Politically (in)correct – Il programma Lavoro del M5S: arsenico e vecchi merletti

Dopo aver ricevuto i contributi di ex sindacalisti d’antan alla ricerca di una resurrezione (i “grillini’’ sono diventati, in politica, la pietra filosofale della notorietà nel senso che le persone da loro valorizzate vengono resuscitate dalle tombe in cui riposavano in pace e condotte a pontificare in tv) il M5S ha iniziato a pubblicare i suoi punti programmatici, compresi quelli sul lavoro. Per meglio commentare l’elaborato, ci siamo presi la libertà (e l’ardire) di pubblicarlo, anche a costo di svolgere – sia pure indirettamente – un’azione di propaganda per la quale chiederemo perdono all’Onnipotente. Il documento pentastellato è organizzato così: una breve premessa che individua il problema, ne spiega sommariamente i contenuti ed indica i motivi critici, da correggere. Viene poi il “punto programmatico” con le proposte, rivolte a rimuovere i vizi e i difetti delle norme e delle prassi ora vigenti.  Anche le nostre osservazioni seguiranno questa impostazione.

 

MOVIMENTO 5 STELLE

PROGRAMMA LAVORO

 

Libera rappresentanza sindacale

Sul fronte della rappresentanza nei luoghi di lavoro, oggi non è possibile per una lista sindacale nuova presentarsi alle elezioni delle Rsa (Rappresentanze sindacali aziendali) in seno alle aziende sopra i 15 dipendenti, pubbliche e private. Le Rsa possono essere nominate soltanto dalle organizzazioni precedenti, magari nemmeno elette. Oppure, se elette, solo tra liste di chi era presente già prima, cioè sindacati e organizzazioni già firmatari di contratti. Questo sistema, frutto dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, come modificato in modo inappropriato da un referendum nel 1995, blocca qualunque rinnovamento sindacale e soprattutto conferisce alle aziende il potere di decidere quali sono i sindacati “buoni” e i “cattivi”, in relazione al rapporto che mantengono con la parte datoriale. Ricordate lo scontro Fiom-Fiat di qualche anno fa? C’è stata poi una sentenza della Corte Costituzionale, nel luglio del 2013, che ha cambiato il quadro. Ma come tante altre volte, la Consulta non è stata minimamente tenuta in considerazione né dalle forze politiche né dai grandi sindacati confederali. I lavoratori, tutti i lavoratori, devono poter eleggere le loro rappresentanze, in piena libertà e senza vincoli. Tutti devono essere elettori ed eleggibili. Proprio come previsto dalla nostra Carta costituzionale.

 

Punto programmatico

Il Movimento 5 Stelle vuole garantire a tutti i lavoratori il diritto di poter scegliere le proprie rappresentanze sindacali e di essere eletti, con una competizione aperta tra tutte le sigle,

indipendentemente dall’aver firmato gli accordi con le controparti. Si tratta di applicare, finalmente, in modo compiuto l’articolo 39 della Costituzione sulla libera iniziativa sindacale.

 

Commento

A parte la ricostruzione un po’ approssimativa e farlocca della vicenda dell’articolo 19 dello Statuto (il referendum del 1995 si proponeva appunto di sganciare il riconoscimento della rappresentatività e quindi dell’agibilità sindacale in azienda, dall’essere sottoscrittori dei contratti nazionali, limitandolo a quella dei contratti applicati in azienda; a parte ancora che la Consulta con una sentenza “innovativa” ha stabilito che “sottoscrivere” equivale a “prender parte attivamente ai negoziati” anche senza aderire alle conclusioni; tutto ciò previsto si è reso conto il suggeritore di questa misura (Giorgio Cremaschi) che la sua liberalizzazione estrema sarebbe destinata anche ad associazioni che tutto fanno in azienda tranne che attività sindacale, visto che dopo la sentenza della Corte, un sindacato è rappresentativo anche se si limitata a partecipare alle trattative? La sentenza Cost. n.231 del 2013 ha dettato i criteri basilari per il riconoscimento della “maggiore rappresentatività” alla luce degli effetti del referendum del 1995. In pratica, se ci limitiamo ad osservare la funzione degli istituti giuridici e non la loro disciplina formale, potremmo sostenere che la sentenza citata ha ripescato il quesito che nel 1995 fu bocciato dagli elettori e che proponeva quanto teorizzato da Crem­aschi e ripreso nel punto programmatico. L’articolo 39 della Costituzione stabilisce al suo primo comma che “l’organizzazione sindacale è libera”: il che non significa che abbia automaticamente accesso ai diritti previsti dallo Statuto, il cui riconoscimento è effettuato in base a criteri minimamente selettivi.

