Lettera in risposta ai “figli dei fiori” di G. Cazzola

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Bollettino ADAPT 7 febbraio 2022, n. 5
 
Caro direttore,
 
e se fossero tornati i figli dei fiori, sarebbe poi un gran male, dopo anni di efficientismo e al tempo stesso di crisi, e dopo i due anni “penitenziali” dell’epidemia di covid-19? Me lo chiedo riprendendo l’incipit del pezzo pubblicato da Giuliano Cazzola sul bollettino ADAPT del 31 gennaio 2022, che esplora cosa stia succedendo nel mondo del lavoro, e in particolare che razza di fenomeno sia quello che viene etichettato ormai un po’ dappertutto come The Great Resignation, o The Big Quit. Per farmi capire, tradurrei queste espressioni in Ondata di dimissioni. Il che vuol dire, semplicemente, che negli ultimi mesi c’è stato un numero inaudito (mai udito prima) e particolarmente significativo di lavoratori che hanno lasciato volontariamente un posto di lavoro. Guarda un po’, proprio quando si temeva un’impennata di licenziamenti. Questo fenomeno sembra essere particolarmente accentuato negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, ma anche in Italia i numeri superano qualunque spiegazione ordinaria.
 
Infatti Giuliano Cazzola, il cui motto potrebbe essere “poche chiacchiere, siamo realisti” e quindi non sembra attratto dai figli dei fiori, sembra ammettere a malincuore che il fenomeno esiste. E snocciolando i dati, deve giungere suo malgrado alla conclusione che la grande Ondata di Dimissioni stia effettivamente montando tra giovani e meno giovani, contratti a tempo indeterminato e anche determinato (ma come, anche loro, che dovrebbero essere dilaniati notte e giorno dalla paura di perderlo, il lavoro!) e più uomini che donne. E questo ha sorpreso anche me, visto che un po’ mi ero data la spiegazione che la pandemia avesse riportato le donne a casa, a occuparsi di figli, compiti, anziani e famiglia in generale. Invece non sarebbe così, anche se, in un mondo in cui lavorano più gli uomini che le donne, è ovvio che a dimettersi siano più i primi. Comunque, l’ultimo dato dell’Istat sull’occupazione, che segna il ritorno ai livelli pre-pandemia, ci sorprende: le donne che lavorano, finalmente hanno toccato in Italia la percentuale record del 50,5%. La più alta, da sempre. Ma questo forse è un altro discorso.
 
E tuttavia la grande Ondata di dimissioni non mi stupisce. Anzi, l’aspettavo. Oltre dieci anni fa, al momento in cui è esplosa la crisi finanziaria mondiale, molte ricerche sui giovani (tra le quali quelle dell’Istituto Iard, e quelle di Domenico De Masi) dicevano che gli under 30 non avevano la stessa idea del lavoro dei loro padri, e neanche dei loro fratelli maggiori quarantenni. Rifiutavano il principio del lavoro totalizzante. “Il lavoro è una parte della loro vita, non l’obiettivo principale. Ciò a cui tengono è realizzare sé stessi (scrivevo allora nel libro del 2009 La Sfida degli Outsider) e tengono al tempo libero, alla possibilità di coltivare interessi, relazioni, esperienze. Può sembrare contraddittorio in una realtà nella quale i giovani dicono di non vedere possibilità, speranza di futuro. Può perfino sembra la confessione di una generazione accusata di poca voglia di lavorare”.
 
Ed ecco, gli under 30 di allora sono diventati quarantenni, e certamente la pandemia ha dato a tutti la possibilità di riflettere e di vedere la realtà in una luce nuova. Anche molti di noi over 50 hanno dovuto ammettere che lavorare tanto, nella propria vita, non ha portato sempre ai risultati che ci aspettavamo, anzi, ci ha sottratto molti momenti belli.  Un migliore equilibrio tra lavoro e “vita” sarebbe stato probabilmente più razionale, e oggi ne stiamo cercando gli ultimi scampoli, quando possiamo.   Tutto questo, che dieci anni fa sembrava agli albori, oggi è un dato di fatto consolidato anche tra coloro che non sono più così giovani.
 
E infatti, gli ultimi dati di Prometeia e Lega Coop, del 1° febbraio 2022 dicono che le dimissioni volontarie in Italia nei primi nove mesi del 2021 sono aumentate del 31,6% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, passando da 1 milione ad oltre 1 milione e 300mila. (Report «Assunzioni e cessazioni: qualcosa si muove nel mercato del lavoro italiano» realizzato da Area Studi Legacoop e Prometeia). Mauro Lusetti, presidente di Legacoop, conclude che «La qualità del lavoro e della vita, il bisogno di soddisfazione, di autorealizzazione, di crescita sociale e personale: lo sviluppo armonico di un paese non richiede solo di mettere le persone al lavoro, ma di metterle al posto giusto; un sistema produttivo che non valorizza i propri talenti, semplicemente, non rende ciò che potrebbe».  Una diagnosi precisa che fa il paio con quella di più di dieci anni fa.
 
