Per coinvolgere i giovani inattivi agire nel (non sul) mercato del lavoro

Sono passati due anni dal lancio di Garanzia Giovani, ma per i giovani, sul mercato del lavoro, non si intravedono ancora garanzie. La madre di tutte le politiche attive per il lavoro lascia dietro di sé una scia di persone inattive a cui le opportunità promesse, o come dice il nome stesso garantite, non sono mai pervenute. Sui cocci rotti di questa esperienza rischia di infrangersi la speranza di poter dare ai giovani scoraggiati la possibilità di mettersi in gioco per un riscatto, possibilità che il sistema delle politiche attive del lavoro solo molto faticosamente è in grado di far emergere.

 

 

L’occupazione accresce l’occupabilità

 

Uno dei problemi delle politiche attive del lavoro è cercare di agire sul mercato del lavoro piuttosto che nel mercato del lavoro, tentando di governare dall’alto fenomeni che si trovano molto in basso, molto lontani dai centri di decisione politica. Questa lontananza è fotografata da un dato: solo il 35% delle persone coinvolte in Garanzia Giovani viene dalla zona depressa degli irrecuperabili inattivi totali. Gli “inoccupabili” rimangono inoccupabili. In termini di stretta razionalità economica, questo risultato era prevedibile: persone sistematicamente scartate alle selezioni per un posto di lavoro non diventano risorse preziose per decreto.

 

Essere disoccupati o inanellare una serie di esperienze di lavoro discontinue causa ulteriore disoccupazione e ulteriore discontinuità. Numerosi studi indicano questo fenomeno con l’espressione «scarring effect», effetto cicatrice. La cicatrice è doppia: formalmente, sul curriculum vitae della persona “buchi” o cambi frequenti di lavoro lanciano segnali negativi ai responsabili delle selezioni del personale e, sostanzialmente, depotenziano le competenze dell’individuo che, se non esercitate, diventano obsolete. Un brillante inizio di carriera, al contrario, non solo ben dispone i selezionatori, ma accresce l’occupabilità e la qualità delle competenze dei giovani. Nell’ambito delle politiche europee, è l’apprendistato il rapporto di lavoro che, più di ogni altro, è stato promosso per offrire ai giovani la possibilità di un brillante inizio.

 

 

Se una buona carriera è questione di fortuna…

 

Di questo si sono occupati i ricercatori Mueller e Neubämer, delle Università del Magdeburgo e di Coblenza, che, calandosi a fondo dentro al mercato del lavoro, hanno portato alla luce risultati tanto vicini alle percezioni più comuni da essere a loro modo sorprendenti. La conclusione più eclatante delle loro ricerche è che una buona carriera è questione di fortuna. L’oggetto del loro studio («Size of Training Firms: The Role of Firms, Luck, and Ability in Young Workers’ Careers») è la vita professionale degli ex apprendisti tedeschi. Hanno raccolto ed analizzato i casi di circa 60mila persone, attive tra il 1975 e il 1992. In questo lasso di tempo, la carriera di chi ha iniziato il primo apprendistato in una grande azienda strutturata è stata più continua e redditizia di chi si è qualificato in un’azienda di dimensioni minori. Questo accade perché, spiegano gli autori, la formazione data da una piccola azienda tende ad essere troppo specifica e basata sulle contingenze per essere apprezzabile e spendibile altrove. Di questo gli apprendisti e le loro famiglie sono consapevoli, ragione per cui i giovani in cerca di una prima esperienza si rivolgono prima alle imprese più in vista e poi a quelle via via più piccole. Teoricamente, allora, le aziende minori dovrebbero rimanere a corto di giovani risorse.

