Lo stress test dell’obbligo vaccinale: arrivano le prime pronunce

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Bollettino ADAPT 29 novembre 2021, n. 42
 
È noto che le sentenze aiutano sempre a misurare l’attualità e l’efficacia di una legge, dei problemi che genera e dell’impatto che questa produce sulla comunità. In questi mesi, è l’art. 4 del decreto-legge n. 44 del 2021 ad essere finito sotto la lente dei giudici, i quali hanno dovuto “misurarsi” con un problema di non facile soluzione: la legittima adozione di una misura di tutela (il vaccino) a fronte di un’incertezza scientifica (circa gli effetti che può produrre sulla salute dell’uomo, in questo caso il lavoratore). La disposizione in questione prevede, in sintesi, che il personale sanitario, fino al 31 dicembre 2021, al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza, è obbligato a sottoporsi a vaccinazione gratuita per la prevenzione dell’infezione da Sars-CoV-2.
 
In caso di mancata vaccinazione, la norma dispone una serie di meccanismi, che potremmo definire “di salvaguardia”, tesi da un lato a tutelare la continuità occupazionale del lavoratore o della lavoratrice; dall’altro, a preservare l’ambiente sanitario da possibili focolai, che potrebbero mettere a rischio anche la vita dei pazienti. Infatti, l’art. 4, comma 8, prevede che il datore di lavoro deve adibire il lavoratore che non si è sottoposto alla vaccinazione, ove possibile, a mansioni anche inferiori, che non implichino rischi di diffusione del contagio e che quindi non favoriscano anche contatti interpersonali. Qualora tali mansioni siano individuate, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore o alla lavoratrice il trattamento economico che la legge o il contratto collettivo prescrive in relazione ad esse. Se questa assegnazione si rivela infruttuosa, il lavoratore o la lavoratrice deve ritenersi sospesa dal servizio, con diritto alla conservazione del posto, ma senza alcun diritto a percepire la retribuzione o qualsiasi altro emolumento fino all’assolvimento dell’obbligo vaccinale o, in alternativa, fino al 31 dicembre 2021.
 
Il primo organo giurisdizionale chiamato a “misurarsi” con la legittimità di questa disposizione è stato il TAR del Friuli-Venezia-Giulia, il quale ha respinto il ricorso presentato da alcuni medici, paramedici, farmacisti e parafarmacisti ed altri operatori sanitari della Regione Autonoma, non ancora vaccinati, i quali avevano chiesto all’organo giudicante di sollevare una questione di compatibilità del diritto nazionale (l’art. 4) con quello euro-unitario innanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea o in alternativa, una questione di legittimità costituzionale innanzi alla Corte Costituzionale. Il TAR ha respinto il ricorso ritenendolo inammissibile in quanto, presentato come ricorso collettivo, questo difettava sia sotto il profilo soggettivo (i ricorrenti avevano tutti qualifiche professionali diverse) che oggettivo (gli atti impugnati non avevano la stessa natura).
 
Nonostante ciò, i ricorrenti hanno appellato la pronuncia resa dal TAR innanzi al Consiglio di Stato, il quale in una ricca e articolata sentenza, risolte le questioni preliminari e di rito (cfr. par. 7-22 Cons. St. 20 ottobre 2021, n. 7045), ha osservato primariamente che i ricorrenti hanno fondato le proprie ragioni su alcune constatazioni tecnico-scientifiche volte a dimostrare che il vaccino non ha ancora raggiunto quelle condizioni di sicurezza e di efficacia tali per cui può essere imposto un obbligo ai sensi dell’art. 32 Cost. A detta dei ricorrenti, sono le stesse case farmaceutiche produttrici a non conoscere ancora bene le potenzialità del vaccino e sono altrettanto consapevoli dell’assenza di certezza circa gli effetti che a lungo termine questi possono produrre sull’uomo (cfr. par. 23 e 23.1). Ulteriore prova deriverebbe dal fatto che l’EMA avrebbe rilasciato delle autorizzazioni non ordinarie ma periodiche, soggette al rinnovo, per consentire la somministrazione, vincolando i produttori a monitorare gli effetti (par. 23.4).
 
Eppure, il Consiglio di Stato ha ritenuto che i presupposti sui quali si fonda il ricorso, “il primo di ordine scientifico, il secondo di ordine giuridico”, sono da ritenersi “entrambi fallaci e quindi “non possono essere condivisi” (par. 24). Per quanto concerne la (poco rassicurante, secondo i ricorrenti) procedura agevolata di autorizzazione per la somministrazione del vaccino (cioè il presupposto scientifico), questa è prevista dalla normativa europea (Reg. CE 507/2006), concepita per fronteggiare situazioni di emergenza e quindi finalizzata a consentire di fornire un’autorizzazione il più rapidamente possibile, non appena siano disponibili dati sufficienti, nel rispetto comunque del criterio di sicurezza. Infatti, tale procedura speciale è in ogni caso presidiata da particolari obblighi e garanzie (trattasi delle c.d. Conditional marketing authorisation, in acronimo CMA), tra le quali si annovera: a) il rapporto rischio/beneficio del medicinale; b) la fornitura di dati clinici completi; c) la necessità che si tratti di un medicinale che risponda ad esigenze mediche insoddisfatte; d) la necessaria previsione di benefici per la salute pubblica (par. 25 e 26). La dimostrazione che il vaccino abbia inciso sul contrasto all’epidemia deriva poi anche dalla “drastica riduzione di contagi, ricoveri e decessi” i cui dati sono stati resi pubblici sui portali online delle istituzioni e degli enti sanitari (par. 29.2).
 
