Maturità (professionale), t’avessi preso prima! Qualche considerazione su occupazione, demografia e giovani*

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Bollettino ADAPT 6 marzo 2023, n. 9
 
Ogni italiano ha imparato fin da piccolo alcuni qualunquismi sul nostro Paese, frasi di circostanza buone da giocarsi tanto davanti a un caffè quanto durante la coda alle Poste: “la burocrazia è la causa di ogni malanno della economia”, “i politici rubano”, “il nostro mercato del lavoro è il peggiore in Europa”. Pregiudizi difficili da sradicare, anche perché ancorati a fatti storici che li hanno scolpiti nell’immaginario. Eppure, qualche volta, anche le certezze popolari vacillano.
 
Tocca oggi alle convinzioni sulla occupazione essere messe in dubbio dalla statistica. Gli ultimi dati pubblicati dall’Istat, l’andamento nel 2022 e le prime proiezioni del 2023 ci restituiscono una fotografia piuttosto distante dal ritornello ripetuto in passato, incentrato sui bassi tassi di occupazione e sui limiti delle politiche attive. Beninteso, queste croniche distorsioni rimangono attuali, ma rischiano di limitare la visuale di chi voglia comprendere più a fondo le peculiarità della situazione odierna. L’elemento di novità è rappresentato da due fattori che, miscelati insieme agli antichi scompensi, generano un concentrato di paradossi che vengono troppo velocemente cristallizzati nelle ricette “pronte all’uso” contenute negli editoriali dei quotidiani e delle riviste di settore.
 
Gli addendi che aggravano come mai in precedenza la situazione sono il declino demografico e il deficit di competenze dei lavoratori italiani. È vero, si tratta di nodi tutt’altro che sconosciuti, ma forse fino ad oggi colpevolmente lasciati in secondo piano.
 
1. L’inverno demografico
 
Per quanto concerne il rifiuto della natalità, come ha scritto lo statistico Roberto Volpi nell’interessante Gli ultimi italiani: «andiamo incontro al disastro serenamente travolti dall’ordinarietà». Le ultime previsioni demografiche pubblicate dall’ISTAT paiono un bollettino di guerra, una vera e propria Caporetto, più che una estemporanea ritirata dai reparti di ostetricia: la popolazione residente composta da 59,2 milioni di persone al 1° gennaio 2021, ne conterà 57,9 mln nel 2030, 54,2 mln nel 2050 e 47,7 mln nel 2070. Il rapporto tra individui in età lavorativa (15-64 anni) e coloro che non lavorano (0-14 e 65 anni e più) passerà da circa tre a due nel 2021 a circa uno a uno nel 2050. Se si considera i troppi che pur essendo in età attiva non lavorano (il tasso di occupazione è del 60,8%, che pure è il più alto valore da quando esistono le serie storiche), ben si comprende come vi saranno a breve più disoccupati o inattivi per ogni lavoratore effettivo.
 
Questa situazione si delinea drammatica non tanto sotto il profilo politico o etico, benché le discussioni si esauriscano spesso a questo livello, opponendo le posizioni conservatrici a quelle progressiste in materia di matrimonio e unioni omossessuali: le conseguenze di questo scenario sono devastanti per le fondamenta del nostro welfare, che, essendo la nostra una Repubblica “fondata sul lavoro”, è di tipo assicurativo ed è alimentato dai contributi delle persone attive. Meno lavoratori, quindi, non vuole dire solo meno crescita economica, ma anche meno servizi essenziali: pensioni, sanità, scuola, politiche sociali.
 
Neanche l’immigrazione straniera appare oggi in grado di invertire il trend (anche in questo caso, senza considerare la caratterizzazione del confronto mediatico, polarizzato sulle molteplici conseguenze della accoglienza): l’età media in Italia è oggi di 44 anni, a fronte dei 38 di soli venticinque anni fa. Particolarmente significativi i dati sui giovani: nel 2022 gli under 35 sono 3,6 milioni in meno rispetto a quanti ve ne erano nel 2000 (meno di una generazione prima!). Altrettanti saranno persi nei prossimi dieci (e non più venti) anni. Gli over 45 sono invece cresciuti di 4,2 milioni di unità.
 

2. Demografia e mercato del lavoro
 
A parità di saldi della bilancia commerciale, della richiesta di beni e servizi e di condizione economica, la diminuzione della popolazione in età lavorativa dovrebbe comportare un incremento dei tassi di occupazione: i posti di lavoro restano gli stessi, ma minore è il numero di persone che può occuparli. Effettivamente questo fenomeno va verificandosi (si vedano ancora i dati ISTAT comunicati il 2 marzo 2023), ma soltanto per i lavoratori con una professionalità subito spendibile. Permane, al contrario, il paradosso del mercato del lavoro giovanile: pur essendo sempre meno la “concorrenza”, sono ancora oltre 3 milioni le persone tra i 15 e i 35 anni che non studiano e non lavoro (c.d. NEET, Not in Education, Employment or Training – dati Eurostat 2022). Da questo dato (comprendente gli inattivi) si estrapoli quello relativo agli 883.000 giovani nella stessa fascia di età disoccupati a gennaio 2023 per vedersi restituito un disegno apparentemente incomprensibile.
 