 

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Sindacati senza privilegi

Quote di servizio, enti bilaterali, finanziamenti indiretti da parte delle imprese, persino

sponsorizzazioni. Oggi le maggiori organizzazioni sindacali si tengono in piedi attraverso

una molteplicità di strumenti che spesso genera opacità e toglie libertà d’azione alle sigle

dei lavoratori, allontanandole dalle esigenze autentiche degli iscritti.

Le risorse devono giungere al sindacato esclusivamente mediante le quote degli iscritti,

perché l’attività sindacale deve fondarsi soltanto sul loro consenso e sulla difesa degli

interessi dei lavoratori.

Inoltre, il dipendente e il pensionato devono essere liberi di disdire una tessera sindacale

che sia davvero rinnovabile: non devono più esistere adesioni che si perpetuano in eterno

soltanto in base al principio del silenzio-assenso. Dopo un certo numero di anni,

l’iscrizione a un dato sindacato deve essere oggetto di assenso esplicito.

Anche Caf e Patronati vanno riportati sotto un reale controllo pubblico, in relazione

all’efficienza e alla qualità del servizio erogato. Mentre i permessi e i distacchi sindacali

devono essere utilizzati per l’effettiva presenza e attività nei posti di lavoro da cui si

proviene e non per rivestire altri ruoli in altri settori.

Infine, fin troppi ex sindacalisti hanno fatto carriera in Parlamento, nei partiti, al governo o

grazie a posti di potere nella gestione di grandi aziende: una commistione cui bisogna

mettere fine.

Il grande sindacato va insomma aiutato a sburocratizzarsi, sfrondando inutili privilegi per

riportarlo alla sua funzione essenziale: la difesa del lavoro.

 

Punto programmatico

Il M5s vuole tagliare gli anacronistici privilegi che, all’interno del sistema sindacale,

hanno contribuito a creare situazioni da “casta”, completamente scollata dalla realtà del

lavoro che cambia.

 

Commento

Saranno i sindacati a replicare a queste critiche che descrivono un uso/abuso dei diritti sindacali in modo patologico. Come altre volte il M5S spara nel mucchio nella consapevolezza di poter colpire qualche obiettivo. È vero, infatti, che ormai nell’azione sindacale è praticamente scomparso l’attivismo volontario. La gran del tempo dedicato al sindacato è retribuito, attraverso i permessi o quant’altro. Inoltre i consulenti dei “grillini” hanno dimenticato un altro “privilegio” di cui godono soltanto i sindacalisti in aspettativa (ex legge n. 300/1970): oltre a conservare, come è giusto, il posto di lavoro, la loro contribuzione previdenziale è figurativa e messa a carico delle relative gestioni. Come se fare il sindacalista fosse un servizio pubblico. Questo era un trattamento riservato anche agli eletti in cariche pubbliche, ma ora è venuto meno.  In ogni caso questo punto programmatico preconizza qualche cosa che neppure i governi di centro destra avevano osato pensare: attaccare i sindacati sul piano economico, attraverso l’introduzione di un criterio di temporaneità delle deleghe attraverso le quali vengono riscosse le quote associative. Peraltro questa regola non è più sorretta (come era avvenuto fino al referendum del 1995) da una norma di legge (lo Statuto, appunto), ma da una norma contrattuale che le associazioni dei datori non hanno mai messo in discussione, anche se dopo l’abrogazione per via referendaria avrebbero potuto farlo. Diverso è il caso delle ritenute, tramite delega, sulle pensioni il cui meccanismo potrebbe essere cambiato – e reso sottoponibile a verifica periodica – attraverso un atto di indirizzo del governo all’Inps. Quanto poi alla carriera dei sindacalisti in Parlamento, nei partiti, al governo, al M5S non hanno spiegato che negli statuti dei principali sindacati è prevista l’incompatibilità con le cariche politiche ed elettive già al momento della candidatura.