 

Entrano perciò in gioco due fattori: la mobilità e, appunto, la fortuna. In Germania, come in Italia, le realtà produttive di grandi dimensioni si concentrano in determinate zone, mentre le piccole sono sparse in maniera uniforme sul territorio nazionale. Razionalmente, gli aspiranti apprendisti dovrebbero spostarsi verso le regioni più industrializzate e produttive, ma questo non avviene. Mueller e Neubämer hanno riscontrato una bassa propensione al trasferimento per motivi di lavoro: un giovane preferisce puntare ad un’azienda meno strutturata piuttosto che sperarsi dalla famiglia e dal luogo in cui è nato. Esclusa l’ipotesi mobilità, che può essere incentivata con politiche mirate, resta quindi in gioco un solo fattore: la regione di nascita. Un fattore totalmente sottratto alla volontà dei giovani o alle scelte dei policy maker ed interamente affidato alla fortuna.

 

 

Guida, etica, alla ricerca e selezione di apprendisti

 

Ancora in tema di ricerca di lavoro, ma cambiando prospettiva, è un documento promozionale del governo del Regno Unito a dare ulteriori spunti di riflessione. Se sul modello di apprendistato tedesco si sono basati molti dei programmi di istruzione duale in corso di sperimentazione in tutta Europa, che insistono sull’importanza del momento formativo, l’esperienza inglese evidenzia la centralità di un altro momento altrettanto cruciale: quello della selezione. È quasi un assioma la considerazione per cui si diventa apprendisti solo una volta selezionati per una posizione di apprendistato. Proprio per questo vale la pena valorizzare il ruolo dato ai recruiter dal National Apprenticeship Service (NAS) attraverso la «Employer Guide to Apprentice Recruitment», la guida all’assunzione degli apprendisti. È un documento diretto e poco programmatico, molto operativo. Si rivolge alle aziende, agli uffici HR, ai datori di lavoro, riportando testimonianze, numeri e dati a favore dell’apprendistato – ad esempio la statistica secondo cui il 47% dei datori di lavoro che hanno formato apprendisti consiglia ai colleghi imprenditori di fare lo stesso. Il NAS invita le aziende a considerare l’apprendistato come un sistema, non come una possibilità di impiego tra le tante, certamente non come un mezzo per risparmiare sul costo del lavoro.

 

Oltre a dare indicazioni tecniche sui processi di ricerca, selezione ed assunzione di apprendisti, l’aspetto della guida che più colpisce è quello umano. In particolare, esorta a i selezionatori a non mettere in condizioni di stress i candidati, concedendo loro il tempo di prepararsi al colloquio, e consiglia inoltre di dare un feedback agli apprendisti scartati alle selezioni, spiegando loro perché non sono stati assunti. Se rispettato, questo consiglio può portare ad una piccola rivoluzione nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro e ad un arricchimento non indifferente della funzione di recruitment.

Un recruiter non è né un tutor né un orientatore. Il suo compito non è far capire all’apprendista perché non è stato ritenuto sufficientemente adatto alla posizione. A ben vedere, fornire questo tipo di informazioni è superfluo nel lavoro di screening e valutazione dei curriculum e non dà alcun beneficio all’azienda. Ma può farle guadagnare un nuovo ruolo all’interno del tessuto sociale, diventando un interlocutore di supporto alla crescita anche senza diventare datore di lavoro e dà l’occasione per imparare anche da un insuccesso.

 

 

Due lezioni: mobilità e metodo

 

L’apprendistato nel Regno Unito sta iniziando a ottenere un rinnovato interesse da parte delle imprese. Più datori di lavoro attiveranno posizioni per apprendisti, più il rischio, per i giovani, di privarsi di esperienze qualificanti sarà ridotto. In questo senso, la “lezione” inglese e quella germanica possono essere viste in parallelo. Da una parte, a livello di contenuti, i ricercatori tedeschi sottolineano la necessità di offrire ai giovani in cerca di apprendistato maggiori informazioni sulle possibilità di lavoro in aziende di altre regioni e sugli incentivi alla mobilità, come i sussidi per trovare alloggio o la presenza di apposite strutture pubbliche. Dall’altra, la Guida del NAS indica un metodo, quello di agire nel mercato del lavoro intervenendo anche su aspetti presi in relativamente scarsa considerazione, come il ruolo del recruiter. È ragionevole pensare che un intervento da parte dell’attore pubblico per favorire la mobilità dei giovani, senza emendare l’attuale cornice regolatoria, potrebbe sortire effetti positivi.

