e protagonisti, in sede politica, di quella fase storica continuano a sostenere.
È però vero che pure chi manifestò critiche non credo abbia mutato avviso. A partire certamente dalla CGIL.
A me, comunque, l’opinione critica pare oggi molto più estesa, potendo contare su argomenti ancora più forti.
Il testo normativo, di cui si propone l’abrogazione, cercava di realizzare una forma di “flexicurity”. L’idea di fondo – che poi, in forma più soft,era la stessa della legge Fornero e che a tanti non sembrava già allora né convincente né opportuna – era di lasciare assai più libere le imprese, nell’obiettivo di produrre effetti positivi sull’occupazione e sulla competitività.
Se queste erano le ragioni politiche alla base della riforma, bisogna però valutarne il reale impatto. Non ci sono stati, a mio avviso, risultati apprezzabili sul piano occupazionale, che peraltro ritengo legati alle dinamiche di sviluppo economico e non ai caratteri della normativa giuslavoristica. Tantomeno sulla qualità del lavoro. Anzi, si è realizzata una progressiva erosione delle garanzie dei lavoratori, che ha reso sempre più evidenti e drammatici i fenomeni del lavoro precario, povero, insicuro. Senza effetti positivi sulla riduzione del lavoro irregolare, problema storico del Paese di cui nessuno parla più. Mentre le tutele nel mercato del lavoro promesse non sono state in alcun modo assicurate, sia se guardiamo al sostegno al reddito, considerato che le prestazioni sono legate ai versamenti contributivi più che al bisogno delle persone, sia se guardiamo ai servizi per l’impiego, che ancora non sono adeguati e soddisfacenti in gran parte del Paese.
Le politiche di flessibilità, d’altra parte, hanno generato un problema sociale ma anche un problema economico, dato che non hanno prodotto neanche gli attesi benefici sul fronte della produttività e competitività delle imprese. Al contrario, si è favorito un modello di concorrenza basato sulla compressione dei costi, specialmente di quelli legati al lavoro.
Infine non va trascurato, almeno per chi – come me – si colloca nell’area della sinistra politica, un problema politico, perché l’abbandono di una parte del mondo del lavoro, lasciato senza adeguata protezione, ha avuto come conseguenza che molti lavoratori hanno cercato altre sedi di rappresentanza o hanno smesso di votare.
Alla luce di tutto questo, si comprende il senso delle iniziative referendarie, che cercano di invertire la tendenza in atto. L’obiettivo è quello di recuperare equilibrio in relazione a tutti e tre i piani: sociale, economico e politico.
Nello stesso tempo si ritiene che maggiori tutele per i lavoratori non siano un freno ma uno stimolo alla produttività, costringendo le imprese a innovare, a migliorare i processi e i prodotti, a competere in modo più sano e sostenibile.
Come valuta allora il ritorno alla disciplina dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori nella versione modificata dalla c.d. legge Fornero (legge n. 92/2012) che conseguirebbe all’esito favorevole del referendum? Secondo lei è un intervento sufficiente ad invertire la tendenza che osserva?
Quando parlo di invertire la tendenza, mi riferisco alla necessità di cambiare direzione rispetto a un approccio che ha ridotto progressivamente le tutele per i lavoratori. È chiaro che i referendum, anche se avessero successo, da soli non sarebbero sufficienti a risolvere tutti i problemi del lavoro. Tuttavia, produrrebbero risultati molto importanti sul piano politico, proprio per il valore – sostanziale come simbolico – che le norme oggetto di modifica hanno. Cambiare queste disposizioni, dunque, significherebbe avviare una nuova stagione di diritti e tutele.
