L’industria automotive italiana alla prova della transizione ecologica

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Bollettino ADAPT 7 febbraio 2022, n. 5
 
Il 3 febbraio 2022 Federmeccanica, FIOM-CGIL, FIM-CISL e UILM-UIL hanno presentato un documento congiunto, che racchiude in cinque punti le necessità del settore automotive, e convocato una conferenza stampa, auspicando di avviare una discussione con il Presidente del Consiglio e i ministri competenti. Si tratta di una circostanza eccezionale, resa necessaria dalla presa di coscienza che le relazioni industriali devono superare la tradizionale ottica del conflitto per affrontare le trasformazioni del mercato (o meglio, dei mercati) costruendo percorsi condivisi e cercando di prevenire le crisi. I nodi essenziali da sciogliere al tavolo richiesto riguardano gli aspetti economici e programmatici delle azioni che il settore dovrà intraprendere, nonché il loro impatto sul territorio. In tal senso, le esigenze manifestate non si limitano all’ottenimento di ulteriori fondi per gli ammortizzatori sociali e la formazione, ma si estendono sino a prendere in considerazione la compatibilità dei vincoli alle emissioni con le tecnologie disponibili, gli incentivi a sostegno della domanda e dell’offerta, l’attrazione di nuovi investimenti, il sostegno alla ricerca e allo sviluppo. Il presupposto delle valutazioni operate dalle parti sociali è riepilogato in un documento che racchiude le considerazioni dell’Osservatorio automotive costituito da Federmeccanica, FIM, FIOM e UILM, nel quale si sottolineano i rischi e le opportunità della riconversione. Il timore che emerge in modo preponderante è quello della deindustrializzazione del settore automobilistico, che ha dimostrato nel tempo di essere fondamentale per l’economia del Paese.
 
La conferenza stampa congiunta ha evidenziato alcuni passaggi salienti delle posizioni condivise nel comunicato. Tra tutti, ha un ruolo preminente la necessità di concertare delle politiche industriali lungimiranti, che tengano conto delle prospettive nel medio-lungo periodo del settore automobilistico italiano, onde evitare che lo sforzo richiesto all’intero comparto risulti vano. Servirebbe, in sostanza, un “patto industriale per l’automotive italiano”, che individui le linee programmatiche principali da perseguire nel prossimo decennio e le relative modalità concrete di esecuzione. I capisaldi dei propositi dell’inedito raggruppamento di sigle si possono riassumere nell’esigenza di gestire in modo uniforme le situazioni di crisi industriale legate alla transizione ecologica attraverso specifici fondi destinati al rafforzamento delle competenze professionali e, allo stesso tempo, cercare di anticipare le trasformazioni che saranno necessarie per fronteggiare le sfide future.
 
Punto focale della linea adottata è la valorizzazione delle professionalità d’eccellenza nel settore automotive e nell’indotto, già presenti sul territorio, che rischiano di trovarsi ai margini del mercato del lavoro a seguito della riconversione. In questo senso, occorre “riempire di contenuti i concetti che vengono spesso rievocati nelle sedi più disparate”, individuando la direzione nella quale è opportuno muoversi per adeguarsi alle sfide che si prospettano all’orizzonte. Così, riecheggia la visione transizionale del mercato del lavoro contemporaneo, nel quale il lavoratore è portato ad aggiornare costantemente le proprie competenze anche mentre è già occupato, al fine di prevenire le esigenze delle imprese e, soprattutto, di mantenere il proprio posto di lavoro [per una ricostruzione di questa impostazione, v. i contributi in S. Ciucciovino, D. Garofalo, A. Sartori, M. Tiraboschi, A. Trojsi, L. Zoppoli (a cura di). Flexicurity e mercati transizionali del lavoro, Adapt University Press, 2021]. Infatti, in linea con quanto teorizzato in dottrina, il proposito delle parti sociali dovrebbe essere quello di realizzare un programma appositamente ed espressamente volto alla gestione delle transizioni occupazionali che tenga conto della necessità di rivedere sia il sistema di protezione in ottica assicurativa, sia il ruolo delle agenzie per il lavoro, che sarebbe opportuno coinvolgere nella pianificazione delle strategie industriali future. Proprio con riguardo a tale ultimo aspetto, uno dei profili problematici è costituito dal fatto che spesso la remunerazione del soggetto privato è subordinata al raggiungimento di un risultato, senza che sia tenuta in conto l’attività prodromica alla ricollocazione effettiva del lavoratore. Con la conseguenza che, in caso di mancato raggiungimento dell’obiettivo, l’intera operazione si rivela antieconomica. In altre parole, “la cornice progettuale dello Stato e la programmazione delle Regioni dovrebbe […] incoraggiare la partecipazione delle agenzie per il lavoro alla rete dei servizi per l’impiego, come suggerito dalle raccomandazioni internazionali” [così C. Garbuio, Transizioni nel mercato e mercato nelle transizioni: ruolo ibrido e strumenti delle agenzie per il lavoro, in S. Ciucciovino, D. Garofalo, A. Sartori, M. Tiraboschi, A. Trojsi, L. Zoppoli (a cura di). Flexicurity e mercati transizionali del lavoro, Adapt University Press, 2021, p. 195].
 