In relazione, invece, alla scelta del legislatore di assumere una decisione a fronte del c.d. ignoto irriducibile, inteso quale assenza momentanea di una conoscenza profonda dei dati per valutare compiutamente il rapporto rischio/beneficio nel lungo periodo (cioè il presupposto giuridico sul quale si fondava il ricorso), il Consiglio di Stato osserva che è a quest’ultimo che spetta effettuare quel bilanciamento di valori teso da un lato a preservare la salute pubblica e con essa la salute dei soggetti più vulnerabili; dall’altro, ad esercitare delle scelte che per quanto possano essere discrezionali, non devono risultare irragionevoli (par. 30.4). Sebbene secondo i ricorrenti l’incertezza scientifica sia presupposto sufficiente tale da imporre al legislatore di astenersi dall’introdurre un obbligo di legge, lasciando il tutto al libero apprezzamento dei cittadini nel rispetto del principio di precauzione (par. 30.5), il Supremo Collegio ha ritenuto di rigettare tale tesi perché esposta a conseguenze paradossali e contraddittorie: se il legislatore avesse atteso le infinite sperimentazione cliniche, il virus avrebbe decimato oltremodo la popolazione. Peraltro, aggiunge il Consiglio che in tale contesto (quello sanitario) l’evocato principio di precauzione opererebbe in una logica inversa rispetto a quella ordinaria (par. 30.7) “perché richiede al decisore pubblico di consentire o, addirittura, imporre l’utilizzo di terapie che, pur sulla base di dati non completi (come è nella procedura di autorizzazione condizionata, che però ha seguito – va ribadito – tutte le quattro fasi della sperimentazione richieste dalla procedura di autorizzazione), assicurino più benefici che rischi, in quanto il potenziale rischio di un evento avverso per un singolo individuo, con l’utilizzo di quel farmaco, è di gran lunga inferiore del reale nocumento per una intera società senza l’utilizzo di quel farmaco”. Prosegue, dunque, il Consiglio di Stato affermando che “il margine di incertezza dovuto al c.d. ignoto irriducibile che la legge deve fronteggiare in un’emergenza pandemica tanto grave […] non può dunque giustificare, né sul piano scientifico né sul piano giuridico, il fenomeno della esitazione vaccinale” (par. 31).
 
Il Consiglio di Stato ha così confermato la legittimità dell’obbligo vaccinale imposto dall’art. 4, sottolineando che quest’ultimo è posto a tutela non solo del personale sanitario, ma anche a tutela dei pazienti e delle persone più fragili che sono ricoverate o si recano comunque nelle strutture sanitarie o socioassistenziali (par. 31.1-32). Peraltro, l’obbligo in questione non incide solo sulla relazione di cura e fiducia tra paziente e personale sanitario, ma si pone soprattutto come espressione del generale dovere di solidarietà (art. 2 Cost.) che grava su tutti i cittadini, a partire dal personale sanitario, nei confronti dei soggetti più vulnerabili e che sarebbero più esposti alle conseguenze gravi o addirittura letali del virus per via del contatto con soggetti non vaccinati (par. 42.7).
 
Sennonché, a distanza di circa un mese, il Tribunale di Velletri, con decreto datato 22 novembre 2021, ha ordinato la immediata ricollocazione in servizio di una lavoratrice – trattasi di un’infermiera a quanto consta sapere dai primi commenti apparsi sulla stampa – e l’erogazione dello stipendio a far data dalla notifica del provvedimento. Il provvedimento nulla dice in merito alla vicenda di fatto: il giudice, infatti, si limita ad osservare che rispetto alla questione sottopostagli, vi sarebbe “la rilevanza costituzionale dei diritti compromessi (dignità personale, dignità professionale, ruolo alimentare dello stipendio)” e che “la sospensione dal lavoro può costituire solo l’extrema ratio e evento eccezionale in una azienda medio grande”.
 
Come detto, non si tratta né di una sentenza, né di un’ordinanza ma di un decreto provvisorio, il cui contenuto può anche essere ribaltato all’esito del giudizio di merito. Ciononostante, possiamo provare ad ipotizzare che la decisione provvisoria del giudice sia stata dettata non da un presunto fumus di illegittimità della legge – come pure riportano alcune testate giornalistiche – ma da un mancato tentativo di ricollocazione da parte del datore di lavoro della infermiera che ha rifiutato o che non si è sottoposta per ragioni di cura, al vaccino. Perché – è bene ricordarlo – a differenza della normativa che disciplina l’utilizzo del Green Pass (decreto-legge n. 127 del 2021), la normativa che impone l’obbligo vaccinale al personale sanitario, legittima da un punto di vista costituzionale (cfr. art. 32 Cost.), non prevede in caso di mancata somministrazione l’immediata sospensione della prestazione ma un tentativo di ricollocazione, che va condotto probabilmente secondo i criteri giurisprudenziali tipi del repêchage.
 
In sintesi, dunque, pare che l’art. 4, almeno per ora, ne sia uscito indenne e abbia tenuto banco nei giudizi, fermo restando che gli effetti della sospensione dell’attività di lavoro e della correlata retribuzione, possono concretizzarsi solo a fronte di un ingente sforzo del datore di lavoro di provare a ricollocare il dipendente. Questo, al momento, è ciò che i giudici ci dicono, non altro.
 

Giovanni Piglialarmi

Ricercatore presso il Dipartimento di Economia “M. Biagi”
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

@Gio_Piglialarmi

Lo stress test dell’obbligo vaccinale: arrivano le prime pronunce