 

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Più democrazia sul posto di lavoro

La “cogestione alla tedesca” (Mit-Bestimmung) di cui molto si parla è il sistema che,

soprattutto in Germania, regola le relazioni industriali e prevede la partecipazione diretta

dei dipendenti ai processi decisionali dell’impresa su temi come l’organizzazione, la

qualità del lavoro o altre scelte strategiche. Più in generale, per la verità, possono essere diversi gli strumenti di consultazione, codecisione o comunque di disintermediazione e coinvolgimento dei lavoratori nella vita dell’azienda. Si può chiedere il loro parere diretto attraverso proposte e suggerimenti in qualche modo vincolanti per il management. Oppure si possono prevedere “gruppi di

miglioramento” su temi prettamente organizzativi o legati all’orario di lavoro. O ancora, in

maniera più organica, si possono mettere in campo rappresentanze che entrano

direttamente nel funzionamento dei consigli di amministrazione, di gestione o comunque

di sorveglianza dell’impresa, eventualmente anche prevedendo forme di partecipazione

agli utili per i lavoratori, un istituto che si potrebbe quasi definire di carattere

contrattuale. L’obiettivo è quello di accrescere le sinergie tra le parti produttive, nell’ottica di un

rafforzamento complessivo dell’azienda e del perseguimento di obiettivi sempre più

condivisi.

 

Punto programmatico

Il M5S favorirà il coinvolgimento dei lavoratori nell’elaborazione delle strategie, nell’organizzazione produttiva e, in generale, nei processi decisionali della loro impresa.

 

Commento

Ricordiamo a quale modello si fa riferimento. Nel 1976, il governo del socialdemocratico Helmut Schmidt approvò, con un largo consenso politico, la riforma che introduceva in Germania il principio della cogestione (Mitbestimmung). La gestione delle imprese tedesche venne affidata a due organi: un Consiglio Esecutivo (Vorstand) e un Consiglio di Sorveglianza (Aufsichtsrat). I lavoratori hanno diritto di eleggere metà dei rappresentanti del Consiglio di Sorveglianza. La restante metà e il Presidente sono eletti dall’Assemblea degli Azionisti. Formalmente sono organi indipendenti dal sindacato, e hanno competenze dirette nella gestione del personale: assunzioni, licenziamenti, contratti temporanei e flessibilità di orario individuale. Ad essere generosi si potrebbe sostenere che in questo punto programmatico c’è un certo tasso di riformismo, anche se vengono completamente ignorate le esperienze che, a proposito di partecipazione dei lavoratori, sono state compiute in Italia (a partire dalla c.d. prima parte dei contratti). Nella nostra esperienza, tuttavia, resta centrale il ruolo del sindacato, in continuità con il modello di rappresentanza che è prevalso da noi. Nella proposta “grillina” – considerando anche il giudizio negativo sul sindacato di cui al punto precedente – la forma di partecipazione dei lavoratori porta acqua al mulino della “disintermediazione’’. Perché è questo lo spirito di cui è intrisa.

 

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Riduzione dell’orario di lavoro

Bisogna uscire da un equivoco: lavorare più ore non significa necessariamente essere più

produttivi. Anzi. È la qualità del lavoro (da migliorare attraverso investimenti in ricerca,

sviluppo e formazione) a far crescere la competitività e il valore aggiunto, ingredienti

fondamentali per un’economia come quella italiana. Piuttosto, a fronte di una prossima probabile riduzione complessiva dello stock di ore lavorate in ragione degli impatti sui processi produttivi dell’avanzamento tecnologico, della robotica, dell’informatizzazione e della globalizzazione, andrebbe incentivata una diversa distribuzione, più inclusiva, di questo stesso stock, anche incoraggiando i rapporti in part-time lungo e disincentivando, al contrario, gli straordinari.

I Paesi europei in cui si lavora meno sono quelli ricchi del Nord Europa, mentre quelli in

cui si lavora di più sono i Paesi dell’Est e del Sud. Un greco lavora il 50% in più di un

tedesco, tanto per fare un esempio.

I costi per lo Stato, per avviare la riduzione degli orari di lavoro, sono in genere molto limitati. In Francia le 35 ore sono costate circa un miliardo l’anno, mentre in Italia stiamo spendendo, per la decontribuzione dei neoassunti col “Jobs act”, almeno 18 miliardi in tre anni, con ricadute occupazionali tra le peggiori in tutta Europa.

Le tecnologie migliorano la produttività e i margini di bilancio delle imprese che dovranno

ripensare la loro organizzazione produttiva. Altrimenti la crisi di domanda e da

sovrapproduzione sarà destinata inevitabilmente ad aggravarsi.

 

Punto programmatico

Il M5S favorirà processi di riorganizzazione produttiva, riducendo l’orario di lavoro al di sotto delle 40 ore settimanali. Incentiveremo il part-time, faciliteremo anche i contratti di solidarietà difensivi ed espansivi, rafforzando infine il sistema dei congedi.