Le conclusioni? Prima di cercarle va affrontata l’altra faccia della medaglia, toccata da Cazzola un po’ en passant. Proprio mentre sui giornali si temeva che ci sarebbero stati licenziamenti di massa, non solo arrivano le dimissioni volontarie, ma molti imprenditori, sempre di più infatti, levano alti lai per la carenza di lavoratori.  E attenzione, si sottolinea, non lavoratori della mente o di altissima qualificazione, ma operai, più o meno specializzati e, aggiungiamo, lavoratori dei servizi e , in particolare, dei settori del turismo, che di solito sono considerati merce pronta all’uso.  Questo tema aprirebbe una importante riflessione sul lavoro “qualificato”, che oggi è in molti casi non quello del colletto bianco che passerà gran parte della sua (triste) giornata in un ufficio davanti a un computer, ma quello di un tecnico ad alta specializzazione o, appunto, di un lavoratore dei servizi alla persona, sia esso nel settore sanitario, benessere, o turismo.  Di questi lavoratori abbiamo sempre più bisogno. Ma, si dice ancora da parte di chi fa l’avvocato del diavolo come Cazzola, forse molte persone si sottraggono al lavoro grazie ai generosi (?) sussidi legati al covid, o ai sussidi in generale che un po’ dappertutto (e finalmente anche in Italia) sono rivolti a chi non lavora.  Traduciamo?  Con questi benedetti (o maledetti) sussidi, con il Reddito di Cittadinanza l’imprenditore non ha più a propria disposizione una forza lavoro disposta a tutto pur di lavorare, anche con orari particolarmente disagiati, che impattano violentemente sulla sua vita personale e familiare, e a bassa remunerazione.
 
E qui veniamo forse a un punto cruciale. In questi anni abbiamo letto e appreso che la ricchezza si è sempre più concentrata, mentre gli strati sociali più bassi (quelli che un tempo erano tout court “i lavoratori”, e forse ancora si chiamano così) hanno perso posizioni nella scala sociale.  Forse sarebbe bello che si cominciasse a ragionare sul fatto che un’impresa che ha bisogno di lavoratori, dovrebbe pagarli meglio, preoccuparsi del loro benessere, e fare di tutto perché si trovino bene e non debbano rinunciare agli affetti e alla salute.
 
Lo spiega bene un articolo, anche questo uscito in questi giorni, dell’inserto sull’innovazione dell’Eco di Bergamo, Skille, a firma di Stefano Casiraghi: “La pandemia ha cambiato tutto e stravolto le priorità. Lavoratori sempre meno coinvolti e ingaggiati. Non è più così importante una politica retributiva. Le giovani generazioni puntano su aziende che conciliano vita privata e impegni professionali. E il digitale si trasforma in leva di attrattività”.
 
Sorprendente? Eppure sembrerebbe così logico. E la pandemia ha accelerato un processo di lungo periodo. Se un imprenditore non trova lavoratori, o non trova lavoratori qualificati, deve cominciare a pagarli di più e, allo stesso tempo, preoccuparsi della loro formazione professionale.  La qualificazione professionale non è più un optional. Tutti gli studi ci ripetono che si dovrà studiare e ci si dovrà riqualificare per tutta la vita. Quindi lo dovrebbero sapere anche i datori di lavoro, no?
 
Credo che questo ragionamento potrebbe essere accettato anche da chi, come Cazzola, ha fatto del pessimismo della ragione (anche se un tempo conosceva l’ottimismo della volontà) la propria bussola.
 
C’è una sola obiezione che può valere a fronte di questo ragionamento, soprattutto in Italia. La dimensione microscopica delle imprese italiane.  Il piccolo ristoratore, l’impresa edile di tre persone, la start-up femminile, raramente hanno la forza di fare fronte economicamente alle aumentate esigenze della forza lavoro. Il piccolo imprenditore ancora cerca il lavoratore disposto a un lavoretto per due soldi, anche se poi gli orari si dilateranno al di là dello spazio-tempo tradizionale. E qui le forti organizzazioni datoriali dovrebbero entrare in campo, insieme allo stato e, perché no, ai sindacati. Formazione professionale, riduzione del costo del lavoro per il datore di lavoro, contributi alla piccola impresa, semplificazioni burocratiche sono solo le prime cose che vengono in mente.  Se poi questi sono ragionamenti da figli dei fiori, benissimo. Vuol dire che finalmente anche i figli dei fiori sono cresciuti e nell’anno 2022 sono finalmente diventati concreti e sono passati all’azione. Magari adesso qualcuno potrebbe provare ad ascoltarli.
 
Angela Padrone

@angelapadrone

Lettera in risposta ai “figli dei fiori” di G. Cazzola