Per quanto riguarda il licenziamento, va ricordato che le norme del d. lgs. n. 23/2015 e dell’art. 18, come modificato nel 2012, sono oggi piuttosto differenti dalle origini. La Corte Costituzionale è intervenuta più volte, disvelando la fragilità e i problemi di quelle previsioni e operando modifiche sostanziali. Per esempio, ha superato il principio di prevedibilità e automaticità dell’indennizzo, elemento cardine del d. lgs. n. 23/2015, proprio per ristabilire un minimo di equilibrio e deterrenza. Anche il legislatore poi è intervenuto sul d. lgs. n. 23/2015. Mentre la giurisprudenza ha elaborato indirizzi oramai consolidati su profili interpretativi controversi, soprattutto a proposito del nuovo testo dell’art. 18.
Oggi, in alcuni casi, il regime del d. lgs. n. 23/2015 può risultare perfino più favorevole per il lavoratore, rispetto all’art. 18, cosa sottolineata da molti commentatori ostili al referendum. Si tratta però di eccezioni. Complessivamente non vi è però alcun dubbio sul fatto che tornare all’art. 18 significa garantire il diritto alla reintegrazione in un numero ben superiore di casi, rispetto a quanto avviene oggi per gli assunti dopo il 7 marzo 2015, a fronte di un licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo.
Il d. lgs. n. 23/2015, prima dell’intervento della Corte costituzionale, sanzionava comportamenti contra legem del datore con una indennità prevedibile ma anche molto esigua. Spesso quel costo era talmente basso da porre in sostanza sullo stesso piano, per il datore, la decisione di applicare o non applicare la legge. Questo era il punto palesemente critico del sistema del d. lgs. n. 23/2015: la tutela in caso di licenziamento illegittimo perdeva la sua efficacia, perché veniva meno una sanzione adeguata.
Oggi non è più così. Tuttavia, resta indubbio che il lavoratore, nel regime del d. lgs. n. 23/2015, continui a rischiare di perdere il posto di lavoro anche di fronte a casi conclamati e clamorosi di violazione della legge, da parte del datore. Come ad es. in presenza di licenziamenti disciplinari palesemente illegittimi, perché disposti per sanzionare inadempimenti lievissimi da parte dei lavoratori, laddove questi non siano esplicitamente considerati dal contratto collettivo nel codice disciplinare.
La reintegrazione rappresenta invece una sanzione forte ed efficace, che assume rilievo in un duplice senso. Da un lato ha un effetto dissuasivo, perché la reintegra rappresenta un rischio molto superiore per il datore di lavoro, che è altamente disincentivato a violare la legge. Dall’altro, permette che i lavoratori esercitino i propri diritti senza il rischio di subire licenziamenti ritorsivi, certo come tali illeciti ma spesso quasi impossibili da provare.
La reintegrazione, dunque, assume rilievo quale vera e propria architrave per la tutela di tutti i diritti del lavoratore, a partire dai diritti sindacali. Non a caso l’art. 18 trova collocazione nel titolo II dello Statuto dei Lavoratori sulla “libertà sindacale”.
Rimanendo in tema di licenziamento, il secondo quesito riguarda la tutela indennitaria in caso di licenziamento illegittimo nelle piccole imprese. In particolare, i promotori intendono eliminare il tetto massimo di sei mensilità per il risarcimento spettante al lavoratore licenziato illegittimamente in aziende con meno di 15 dipendenti. Ritiene che una simile modifica possa compromettere eccessivamente le esigenze di certezza del diritto e di prevedibilità dei costi per il datore di lavoro oppure ritiene positiva la maggiore discrezionalità riconosciuta al giudice nella quantificazione caso per caso dell’indennizzo?
Il referendum, eliminando il tetto massimo delle sei mensilità, permette al giudice di stabilire un’indennità superiore. Non introduce però una situazione di totale imprevedibilità, visto che rimarrebbe comunque fermo nel sistema giuridico il tetto massimo previsto per le grandi imprese. È quindi vero che questo referendum, se accolto, affiderebbe un ruolo centrale alla discrezionalità del giudice, ma lo farebbe all’interno di vincoli presenti nell’ordinamento, e, soprattutto, consentirebbe di affrontare un problema oggi irrisolto: quello della distinzione tra grande e piccola impresa.
