Politically (in)correct – Gli anziani ancora al lavoro in Italia e in Europa

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In Italia, la questione dell’età pensionabile è una di quelle che fanno vincere o perdere le elezioni.  Ce ne siamo accorti il 4 marzo. Vedremo quali misure adotterà il governo giallo-verde che, nel testo del contratto sottoscritto dai “signori” Luigi Di Maio e Matteo Salvini, ha convenuto di rivolgersi alla riforma Fornero con un laconico “stop”, dopo aver a lungo giocato con altre e più dirette parole malintenzionate (abrogazione, superamento, ecc.). Gli argomenti che vengono portati a sostegno di queste posizioni sono soprattutto due, intersecati tra loro: gli anziani sono costretti a ritardare il pensionamento, così i giovani non riescono a trovare lavoro. È divenuto ormai un luogo comune: ogni volta che i tg commentano i dati Istat sull’occupazione ci aggiungono, con evidente disappunto dei conduttori, che cresce il lavoro precario (nonostante che dal 2012 vi siano 500mila rapporti di lavoro parasubordinato in meno) e quello degli anziani, perché aggiungono subito dopo l’Italia ha il livello di età pensionabile più elevato nella Ue. Magari, talvolta capita che si trovi il modo di commentare anche i trend demografici, facendo notare, con preoccupazione, che sono in atto sia un crollo della natalità che un incremento del processo di invecchiamento. Ma nessuno si prende la briga di collegare questi trend ai problemi del mercato del lavoro sul lato dell’offerta e della sostenibilità del sistema pensionistico.

 

Per constatare, così, che la necessità di tempo di lavoro più a lungo, durante l’arco di una vita destinata a durare di più, non è dettata soltanto da esigenze di equilibrio finanziario, ma da quella di avere, nelle aziende, persone ancora in grado di “far girare” le macchine. Secondo le previsioni dell’Istat sul futuro demografico del Paese la sopravvivenza è prevista in aumento. Entro mezzo secolo la vita media crescerebbe di cinque anni per entrambi i generi, arrivando a 86,1 anni per gli uomini e a 90,2 anni per le donne. Parte del processo di invecchiamento in divenire è dovuto al transito delle coorti del baby boom (1961-1976), le stesse a cui oggi vorrebbero ridurre i requisiti per l’accesso alla pensione (per di più anticipata) tra la tarda età attiva (39-64 anni) e l’età senile (65 anni e più). È previsto un picco di invecchiamento tra il 2045-2050 quando la quota over 65enni sarà pari al 34%. In tale contesto dove sta il problema se aumenta la quota di ultra cinquantacinquenni ancora in attività? È vero, in Italia l’incremento è avvenuto in modo repentino rispetto ad altri Paesi e ai dati medi dell’Unione e dell’Eurozona. Secondo il Rapporto Pension Adeguacy del 2018 (vedi tabella in fondo), dal 2013 al 2016 vi è stato da noi un aumento dell’8% dell’occupazione nella fascia d’età tra 55 e 64 anni, a fronte di una media del 5% sia nella Ue che nell’area dell’euro. Solo Lettonia ed Ungheria hanno avuto un incremento più sostenuto. Il fatto è che in Italia si è partiti dal 42%, una quota inferiore di ben 8 punti rispetto alle medie prima ricordate; una quota che, sempre con riferimento alle stesse medie, nel 2016 restava ancora inferiore di 5 punti (50% a fronte di un 55%). Le differenze con i virtuosi Paesi del Nord-Europa sono assai significative. Gli occupati in quella coorte di età (55-64 anni) è del 75% in Svezia, del 68% in Danimarca, del 67% in Germania, del 63% nel Regno Unito. Dietro di noi – per restare nell’ambito dei grandi Paesi – la Francia con il 49% e la Spagna col 46%. Con un po’ di ritardo, potremmo vantare di aver raggiunto l’obiettivo del 50% di impiego dei lavoratori anziani, indicato a Lisbona 2000, quando l’Unione guardava con fiducia al proprio futuro, proponendosi di “diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”. Ma sarebbe inutile la rievocazione di un mondo dei sogni ben presto funestato da incubi.

 

L’Italia in questi anni ha compiuto dei passi in avanti meritevoli di apprezzamento, grazie alle riforme ora contestate. Interessante è notare come questi dati si articolano secondo il genere. Nel nostro Paese, nel 2016 a determinare il 50% (rispetto alla popolazione di riferimento) di occupati nella fascia d’età compresa tra 55 e 64 anni, hanno concorso il 61,7% degli uomini e il 39,7% delle donne. Dietro di noi, per quanto riguarda l’occupazione femminile, solo la Polonia, Malta, Lussemburgo, Slovenia, Ungheria e Grecia.

 

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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