L’estate “calda” del diritto del lavoro. Riflessioni su Corte cost. n. 118/2025*
| di Mariella Magnani
Bollettino ADAPT 17 novembre 2025 n. 40
1. Senza nulla togliere all’importanza delle altre elaborate sentenze oggetto di questo incontro, cui aggiungerei Corte cost. n. 135 del 2025, relativa alla legittimità costituzionale della previsione del tetto dei 240.000 euro nel pubblico impiego, vorrei soffermarmi, per la sua rilevanza di sistema nell’ordinamento lavoristico ed anche nella realtà sociale – se è vero che le imprese di piccole dimensioni (da 0 a 9 addetti) rappresentano il 95,2% di quelle attive con il 43,8% degli addetti – sulla sentenza n. 118 della stessa Corte costituzionale, relativa ai rimedi contro il licenziamento illegittimo per i datori di lavoro cd. sottosoglia.
La Corte, con questa sentenza, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 9, 1° co., d. lgs. n. 23 del 2015 solo per la parte in cui prevedeva il limite massimo di sei mensilità di retribuzione, avallando dunque il criterio del dimezzamento dell’indennità da licenziamento illegittimo rispetto ai datori di lavoro di maggiori dimensioni. Ne consegue che oggi l’indennità risarcitoria spettante al lavoratore in caso di licenziamento ingiustificato oscilla tra le tre e le diciotto mensilità, da calibrare discrezionalmente da parte del giudice “sulla base dei criteri già indicati dalla Corte” (così si limita a statuire Corte Cost. n. 118).
Invece, per quanto riguarda il licenziamento illegittimo per vizi formali o procedurali, a seguito della sentenza, l’indennità risarcitoria oscillerà, ai sensi del combinato disposto degli articoli 9, 1° co. e 4, 1° co., del d. lgs. n. 23 del 2015, tra una e sei mensilità (tenendo conto dei vari criteri, tra cui la gravità della violazione, enunciati da Corte cost. n. 150 del 2020).
Nella stessa sentenza la Corte costituzionale non manca di formulare l’auspicio, già formulato nella sentenza n. 183 del 2022, che il legislatore intervenga in materia, essenzialmente al fine di ammodernare gli indici rivelatori della forza economica del datore di lavoro, che – osserva la Corte – non possono esaurirsi nel numero dei dipendenti “dovendosi considerare anche altri fattori altrettanto significativi, quali possono essere il fatturato o il totale di bilancio, da tempo indicati come necessari elementi integrativi dalla legislazione europea ed anche nazionale”.
Dunque, da una parte, la Corte avalla il doppio canale (regimi differenziati per le piccole e le grandi organizzazioni), giudicando inadeguata solo l’entità dell’indennità prevista per le piccole; d’altra parte, non ritiene soddisfacenti i criteri utilizzati dal legislatore per stabilire il discrimine. E qui interviene con un monito più attenuato rispetto a quello contenuto nella sentenza n. 183 del 2022.
Prima della sentenza, ci si era ampiamente domandati circa le operazioni consentite alla Corte di fronte alla nuova prospettazione della questione di legittimità costituzionale, dopo il monito disatteso di Corte cost. n. 183 del 2022; e non si era neppure escluso che la Corte procedesse a un nuovo monito: tanto più che la questione prospettata alla Corte dal Tribunale di Livorno nel 2024 non era poi tanto diversa da quella prospettata dall’ordinanza di rimessione del Tribunale di Roma nel 2021 e a fronte della quale era stata pronunciata la sentenza n. 183 del 2022.
A leggere bene l’ordinanza di rimessione del Tribunale di Livorno del 2 dicembre 2024, la questione del limite massimo dell’indennità era strettamente collegata al problema dei criteri per determinare che cosa sia “piccola impresa”. Osservava il Tribunale di Livorno che il cd. Jobs Act faceva dipendere il limite massimo dei sei mesi da un elemento estraneo al rapporto di lavoro: “il limite dimensionale costituito dal numero degli occupati che, nell’attuale contesto socio-economico, risulta anacronistico e non capace di rispecchiare di per sé la concreta forza economica del datore di lavoro”. Quindi, nella prospettazione del giudice rimettente, non era in sé il limite massimo ad essere contestabile quanto il fatto che esso si applicasse indistintamente anche ad imprese che, pur essendo connotate da un contenuto numero di dipendenti, avevano grandi potenzialità economiche (vedi M. Magnani, il licenziamento nelle piccole imprese tra legislatore e Corte Costituzionale, in Bollettino Adapt n. 14/2025. Ed è proprio questa questione, cioè quella della definizione dei criteri per misurare la potenzialità economica dell’impresa, che è apparsa insolubile alla Corte costituzionale sia nel precedente intervento del 2022 sia nell’ultimo del 2025.