Nel nostro ordinamento si fa al riguardo tradizionalmente riferimento al numero dei dipendenti, un criterio relativamente semplice da applicare e che, forse proprio per questo, ha resistito nel tempo. Tuttavia, è evidente che nel sistema economico attuale il numero dei dipendenti è sempre meno indicativo per distinguere una grande da una piccola impresa, perché esistono molte piccole imprese, considerando tale criterio, con fatturati molto alti.
In questo senso, affidare maggiore discrezionalità al giudice può consentire valutazioni più aderenti alla realtà economica del singolo caso e permettere di considerare anche altri elementi nella determinazione della sanzione.
Per tutte queste ragioni, ritengo il referendum molto opportuno. Da un lato, incrementa la tutela a favore di lavoratori che storicamente sono stati poco protetti; dall’altro, consente di affrontare un problema strutturale che esiste da decenni e che finora l’ordinamento non ha voluto o potuto risolvere. Ma oggi quel problema è evidente: la grandezza di un’impresa non si misura più in base al numero dei dipendenti.
Aggiungo che la Corte costituzionale ha già ammonito il legislatore ad intervenire in materia ed il sì al referendum in questo caso sarebbe perfettamente armonico rispetto alle indicazioni della Consulta.
Il terzo referendum mira ad incidere sulla disciplina del contratto di lavoro a termine. Se l’esito del referendum fosse positivo, sarà possibile stipulare, prorogare e rinnovare contratti di lavoro a tempo determinato (anche di durata inferiore ai dodici mesi) solo nei casi individuati dai contratti collettivi o per esigenze sostitutive. Secondo lei, è corretto rinviare alla sola contrattazione collettiva, nell’ottica di evitare l’abuso del ricorso al contratto a termine, la scelta delle condizioni che legittimano l’assunzione a tempo determinato oppure, limitando l’autonomia individuale, si rischia di introdurre un elemento di eccessiva rigidità nel mercato del lavoro?
Nella disciplina vigente c’è la possibilità, introdotta dall’attuale esecutivo, inizialmente in via provvisoria ma con norma poi più volte prorogata, di stipulare contratti di lavoro a tempo determinato in assenza di previsioni da parte della contrattazione collettiva, per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti. Si tratta di una causale di difficile interpretazione, tanto che anche le organizzazioni dei datori di lavoro – per quel che mi risulta – invitano gli associati alla massima cautela nel farvi riferimento. Perché una nozione soggettiva di esigenze tecniche, organizzative e produttive potrebbe suscitare dubbi e reazioni in giurisprudenza. Come già avvenuto nell’interpretazione della norma sul trasferimento di ramo d’azienda.
Con il referendum, comunque, ci si propone soprattutto di tornare a quanto già previsto per lungo tempo, prima del 2012: cioè a stabilire con chiarezza che nel nostro ordinamento il contratto a tempo indeterminato è la regola e il contratto a termine l’eccezione.
Ebbene perché ciò accada occorre, sin dal primo giorno, una ragione giustificativa alla base dell’utilizzo del contratto a termine. E questa logica, se affermata nella consultazione referendaria, si estenderebbe anche alla somministrazione a tempo determinato.
Poi il sì al referendum eliminerebbe pure l’ambigua causale, che da rilievo alla autonomia individuale, ora descritta.
In caso di approvazione del referendum, dunque, salvo le ipotesi di sostituzione, le causali sarebbero definite esclusivamente dalla contrattazione collettiva. Questo però accade già oggi, se non si fa ricorso alla causale introdotta dall’attuale esecutivo.
La fondamentale novità – si ribadisce – sarebbe tuttavia rappresentata dal ripristino della causale obbligatoria fin dal primo giorno e non dal tredicesimo mese.