 

Commento

Si torna all’antico adagio “lavorare meno, lavorare tutti”? Proprio quando in Francia Emmanuel Macron propone di cancellare il miraggio delle 35 ore settimanali? Sarà innanzi tutto il caso di avvertire il M5S che i contratti collettivi hanno già provveduto a ridurre “l’orario di lavoro al di sotto delle 40 ore settimanali”. Quanto agli altri strumenti si tratta di azioni già previste da tempo e rimodellate, da ultimo, dal Jobs Act e dai decreti attuativi. Un po’ poco se si vuole fronteggiare lo scenario descritto nella parte introduttiva.

 

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Accesso più flessibile alla pensione

La riforma previdenziale “Fornero” ha repentinamente alzato le soglie di accesso alla

pensione di vecchiaia, scaraventando centinaia di migliaia di lavoratori “anziani” in un

limbo di disperazione e generando la surreale (e vergognosa) categoria degli “esodati”. Al

tempo stesso, intere generazioni di giovani continuano a restare tagliate fuori per molti

anni dal mondo del lavoro, con ricadute negative per imprese private e pubbliche

amministrazioni.

È evidente l’errore tecnico e culturale in cui incorrono i governi che insistono nell’alzare

l’asticella dell’età anagrafica da raggiungere per il pensionamento: si pensa di rendere in

questo modo sostenibile un sistema previdenziale che, in realtà, con il meccanismo

cosiddetto “a ripartizione”, si regge in piedi soltanto se c’è lavoro di qualità per la

popolazione attiva e congrui versamenti contributivi che servono a pagare le pensioni

odierne (un sistema che costa circa 270 miliardi). Se i giovani non lavorano oggi, non

possono mantenere i pensionati di oggi.

Bisogna quindi consentire ai lavoratori di scegliere con più libertà, entro certi limiti, la

soglia anagrafica e di anzianità professionale da conseguire prima di accedere alla

quiescenza. Magari, incentivando la staffetta generazionale come strumento di riduzione

dell’orario del lavoratore vicino alla pensione, a fronte dell’assunzione di giovani, al fine di

favorire l’occupazione giovanile e accompagnare i lavoratori anziani verso l’addio alla

professione, garantendo un passaggio di conoscenze ed esperienze tra generazioni.

Bisogna infine estendere le tutele previdenziali dei cosiddetti “usuranti” ad altri mestieri

gravosi e garantire un accesso alla pensione agevolato ai cosiddetti “precoci”.

 

Punto programmatico

Il M5S aumenterà la libertà dei lavoratori di decidere, entro certe soglie e limiti, il livello

di contribuzione (anzianità) e l’età anagrafica di uscita dal lavoro, anche mediante il

meccanismo di “staffetta generazionale”. Estenderemo le tutele previdenziali dei

cosiddetti lavori “usuranti” a categorie oggi non incluse e terremo conto delle esigenze

dei cosiddetti “precoci”.

 

Commento

La solita musica. Ma tutto sommato in materia di pensioni i pentastellati sono più realisti e meno demagogici di altre forze politiche populiste. A parte l’omaggio rituale alla flessibilità del pensionamento, nel punto si parla di tutela dei lavori usuranti e di tener conto delle esigenze dei precoci: terreni battuti già nella legge di bilancio 2017. Quanto poi alla staffetta generazionale siamo appena usciti da un ulteriore clamoroso fallimento: il part time lavoro/pensione al raggiungimento del 63° anno di età previsto nella precedente legge di bilancio poi regolato da un successivo decreto. L’Inps ha denunciato, infatti, che le domande accolte per usufruire del part time agevolato sono state (da giugno dello scorso anno) soltanto duecento contro le trentamila previste dal Governo.

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Considerazioni conclusive

È un programma senza dubbio “orecchiato” da più parti, ma caratterizzato da analisi molto critiche che planano alla fine su proposte caute e generiche, spesso ripetitive di soluzioni già note, sperimentate (più o meno con successo, quasi sempre con insuccesso) in altri tempi e da altri governi. Proposte che non intendono spaventare nessuno. Forse siamo soltanto in fase di preparazione del programma. E dobbiamo quindi aspettarci ulteriori messe a punto, nei mesi che ci separano dalle elezioni. È singolare, però, che il M5S si prepari ad una competizione elettorale senza “urla nella notte”. Basti notare che non si dice una sola parola sulle “stramaledette” pensioni d’oro, un argomento dove è tanto più facile essere condivisi quanto più si riesce a fomentare il livore e il desiderio di gogna.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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