2. Comunque, ora non è più il caso di discettare su questi aspetti, se non forse in una prospettiva de iure condendo, ma occorre soffermarsi sui problemi applicativi e di coerenza di sistema che la sentenza della Corte innesca.
Il primo concerne i criteri che devono essere applicati dal giudice nel determinare l’entità dell’indennizzo che ora, in caso di licenziamento ingiustificato, ha un ambito di oscillazione molto ampio (da 3 a 18 mensilità).
Lo stesso problema di determinazione dei criteri era sorto con la sentenza n. 194 del 2018, ma, in quella sentenza, la Corte costituzionale, sebbene nella parte motiva, aveva indicato i criteri: “innanzitutto” quello della “anzianità di servizio”, prescritto dalla legge delega n. 184 del 2013 e, a seguire, gli altri criteri “desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti”). E il rilievo prioritario dell’anzianità di servizio era stato ribadito da Corte cost. n. 150 del 2020, che si era spinta ad osservare che l’anzianità di servizio rappresenta la base di partenza della valutazione; potendosi “in chiave correttiva, con apprezzamento congruamente motivato… ponderare anche altri criteri desumibili dal sistema, che concorrono a rendere la determinazione dell’indennità aderente alle particolarità del caso concreto”.
Nella pronuncia n. 118 del 2025, la Corte costituzionale si limita a fare riferimento, con formula alquanto criptica, ai “criteri indicati da questa Corte”. È un passaggio troppo rapido, quanto meno perché la sentenza n. 194 del 2018 richiamava, sì, i criteri di cui all’art. 18, 5° co., St. lav., ma, nella parte argomentativa, rimandava anche ai criteri di cui all’art. 8 della l. n. 604 del 1966. E non vi è una perfetta coincidenza tra questi criteri. Infatti, per l’art. 18 St. lav., 5° co., al fine di determinare l’ammontare dell’indennità risarcitoria occorre fare riferimento “all’anzianità del lavoratore”, tenendo anche conto “del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo”. Per l’art. 8 l. n. 604 occorre fare riferimento al “numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti”. A sua volta, poi, l’art. 30, 3° co., l. n. 183 del 2010 dispone che, nel definire le conseguenze da riconnettere al licenziamento illegittimo, ai sensi dell’art. 8 della l. n. 604, “il giudice tiene ugualmente conto di elementi e parametri fissati dai … contratti [collettivi] e comunque considera le dimensioni e le condizioni dell’attività esercitata dal datore di lavoro, la situazione del mercato del lavoro locale, l’anzianità e le condizioni del lavoratore, nonché il comportamento delle parti anche prima del licenziamento”.
Già questa indefinizione presenta pesanti controindicazioni se si considera che il problema di guidare la discrezionalità del giudice assume una maggiore delicatezza proprio nel caso dei piccoli datori di lavoro, rispetto ai quali non bisogna immaginare sempre le multinazionali che, grazie alle nuove tecnologie, muovono enormi fatturati con pochissimi dipendenti, ma anche le microimprese, gli artigiani, i piccoli commercianti, i professionisti, etc.
Stabiliti i criteri, occorrerà poi che i giudici soddisfino adeguatamente l’onere di motivazione, in modo da giustificare una liquidazione effettuata in maniera non arbitraria. Ebbene, è bensì vero che la sentenza di merito non potrà limitarsi a formule generiche; tuttavia, stando all’esperienza sin qui maturata, la decisione del giudice di merito difficilmente sarà censurabile in Cassazione, se si ricorda che la Corte, a proposito dell’art. 18, 5° co., St. lav., ha ritenuto non censurabile l’esito del procedimento valutativo in ordine al giudizio comparativo dei criteri ed alla scelta di privilegiarne alcuni a scapito di altri al fine di adeguare la misura dell’indennizzo alla concreta situazione (Cass. 25 maggio 2017, n. 13178, Cass. 16 marzo 2025, n. 6991).
3. Il secondo problema è rappresentato dalla divaricazione di regime per i rapporti di lavoro costituiti ante 7 marzo e quelli costituiti dal 7 marzo 2015 in poi, giacché, in caso di licenziamento ingiustificato oppure viziato formalmente o proceduralmente, per i primi, continua ad applicarsi la l. n. 604 del 1966, con un’ indennità che oscilla tra 2,5 e 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, elevabili sino a 10 mensilità per i lavoratori con anzianità di servizio superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per i lavoratori con anzianità di servizio superiore ai venti anni, se il datore di lavoro occupi più di quindici prestatori di lavoro (Cass. 22 maggio 2025, n. 13741). E tale regime indennitario, con giurisprudenza creativa, si è applicato prima per i licenziamenti proceduralmente viziati, poi per quelli viziati per mancata comunicazione dei motivi.