È opportuno evidenziare, però, che tale valutazione deve basarsi su dati concreti. Dati desunti – o, quantomeno, desumibili – da un elemento fattuale, onde evitare che, pur di raggiungere la maturazione di politiche industriali condivise, siano operate scelte basate solo su mere supposizioni, che mancherebbero però di concretezza, conducendo all’elaborazione di un programma irrealizzabile (considerazione, questa, in linea con quanto rilevato dalle parti sociali in merito allo stato attuale delle tecnologie adoperate per la produzione di componentistica). Il paragone con l’effetto annuncio evocato durante la conferenza stampa è particolarmente calzante. Difatti, la reazione delle imprese di fronte a una dichiarazione di intenti che, nel concreto, non avrà effetti ancora per lungo tempo è sembrata assolutamente smisurata. In particolare ciò che colpisce è la necessità di fronteggiare nel breve periodo un rischio occupazionale per diverse migliaia di lavoratori che, nella peggiore delle ipotesi, dovranno riqualificarsi nei prossimi quindici anni. Un lasso di tempo del tutto ragionevole per immaginare uno scenario alternativo sia mediante la transizione verso professioni analoghe sia con altri strumenti già messi a disposizione dall’ordinamento (basti pensare all’assegno di ricollocazione o agli incentivi all’esodo). Non può che condividersi, quindi, la preoccupazione che si possa trattare di un espediente per (mal)celare un intento dismissivo maturato ancor prima della pandemia (in questo senso, la contrazione del mercato e il considerevole ricorso alla cassa integrazione in Italia si potevano evincere già nel rapporto dell’Unione Europea Social dialogue and recession in the automotive sector, 2010, p. 38). I dati resi pubblici da ANFIA (v. il rapporto annuale aggiornato al 31 marzo 2021) sono inequivocabili e, pur consentendo una visione solo parziale – non contemplando anche la produzione di componentistica destinata ai mercati stranieri – evidenziano come, a fronte di un calo della produzione italiana del 65% circa dal 2001 al 2020, il dato occupazionale si sia mantenuto all’incirca costante (fonte: rapporti annuali ANFIA e rapporto della 10^ Commissione industria, commercio, turismo del Senato, Il settore automotive nei principali Paesi europei, 2015), circostanza resa possibile solo grazie all’aumento delle esportazioni e agli ammortizzatori sociali (per un’analisi di settore nella regione Emilia-Romagna, che ha visto una situazione più rosea rispetto al dato nazionale, v. L. Silvestri, G. Caruso, S. Fareri, G. Solinas, Dalla crisi alla crisi: nuovi lavori e competenze nel settore automotive, DEMB W.P. Series, 2020). Pertanto, le imprese non possono essere spaventate dall’imminente calo della produzione di autoveicoli a combustione tradizionale, quanto piuttosto dalle caratteristiche tecniche dei motori elettrici, che necessitano di una componentistica differente da un punto di vista quantitativo e qualitativo. È proprio in quest’ottica che deve intendersi la “richiesta di aiuto” delle parti sociali, che prevedono una riduzione strutturale dell’occupazione quantificabile almeno nel 30%.
 

Tra le osservazioni mosse ai rappresentanti delle quattro sigle spiccano quelle relative all’assenza di Stellantis dal tavolo delle trattative, sebbene ciò non implichi al momento una presa di posizione da parte del gruppo nei confronti dell’iniziativa congiunta. Infatti, oltre alla grande attesa per il suo programma industriale (che sarà reso noto il 1° marzo), si ipotizza l’imminenza di una presa di posizione concreta sulla spinosa questione della riqualificazione professionale e, soprattutto, della delocalizzazione al di fuori del territorio italiano. A prescindere dalla sua partecipazione ai futuri tavoli negoziali, comunque, non v’è dubbio che anche il gruppo Stellantis dovrà adeguarsi alle linee programmatiche adottate di concerto con il Governo. Difatti, sebbene esso rappresenti al momento l’unico grande produttore di autoveicoli sul territorio nazionale, la possibilità che l’intero comparto affronti in modo compatto la transizione ecologica comporta anche l’eventualità di nuove prospettive di espansione su mercati stranieri. Inoltre, i grandi stabilimenti industriali che si occupano di assemblaggio dovranno comunque approvvigionarsi delle componenti che risulteranno necessarie. Pertanto, una riconversione sarebbe possibile anche senza Stellantis, tenendo però in debita considerazione quelle che saranno le esigenze future in termini di componentistica, onde evitare di perdere terreno rispetto agli agguerriti concorrenti internazionali. È in questo che le parti sociali possono assumere un ruolo chiave, indirizzando le politiche industriali verso la valorizzazione delle competenze e la riqualificazione dei lavoratori, consentendone la permanenza sul mercato.

 

In conclusione, sembra che il sindacato stia recuperando il ruolo di gestione delle professionalità e dei mestieri che gli è stato estraneo per lunghissimo tempo, assumendosi la responsabilità di gestire la trasformazione dei lavori e sostenendone la riqualificazione attraverso misure concertate, in un promettente dialogo tra pubblico e privato [sul punto, v. B. Caruso, Il sindacato tra funzioni e valori nella “grande trasformazione”. L’innovazione sociale in sei tappe, in Working Paper CSDLE “Massimo D’Antona” – IT, n. 394, p. 3 ss.].
 

Alessio Caracciolo

Ricercatore presso il Dipartimento di Economia “M. Biagi”

Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

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