Perché (anche) la proposta sul salario minimo è rischiosa*

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Prima di ogni scadenza elettorale, si torna a parlare di salario minimo. Un argomento piuttosto conosciuto, che esercita da sempre fascino politico per la semplicità del messaggio: se viene fissato per legge un limite inderogabile di stipendio orario o mensile i lavoratori sottopagati vedranno riconosciuti i loro diritti. D’altra parte, ecco la seconda argomentazione ricorrente, addirittura 22 Stati su 28 della Unione Europea hanno fissato per legge una soglia retributiva minima, perché l’Italia non dovrebbe adeguarsi?

 

Sono diverse le argomentazioni che giustificherebbero un atteggiamento prudente su questo tema.

 

1) In Italia esiste già un salario minimo ed è rappresentato dai minimi tabellari dei contratti collettivi nazionali. Non è una soglia fissata per legge ed uguale per tutti, ma è comunque vincolante per tutti i datori di lavori (automaticamente sotto il profilo contributivo, ma anche come riferimento per calcolare giurisprudenzialmente l’equo compenso garantito nella nostra Costituzione) ed ha il pregio di adattarsi a settori che hanno dimensioni economiche, investimenti e margini molto diversi.

 

2) L’Italia è il Paese europeo con i più persistenti (e preoccupanti) divari geografici. La ricchezza, la crescita e la competitività del Sud Italia sono inferiori a quelle del Centro Italia e neanche lontanamente comparabili con quelle del Nord Italia. Bene o male è così da sempre. Si può giudicare equa una soluzione uguale da Bolzano a Ragusa? Per non incorrere in questo grave equivoco bisognerebbe tornare alle novecentesche “gabbie salariali” territoriali, che fallirono nel passato dell’economia domestica, figuriamoci nel presente dell’economia globalizzata.

 

3) La definizione del salario minimo è materia tecnicamente molto complessa. Una soglia troppo elevata, eccessivamente vicina alla media degli stipendi attuali, avrebbe il probabile effetto di schiacciare questi verso il salario minimo, poiché il datore di lavoro non avrebbe convenienza economica ad applicare contratti collettivi più costosi di quanto obbligato dalla legge. Quindi una perdita di reddito per buona parte dei dipendenti. Questa soluzione avrebbe l’ulteriore effetto di giustificare una fuga dai contratti collettivi e quindi da tutti i diritti che i lavoratori oggi hanno proprio perché coperti da un contratto nazionale. Qualora la soglia fosse troppo bassa, semplicemente la novità legislativa non sortirebbe alcun effetto.

 

4) Anche l’estrema variabilità dei minimi tabellari oggi vigenti renderebbe difficile l’individuazione di una cifra (oraria o mensile) ragionevole. Se il Legislatore si attestasse sui valori minori oggi osservati, a poco servirebbe la norma, interesserebbe solo chi non coperto da contrattazione. Se invece la scelta cadesse su cifre superiori, molti imprese e interi settori potrebbero di colpo ritrovarsi “fuori mercato”.

 

5) Se da una parte il salario minimo appiattisce verso il valore individuato le retribuzioni più alte (o quantomeno è una potente arma contrattuale in questo senso in mano ai datori di lavoro), dall’altra non avvantaggia automaticamente chi deve entrare, soprattutto se oggi ha dei primi stipendi sotto il valore individuato. Inoltre in Italia la via più sicura e formativa offerta ai giovani per entrare nel mondo del lavoro è l’apprendistato, una tipologia contrattuale a basso costo proprio perché formativa. I giovani potrebbero preferire all’apprendistato un contratto soggetto al minimo legale perché più elevato nel breve termine, sacrificando così la loro crescita futura.

 

6) Da ultimo vanno valutati gli effetti del salario minino, quantomeno nel breve medio termine, sulla occupazione. Un obbligo di questo genere, approvato con scarso preavviso, inciderebbe in modo sostanzioso sui bilanci delle imprese, provocando probabili licenziamenti per contenere i costi o in esito alla scelta di esternalizzare le produzioni più labour intensive (e quindi diventate troppo costose).

 

È vero che un Paese industrialmente molto simile al nostro (la Germania) da deciso recentemente (nel 2015, in esito a una concessione della Merkel ai socialdemocratici con cui governava) di fissare per legge un salario minimo (escludendo da questa novità gli apprendisti). Le situazioni, in termini di squilibri geografici, crescita dell’occupazione (in Germania la disoccupazione è ai minimi storici) e ricchezza diffusa non sono comparabili; si può comunque notare che ad averne beneficiato sono stati solo i lavoratori precari e più poveri, che in molti settori sono state velocemente trovati escamotage per aggirare la norma e che è scesa la copertura della contrattazione collettiva.

 

Insomma, una “bomba” comunicativa e politica certamente. Ma gli effetti non è detto che siano altrettanto esplosivi. I programmi politici dovrebbero essere valutati dalla forza dei risultati reali, non dal volume degli annunci.

 

Emmanuele Massagli

Presidente ADAPT

@EMassagli

 

*Pubblicato anche su quotidiano.net, 9 gennaio 2018

 

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Perché (anche) la proposta sul salario minimo è rischiosa*
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