Così elevati tassi di inattività e disoccupazione, infatti, potrebbero spiegarsi in un momento di recessione dell’economia e del mercato del lavoro. Eppure così non è, anzi. Il tasso di occupazione (dati trimestrali destagionalizzati ISTAT) cresce costantemente dal terzo trimestre del 2020 e ha superato i livelli pre-Covid. A gennaio 2023 si sono avuti il migliore tasso di attività, il maggior  numero di occupati (anche donne) e più alto dato sui contratti a tempo indeterminato censiti dal 1977 ad oggi (Istat, 2023). Non solo: le evidenze su licenziamenti e dimissioni comunicati recentemente dall’INPS (Osservatorio su lavoro e precariato, gennaio 2023), che tanta eco hanno generato sui media, sono un segnale inequivocabile della fluidità del mercato del lavoro italiano in questo momento. Come spiegato dalla Banca d’Italia (2021) e dalla Fondazione Studi dei Consulenti del lavoro (2022), le “grandi dimissioni” alla italiana non sono prioritariamente dettate dalla riscoperta di una più riuscita conciliazione vita professionale-vita privata, quanto dalla opportunità di cambiare posto di lavoro ottenendo stipendi più elevati, nello stesso settore (anche in ambiti low skilled come l’edilizia). Mai come in questo periodo gli imprenditori italiani hanno ricevuto richieste di aumento che, quando non accolte (spesso per evitare l’effetto di emulazione interna), sono diventate vere e proprie dimissioni. E’ questo il fenomeno nascosto dietro al dato di 1,6 milioni di dimissioni registrate nei primi nove mesi del 2022, il 22% in più rispetto allo stesso periodo del 2021; la seconda causa di cessazione dei rapporti di lavoro dopo la scadenza dei contratti a termine. Nella larga maggioranza dei casi, le persone si dimettono (perdendo anche la possibilità di accesso alla NASpI) per sottoscrivere un nuovo contratto, presumibilmente più ricco, o sotto il profilo economico o sotto quello del riconoscimento professionale e della gestione del tempo (non a caso è difficile oggi per una azienda dei servizi attrarre talenti senza proporre qualche giorno di smartworking o piani di welfare aziendali dedicati).
 
3. Il paradosso della disoccupazione giovanile
 
Ecco però il paradosso: come mai le aziende si contendono a colpi di rialzo della busta paga i lavoratori che già sono occupati quando potrebbero attingere a costi ben più bassi e con maggiore prospettiva di crescita da quel bacino di tre milioni di giovani con meno di 35 anni che non lavorano?
 
E’ di tutta evidenza che il nodo sia da individuarsi nel grado di “preparazione al lavoro” (che è un tema di competenze e formazione, certamente, ma anche di assetto motivazionale, soft skills e concezione del valore del lavoro) dei più giovani. Quella dei nati dopo il 1990 non solo è una generazione poco popolosa, ma anche in balia di percorsi formativi deboli, sentieri di carriera discontinui e, probabilmente, anche legami educativi fragili.
 
In questo periodo di crisi demografica, va affermandosi un nuovo significato del termine “adulto”, quantomeno nella prospettiva futura del mercato del lavoro: il lavoratore che massimizza i risvolti positivi della ripresa economica è quello in possesso di tratti di personalità (characters) che gli permettono di essere occupabile, quale sia la sua età. Una dimensione che sempre meno ha a che fare con la tipologia e il livello del titolo di studio (con una dinamica di conoscenza, quindi) e sempre di più attiene la maturità professionale (una dinamica di competenza). Il rischio che corriamo, perciò, non è quello di avere sempre più anziani in termini demografici (questa è una certezza), bensì contemporaneamente e paradossalmente, di disporre di sempre meno adulti in termini di responsabilità sociale ed economica. Con buona pace del nostro mercato del lavoro e del nostro sistema di welfare.


Emmanuele Massagli

Presidente ADAPT

Associazione per gli Studi Internazionali e Comparati sul Diritto del Lavoro e delle Relazioni Industriali

@EMassagli
 
*pubblicato anche su Tempi, 13 marzo 2023

Maturità (professionale), t’avessi preso prima! Qualche considerazione su occupazione, demografia e giovani*