 

Nel contesto italiano, tuttavia, sarebbe problematico incentivare i giovani a lasciare quelle zone del paese che più hanno bisogno di loro. Il tradizionale flusso migratorio, che dalle regioni del sud porta al nord Italia, durante gli anni di recessione non è che aumentato. La strada per la mobilità, allora, potrebbe essere percorsa più in ambito inter-aziendale che in ambito inter-regionale, dato che, per quanto scarsa, la presenza di aziende strutturate, con un ampio e diffuso indotto, non è certamente nulla, nemmeno nelle aree del paese più sfornite. Ed in effetti ci sono già aziende che si avvalgono di una soluzione simile.

 

 

Apprendisti in prestito, tre possibilità

 

Ipotizziamo che il mercato del lavoro possa replicare lo schema del “prestito” delle grandi società calcistiche. In questo ambito, è prassi inviare i giovani non ancora maturi a fare esperienza giocando per squadre satelliti in serie minori. Con le dovute differenze, una grande azienda potrebbe inviare i propri apprendisti a imparare o semplicemente a “farsi le ossa” presso le società dell’indotto, con le quali può anche non essere legata da alcun vincolo societario. L’invio può essere diretto, con il contratto di distacco, indiretto, mediante somministrazione, o condiviso, come nel caso di imprese aggregate in una rete.

 

Di recente la Corte di Cassazione italiana (sentenza n. 8068 del 21 aprile 2016) si è espressa sul tema del distacco. La pronuncia è significativa: società appartenenti al medesimo gruppo possono effettuare distacchi tra di loro senza dover specificare la causale dell’operazione. Vale a dire che il presupposto interesse del distacco – che nel caso degli apprendisti è la possibilità di fare esperienza a beneficio del datore di lavoro – sarebbe implicito.

 

Le agenzie di somministrazione possono fare la differenza, intermediando quei processi che non è agevole gestire direttamente. Assumendo presso di sé l’apprendista, infatti, hanno la possibilità di inviarlo in missione presso diverse aziende, strutturando un percorso formativo, in accordo con tutte le aziende utilizzatrici, che vede coinvolto un ciclo di realtà produttive anziché una sola.

 

Nell’era della sharing economy, una considerazione particolare merita infine l’opportunità data dalle reti di imprese, aziende aggregate da un patto di rete e dal rispetto di un comune regolamento, che ben può prevedere delle norme per disciplinare la formazione degli apprendisti. Ruotando tra le diverse unità, non necessariamente vicine e similari tra loro, il giovane può fare le esperienze più variegate ed abituarsi anche alla transizione tra un posto di lavoro e l’altro, fenomeno sempre più frequente nelle moderne economie.

 

Nessune delle tre ipotesi comporterebbe una nuova riforma legislativa dell’apprendistato. Tutte, invece, offrirebbero anche alle aziende più piccole la possibilità di accrescere il proprio potenziale formativo, supportate da un’azienda capo-gruppo o da un’agenzia per il lavoro. Interventi in questo senso potrebbero essere inoltre un’occasione per ripensare a politiche di accompagnamento dei giovani all’ingresso nel mercato del lavoro. Percorsi più fluidi, e quindi più aderenti alla realtà degli attuali percorsi di carriera, ma allo stesso tempo meno volatili, per evitare che si creino fratture di continuità quando ancora l’identità professionale del giovane non è ancora ben costruita. Se un nuovo modello di transizione occupazionale basata su un apprendistato non immobile dovesse avere successo, auspicabilmente, anche la diffidenza degli inattivi verso la ricerca di lavoro potrebbe diminuire, aprendo nuove possibilità al coinvolgimento di giovani scoraggiati nella vita attiva.

 

 

Simone Caroli

Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Bergamo

@SimoneCaroli

 

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Per coinvolgere i giovani inattivi agire nel (non sul) mercato del lavoro
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