Il quarto quesito mira ad estendere, anche nei casi in cui l’attività dell’impresa appaltatrice o subappaltatrice presenti dei rischi specifici diversi da quelli inerenti all’attività dell’impresa committente, la responsabilità risarcitoria del committente per tutti i danni da infortunio sul lavoro per i quali il lavoratore dipendente dell’appaltatore o del subappaltatore non risulti indennizzato dall’Inail. Crede che il quesito referendario risponda in modo soddisfacente alle esigenze di maggior tutela in tema di sicurezza sul lavoro nella filiera degli appalti?
Il tema della sicurezza nella filiera degli appalti individua uno dei nodi più critici nelle relazioni di lavoro. Cui si accompagnano vicende inaccettabili.
Il quesito referendario interviene su di un punto preciso, ovvero la responsabilità risarcitoria del committente per il danno differenziale, cioè per quella parte di danno non coperta dall’indennizzo INAIL. Estendere tale responsabilità anche ai casi in cui i danni al lavoratore siano prodotti da rischi specifici dell’appaltatore, diversi da quelli del committente, rappresenta un rafforzamento importante della tutela dei lavoratori.
Un’eventuale vittoria del referendum darebbe la possibilità di cominciare ad intervenire, con concrete misure, su questioni tanto diffuse quanto drammatiche; nello stesso tempo di segnalare l’urgenza di avviare un percorso di riforma più ampio.
Serve in effetti un’analisi seria delle cause sistemiche degli infortuni, che riguardano non solo la normativa sulla responsabilità, ma anche diversi altri aspetti spesso ignorati. Come la disciplina dell’orario di lavoro, che oggi consente di prestare l’opera per quasi 13 ore al giorno. per intervalli temporali non brevi, con un impatto evidente sulla sicurezza. Oltre al rafforzamento della responsabilità risarcitoria, sarebbe, d’altra parte, necessario un rilevante investimento di attenzione e risorse, per quel che concerne i controlli ispettivi ma anche misure di prevenzione adeguate. E sarebbe pure necessario cominciare a combattere davvero il “lavoro nero”. Per citare alcuni importanti aspetti.
Il lavoro in Italia è oggi al centro dell’attenzione a causa di diversi aspetti critici, tra cui le difficoltà di crescita dei salari, della produttività delle imprese e dell’occupazione stabile e di qualità, solo per citarne alcune. Ritiene che, nel complesso, i referendum affrontino in modo pertinente le esigenze e problematiche attuali del mondo del lavoro nel nostro Paese?
Stiamo assistendo alla crisi del lavoro e del suo valore. Ne è emblematicamente testimonianza la modestia delle retribuzioni. Questa svalutazione porta con sé tutti i problemi gravi – sociali, economici e politici – che ho già cercato di delineare. I referendum intendono reagire a questo stato di cose, individuando, pur all’interno di un quadro necessariamente limitato, questioni centrali su cui intervenire.
I referendum sono dunque molto importanti per i contenuti ma anche per il messaggio politico che veicolano: mettono infatti in luce un’emergenza concernente il lavoro, che in Italia appare più marcata che in altri Paesi dell’Europa occidentale. Si tratta allora di rimettere al centro il lavoro e le persone che lavorano, dopo anni e decenni di marginalità, rispetto ai modelli economici, culturali, ideologici e politici dominanti.
È vero pure che gli scenari stanno cambiando. Con tendenze e dinamiche per la verità fonte di non poca preoccupazione. Sembra oggi prevalere una reazione disordinata e confusa, dove sono però visibili anche pericolose connotazioni e tentazioni autoritarie, a un modello che ha spinto troppo in là il mercato, disancorato dalla società. Ma proprio per questo è essenziale mettere in campo un modello, ben diverso, che abbia al centro le condizioni delle persone che hanno più bisogno, a partire dai lavoratori.
E se allarghiamo lo sguardo, il tema del sostegno delle persone più deboli, nel contesto sociale, ci collega anche al quinto referendum, quello sulla cittadinanza: perché anche in tal caso si tocca una questione fondamentale di dignità e inclusione.
Francesco Alifano
Assegnista di ricerca in diritto del lavoro
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
Federica Chirico
PhD Candidate ADAPT – Università di Siena
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