Si è così determinata una notevole disparità di trattamento nell’ordinamento, con una sorta di eterogenesi dei fini della riforma operata dal Jobs act, che voleva non solo prefigurare una tutela più attenuata in caso di licenziamento illegittimo, in funzione della promozione della occupazione (finalità che ha consentito alla Corte costituzionale di salvare il diverso regime ante e post 7 marzo) ma anche limitare la discrezionalità del giudice rispetto al regime previgente. E, per inciso, non vi è dubbio che il sistema sanzionatorio contenuto nella l. n. 604 del 1966 è più rispondente a questo intendimento rispetto al nuovo sistema scaturito dalla sentenza n. 118 del 2025.
Non so se la tesi per cui è costituzionalmente legittimo un trattamento differenziato riservato a uguali fattispecie in ragione del trascorrere del tempo (qui non sorretto da alcuna ragione, mentre, come ribadito da Corte cost. n. 194 del 2018, la modulazione temporale, per non essere in contrasto con l’art. 3 Cost., deve superare il test della ragionevolezza) possa preservare da questioni di legittimità costituzionale.
La stessa Corte cost. n. 118 del 2025 invoca un intervento legislativo sulla questione degli indici di rilevazione delle dimensioni del datore al fine di differenziare i regimi sanzionatori del licenziamento; ma vi sarebbe, ovviamente, innanzitutto da rendere omogenei, nello stesso ambito, i trattamenti sanzionatori.
Ed infatti circolano progetti di riforma legislativa che, in un’ottica semplificatrice e razionalizzatrice della materia, si incaricano innanzitutto di eliminare tout court il doppio regime (ante e a partire dal 7 marzo 2015). Ma non so se qualche maggioranza parlamentare avrà la forza od il coraggio di mettere mano ad una materia così incandescente, neppure – e anzi forse a maggior ragione – nell’area della piccola impresa, dove sarà forte la tentazione di lasciare al fluire del tempo (e all’esaurirsi dei rapporti governati dalla l. n. 604 del 1966) l’unificazione della disciplina.
4. Un’ultima considerazione di carattere generale riguarda l’impianto argomentativo attraverso il quale la Corte costituzionale, dalla sentenza n. 194 del 2018, ha demolito l’originario assetto di calcolo dell’indennità risarcitoria previsto dal d. lgs. n. 23 del 2015. Anche Corte cost. n. 118 del 2025 richiama il concetto di “personalizzazione del danno subito dal lavoratore” appellandosi all’autorità di Corte cost. n. 194 del 2018: il ristoro spettante al lavoratore illegittimamente licenziato può essere delimitato dal legislatore ma non può configurarsi come “una liquidazione legale forfettizzata e standardizzata”; occorre che il giudice possa tenere conto “della specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di una efficace deterrenza”.
Il concetto di “personalizzazione del danno” subito dal lavoratore è un concetto molto opaco e probabilmente inappropriato nel contesto della disciplina del licenziamento, per come è costruito il rimedio indennitario. Esso non è da prendere alla lettera perché, se fosse preso alla lettera, inficerebbe in sé il meccanismo della forfettizzazione tra un minimo ed un massimo. Corte cost. n. 194 del 2018 desume la necessità della “personalizzazione del danno” dalla necessità di rispettare il principio di eguaglianza (dal momento che la previsione di una misura risarcitoria uniforme, indipendente “dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro”, si tradurrebbe in un’indebita omologazione di situazioni che possono essere – e sono nell’esperienza concreta – diverse). Senonché, come da altri osservato, i criteri prefigurati dal legislatore non tengono conto, se non in minima parte, dell’entità del danno subito dal lavoratore.
Forse la primitiva sentenza della Corte costituzionale è stata più influenzata dalla Carta sociale europea – che richiede, in caso di licenziamento ingiustificato, un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione – e dal tipo di ragionamento seguito dal Comitato europeo dei diritti sociali, il quale ha ritenuto congruo l’indennizzo se esso è tale da assicurare non solo un adeguato ristoro per il concreto pregiudizio subito dal lavoratore licenziato senza un valido motivo, ma anche da dissuadere il datore di lavoro dal licenziare ingiustificatamente.
Ma, in ogni caso, se non si fa chiarezza su questo punto, vale a dire sulla “relatività” del concetto di personalizzazione del danno nell’ambito del sistema indennitario in caso di licenziamento illegittimo, tutto diventa possibile, anche sostenere l’illegittimità costituzionale del tetto massimo o addirittura, surrettiziamente, la sua demolizione, prospettando la risarcibilità di danni ulteriori (ulteriori rispetto a quelli derivanti da autonomo fatto illecito, come l’ingiuriosità del licenziamento).
Professoressa emerita di Diritto del lavoro dell’Università di Pavia
* Intervento dell’autrice al convegno «L’estate “calda” del diritto del lavoro. Novità in tema di licenziamenti e tutela della posizione previdenziale dopo le pronunce di Corte cost. (n. 111 e 118) e di Cass. SS.UU. (n. 22802/2025)», 31 ottobre 2025, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano.
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