Lo stato di salute del lavoro in Italia, uno sguardo all’ultimo Rapporto annuale Istat
Bollettino ADAPT 26 maggio 2025, n. 20
Nella miriade di dati che continuamente vengono diffusi sul mercato del lavoro ci sono appuntamenti che sono più importanti e utili degli altri. Uno di questi, per la possibilità di sintesi che offre, è il Rapporto annuale dell’Istat, diffuso nei giorni scorsi. I dati in esso contenuti fotografano un mercato del lavoro dai chiari contrasti: se da un lato si conferma la crescita sostenuta del numero di occupati, dall’altro emergono fragilità strutturali che minano la qualità del lavoro e la competitività del sistema Paese. Ma la cosa che ci pare più interessante, a partire dalle informazioni riportate, è la possibilità di ricostruire lo stato di salute del mercato del lavoro italiano, soprattutto riguardo alla qualità del lavoro.
Sappiamo che in Italia l’espansione occupazionale prosegue per il terzo anno consecutivo (+1,5% nel 2024, +352 mila unità) e che questo ha portato il tasso di occupazione al 62,2% nel corso dell’ultimo anno. Se poi si considera il periodo 2019–2024, si osserva che il numero di occupati è cresciuto del 3,8%, come in Germania ma meno che in Francia e Spagna. Tuttavia, è importante segnalare che l’Italia resta all’ultimo posto tra i 27 Paesi dell’UE per tasso di occupazione, con 15,2 punti di distacco dalla Germania (77,4%), 6,8 dalla Francia (69%) e 3,9 dalla Spagna (66,1%).
Entrando però nella dimensione più qualitativa, e quindi analizzando le caratteristiche dell’occupazione, si osserva che oltre l’80% della crescita dell’ultimo anno è riconducibile all’incremento degli occupati over 50, che rappresentano oggi il 40,6% dell’occupazione totale (+12,5% rispetto al 2019). Al contrario, gli occupati 35-49enni, che costituiscono il 36,9% del totale, rimangono oltre 500 mila unità sotto i livelli del 2019, a fronte di un calo di 1,4 milioni di residenti in questa classe d’età. Questo fenomeno riflette tanto le dinamiche demografiche – una forza lavoro che invecchia e una popolazione in età lavorativa (per convenzione, quella compresa tra i 15 e i 64 anni, un intervallo che forse andrebbe rivisto alla luce dei cambiamenti in corso) che si contrae – quanto l’incapacità del sistema di assorbire e valorizzare il capitale umano più giovane. Infatti, se da un lato l’invecchiamento e il ruolo della riforma Fornero nel trattenere le persone nel mercato del lavoro hanno avuto un ruolo centrale nell’andamento dell’occupazione nell’ultimo decennio, dall’altro l’Italia registra anche il più basso tasso di occupazione giovanile in Europa (34,4%, circa 30 punti percentuali in meno rispetto alla Germania) e uno dei più alti tassi di NEET (15,2%, 4,2 punti sopra la media UE e seconda solo alla Romania). Per quanto riguarda i più giovani, i divari nei tassi di occupazione rispetto alla media UE sono ampi soprattutto tra diplomati e laureati: nel 2023, il tasso di occupazione dei laureati 30-34enni è pari all’84% (-5 punti percentuali dalla media UE), mentre scende al 73% tra i diplomati (-8 punti).
I dati mostrano inoltre che l’aumento degli occupati nel 2024 riguarda principalmente laureati (+3,7%) e diplomati (+2,2%), mentre si registra una diminuzione tra chi ha al massimo la licenza media (-1,8%). Questo segnala una capacità crescente di assorbire lavoratori con livelli di istruzione medio-alti, senza però garantire sempre un’effettiva valorizzazione delle loro competenze. Infatti, un elemento di criticità che emerge dall’analisi dei dati riguarda l’occupazione sovraqualificata: tra i giovani laureati di 25-34 anni, il 35,9% risulta sovraistruito, con un’incidenza ancora più alta tra le donne (38,1%) e un picco del 47,6% tra i laureati in discipline socio-economico-giuridiche. Ciò significa che una quota significativa di lavoratori svolge mansioni che non richiedono il livello di istruzione conseguito, evidenziando inefficienze nel mercato del lavoro e potenziali sprechi di capitale umano. Allo stesso tempo, rimane fondamentale non trascurare l’inclusione della forza lavoro meno qualificata, che rappresenta un segmento cruciale soprattutto alla luce delle sfide demografiche in corso. Il marcato divario tra il tasso di occupazione dei più istruiti (82,2%) e quello dei meno istruiti (45,1%) evidenzia come permangano difficoltà significative nell’integrare efficacemente questa parte della forza lavoro, sottolineando la necessità di interventi mirati per colmare questo divario e migliorare l’efficienza complessiva del sistema occupazionale. Il dato dialoga anche, non senza qualche paradosso, con la qualità della domanda di lavoro. Infatti, dal Rapporto emerge che, sebbene in aumento, l’incidenza dell’occupazione qualificata in Italia è ancora molto inferiore rispetto agli altri Paesi UE. Un aspetto particolarmente critico riguarda la distribuzione per età: se negli altri Paesi i giovani under 40 svolgono professioni più qualificate degli over 40, in Italia questo gap non esiste. Ciò genera una situazione che disincentiva i profili più qualificati – che sono più presenti, almeno sulla carta, tra gli under 40, soprattutto rispetto ad ambiti tecnici e tecnologici – a rimanere in Italia.
Questi dati in parte si collegano a quello che appare il vero punto di debolezza del sistema italiano: la produttività del lavoro, che nel 2024 è diminuita del 2% (segnando un peggioramento anche rispetto agli altri indicatori: -0,2% per la produttività del capitale e -1,3% per quella totale dei fattori). Questo trend si inserisce in una traiettoria di lungo periodo preoccupante: tra il 2000 e il 2024, il PIL per occupato, una misura della produttività del lavoro, è calato del 5,8% in Italia, mentre è cresciuto tra l’11% e il 12% in Francia, Germania e Spagna. Questo andamento negativo è in parte attribuibile alla progressiva riallocazione dell’occupazione in comparti a bassa produttività, in particolare nei servizi ad alta intensità di lavoro (come quello alberghiero-ristorativo, che da solo ha assorbito oltre un terzo della crescita dell’input di lavoro negli ultimi 25 anni). Al contrario, settori ad alta produttività e redditività come i servizi ICT hanno visto aumentare la rispettiva quota di lavoro in misura piuttosto contenuta (+0,3 punti percentuali in termini di ore lavorate). Tecnologie avanzate, politiche di innovazione e strumenti digitali contribuiscono in modo significativo a rendere più efficiente l’input lavoro e quindi ad aumentare i livelli di produttività, senza investimenti su questo fronte un’inversione di rotta è difficilmente concretizzabile.
Sul fronte contrattuale, i dati mostrano un aumento significativo degli occupati con contratto a tempo indeterminato, che nel 2024 raggiungono quota 16 milioni (+3,3% rispetto all’anno precedente), mentre i dipendenti a termine calano a 2,8 milioni (-6,8%, pari a circa 203 mila unità in meno). In termini relativi, i lavoratori a tempo indeterminato rappresentano quindi l’85,3% del totale dei dipendenti, mentre quelli a termine il 14,7%. Questo aumento dell’occupazione permanente è un segnale inequivocabilmente positivo, ma va anche letto alla luce di una serie di fattori strutturali e congiunturali che caratterizzano il mercato del lavoro di oggi. Da un lato il fenomeno è trainato dall’espansione dell’occupazione nella fascia over 50 nella quale i contratti stabili sono generalmente più diffusi, dall’altro il contesto di crisi dell’offerta di lavoro – in cui è sempre più difficile trovare e trattenere lavoratori – sta spingendo molte imprese a ricorrere in misura maggiore al tempo indeterminato come strategia di retention, sia attraverso nuove assunzioni che trasformazioni contrattuali.
Nonostante questa tendenza comunque positiva, resta elevata l’incidenza dell’occupazione in condizioni di fragilità contrattuale, che colpisce soprattutto giovani e donne. Solo il 63% degli occupati con più di 15 anni ha un impiego “standard” (a tempo pieno e indeterminato), pur in aumento di 2,1 punti percentuali rispetto al 2023 e di 4,8 punti rispetto al 2019. Oltre un terzo dei giovani tra i 15 e i 34 anni e quasi un quarto delle donne lavora con contratto a termine o in part-time involontario. Tra gli occupati under 35, il 28,1% ha un contratto a tempo determinato e il 5,9% lavora part-time per mancanza di alternative; tra le donne occupate, il 13,7% è in part-time involontario e il 4,3% combina questa condizione con un contratto a termine. Queste forme di vulnerabilità si riflettono direttamente sulle retribuzioni, mediamente più basse per entrambi i gruppi a causa della maggiore incidenza di lavori temporanei e a bassa intensità oraria.
Il Rapporto annuale dell’Istat è chiaramente più ricco rispetto agli elementi che abbiamo fin qui richiamato, ma già da essi emerge come il tema della qualità del lavoro nel nostro Paese riguardi tanto la domanda quanto l’offerta e che il disallineamento tra questi due elementi sia una delle criticità principali. Spesso però questo aspetto è letto e analizzato dal punto di vista meramente quantitativo, e ha ragione se si considerano i grandi impatti che l’evoluzione demografica sta avendo. Uno sguardo al disallineamento qualitativo è però utile in termini di riflessioni sulle politiche che potrebbero essere messe in atto nel breve periodo (cosa più complessa rispetto al contesto demografico). Il fatto che la qualità della domanda spesso sia bassa, in particolar modo nei servizi, ha molto a che fare con la perdita di capitale umano e di competenze che l’Italia sta vivendo da decenni a causa dell’emigrazione di una parte consistente delle sue migliori speranze. L’integrazione tra la formazione e il lavoro, da questo punto di vista, attraverso strumenti come l’apprendistato duale e gli ITS Academy, può aiutare nell’allineare qualità della formazione a qualità della domanda di lavoro. Allo stesso tempo, è però centrale innalzare i livelli di innovazione di processo e di prodotto, oltre che dei modelli organizzativi, per intercettare il potenziale delle continue rivoluzioni tecnologiche che rischiano di rimanere un sogno (o peggio, neanche di essere intercettate) da moltissime aziende. Una politica industriale, del lavoro e della formazione, dovrebbe muoversi, integrando le prospettive dei diversi attori coinvolti – tra cui imprese, sindacati, associazioni di categoria, scuole e istituti di formazione – per rispondere a queste sfide.
Jacopo Sala
ADAPT Research Fellow
@_jacoposala
Francesco Seghezzi
Presidente ADAPT
@francescoseghezz
Condividi su: