Le competenze abilitanti per Industria 4.0. Una ricerca sulle competenze nella digitalizzazione del lavoro in memoria di Giorgio Usai

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Bollettino ADAPT 21 gennaio 2019, n. 3

 

La presentazione del volume Le competenze abilitanti per Industria 4.0. In memoria di Giorgio Usai, avvenuta lo scorso venerdì 18 gennaio in occasione di un evento promosso da Brembo e ADAPT presso la biblioteca Spadolini del Senato per onorare il ricordo di Giorgio Usai in quello che sarebbe stato il giorno del suo compleanno, è stata per me l’occasione per dare forma a qualche riflessione, nonché ad alcuni ricordi personali.

 

Restando sul piano della memoria soggettiva e delle sollecitazioni frutto di una prima e rapida visione del volume condivido alcuni miei pensieri. Il dr. Giorgio Usai è stato il mio ultimo capo in Confindustria, nel 2001, quando decisi di diversificare il mio percorso professionale, ma ho avuto modo di conoscerlo professionalmente abbastanza bene, sia prima sia dopo.

 

Come in altre precedenti occasioni nelle quali – grazie all’impegno della famiglia e al supporto del gruppo di ADAPT – abbiamo commemorato la sua figura di sindacalista di azienda, ho cercato nei miei ricordi un suo tratto, che fosse distintivo e continuativo piuttosto che aneddotico.

Volendo racchiudere in poche parole la rappresentazione che io posso fare del dr. Usai per il tempo in cui ho collaborato con lui, con i limiti tipici della sintesi estrema, mi piace ricordare: la severità di giudizio, il massimo rispetto per il lavoro altrui, la dedizione ai propri compiti.

Al termine “severo”, in particolare, attribuisco una valenza costruttiva e non un connotato negativo di giudicante supponenza. Nella mia memoria, infatti, il dr. Usai riservava anche a sé stesso la severità con cui guardava al nostro mondo professionale. La severità che gli attribuivo rappresenta, piuttosto, il senso della rettitudine, la capacità di porsi naturalmente come “modello (nel fermo convincimento che di modelli ce ne sia bisogno) e d’altra parte la richiesta a noi, suoi collaboratori, di un impegno continuo nel miglioramento dei nostri prodotti professionali.

 

Per me – che ebbi un rapporto prevalentemente professionale con il dr. Usai – è stato questo il tratto umano che motiva la stima che ancora provo e che fa sì che io tuttora ne conservi gli insegnamenti.

Severità è un tratto che riscontro anche nelle persone a me più care ed è quanto ritengo di portare nel mio lavoro, per quanto talvolta possa comportare qualche fatica supplementare per sé e per gli altri.

Per altro verso, le prime sommarie sollecitazioni frutto dello scorrere le pagine del ponderoso volume Le competenze abilitanti per Industria 4.0 in memoria di Giorgio Usai sono scaturite dalla importante sollecitazione che si ritrova nel testo (di cui si trova un particolare riferimento alla pagina 38, ma non solo) rispetto alla valorizzazione della Supply Chain nelle “nuove relazioni industriali”.

Sin d’ora mi pare che uno degli spunti progettuali che emergono dalla ricerca possa essere ricondotto alla necessità di prendere contezza del fatto che la flessibilità non debba riguardare unicamente la porzione di ricchezza da redistribuire tra i vari fattori della produzione oltre che a favore delle persone che hanno collaborato a produrla.

Non è neanche sufficiente che sia flessibile il mero assetto produttivo e organizzativo del lavoro. Deve essere flessibile la stessa dimensione occupazionale. Dimensione occupazionale che è inevitabilmente condizionata anche da alcuni fattori esterni all’azienda, estranei alla volontà del datore di lavoro e talvolta di non facile predeterminazione.

 

La dimensione occupazionale e le caratteristiche stesse dell’occupazione sono conseguenti, tra l’altro:

 

–  alla filiera produttiva, cui accedono altre imprese distinte ed autonome, al più legate da rapporti di partnership commerciale;

–  alla efficacia della logistica, capace di rendere fluida la circolazione dei prodotti ma anche potenzialmente responsabile di disfunzioni critiche, soprattutto laddove lo sviluppo delle infrastrutture non corrisponda alla crescita delle imprese;

– al marketing, che curi non solo la promozione di prodotti e servizi ma che sia adeguatamente coinvolto sin dalla loro progettazione;

– ma soprattutto alle scelte dei consumatori (siano essi cittadini, Enti o altre imprese), i quali svolgono ormai un ruolo sempre più dominante nella nostra economia e i cui orientamenti sono solo parzialmente prevedibili e ancor meno condizionabili (almeno da parte della quasi totalità delle imprese).

 

Che la dimensione occupazionale, di una singola impresa ma analogamente anche del sistema Paese, sia sempre più condizionata da tali aspetti, a me, sembra un fatto. A me sembra un fatto relativamente nuovo, seppure progressivamente affermatosi negli ultimi tempi.

E se è un fatto, le Parti sociali possono ignorarlo e lasciarsi travolgere o invece possono decidere di accettare l’ingaggio e diventare protagoniste responsabili, appunto, di nuove relazioni industriali.

 

Salari adeguati e crescita occupazionale sono due tra i principali obiettivi delle relazioni industriali e della stessa azione politica di ogni Governo e – se si condividono le considerazioni appena accennate sui fattori in grado di incidere sulla dimensione occupazionale – non ci si può limitare a rincorrere la chimera della massima occupazione come se fosse un obiettivo autonomo da perseguire in sé.

Percorsi nuovi del Governo (che poi tanto nuovi, forse, neanche sono) devono incidere anche sui fattori critici indicati, sostenendo le filiere e sviluppando infrastrutture idonee a rendere più efficiente la logistica.

Relazioni industriali e azione di Governo devono incidere in maniera coordinata anche su tutti quegli ambiti sapientemente esplorati dal volume in memoria di Giorgio Usai quali: la formazione di competenze adeguate alle esigenze future e la collaborazione tra scuola/università e mondo produttivo/imprese.

 

In tale ottica è essenziale il ruolo dell’ordinamento statale chiamato a regolamentare e promuovere uno scenario differente in cui si diffondano quelle esperienze concrete descritte nella ricerca in questione.

Volendo ridurre questi spunti ad una formula essenziale, direi che – come nel passato abbiamo saputo superare lo slogan per cui “il salario è una variabile indipendente” – oggi dobbiamo evitare che si affermi lo slogan ancora più pericoloso per cui la “occupazione è una variabile indipendente”, addirittura determinabile a tavolino in base a una mera volontà politica.

La considerazione che le relazioni industriali devono adeguarsi e rispondere alle mutate esigenze del momento, senza fossilizzarsi in modelli rigidi, è uno degli insegnamenti che personalmente ho tratto dall’esperienza della mia collaborazione con il dr. Usai.

 

Mi sembra significativo, infine, che commemorazione del dr. Usai e dibattito scaturito dal volume realizzato da ADAPT abbiano coinciso con la presentazione, in CGIL, del “Primo Rapporto sulla contrattazione di secondo livello”, un valido strumento conoscitivo utile per ulteriori analisi dello stato dell’arte della contrattazione aziendale e quindi per comprendere e valutare la strada che come sindacalisti (d’azienda e dei lavoratori) dobbiamo ancora percorrere.

Nuove relazioni industriali consentirebbero anche il consolidamento di un nuovo modello sindacale che potrebbe, forse, ulteriormente favorire il recupero di consenso da parte delle Organizzazioni sindacali dei lavoratori (ma analogo discorso credo valga anche per i dirigenti delle Associazioni datoriali).

Le rispettive basi associative devono definitivamente prendere atto che coloro che partecipano alle relazioni industriali, e in particolare alla contrattazione collettiva aziendale, non si limitano a pretendere maggiori (o minori) salari e neanche unicamente a rincorrere i benefici fiscali di volta in volta disponibili.

 

I sindacalisti in azienda sono una sorta di consulenti globali ai quali vengono richieste sempre maggiori competenze oltre a quelle tradizionali. In tal modo, assumendosi un ruolo più impegnativo, questi possono anche contribuire a riallacciare quel rapporto tra la “base” e le organizzazioni stesse che altrimenti rischia di consumarsi.

Trattative che abbiano ad oggetto la formazione delle competenze professionali (come per altri versi la diffusione del Welfare aziendale o più in generale l’affermazione del bilateralismo, quale frutto evoluto delle relazioni industriali) sono caratterizzate da un processo che non si esaurisce con la negoziazione e la sottoscrizione di un accordo, ma richiedono una intensa gestione sin dalla fase preparatoria, attraverso una analisi dei fabbisogni che coinvolga il maggior numero possibile di soggetti rappresentati.

Ma questo carattere continuativo è ancor più evidente nella fase applicativa laddove, oltre al confronto periodico tra controparti, spesso occorre assumere congiuntamente e in maniera stabile anche responsabilità amministrative nel perseguimento di un obiettivo unitario.

Un assetto questo che – oltre a richiedere regole e gestione trasparenti – necessita che le Parti sociali recuperino l’autorevolezza del proprio ruolo anche nell’immaginario diffuso.

 

Per quel che vale, sono personalmente convinto che per portare a termine con profitto il proprio compito, sindacati dei lavoratori e associazioni datoriali debbano recuperare quella leadership che si è andata affievolendo nel tempo; e a tal fine debbano “contaminare la propria azione con le esigenze del futuro” garantendo: corpi intermedi che non vivano di privilegi; figure autorevoli che non facciano della propria competenza motivo di autoreferenzialità; una rappresentanza che consenta e stimoli anche forme di partecipazione diretta; un senso di solidarietà che valorizzi anche le energie individuali e sappia premiare il merito.

 

Giorgio Sandulli

Cultore della materia in Diritto del Lavoro

Docente e coordinatore del Master Sapienza in Diritto e Sport

@GiorgioSandulli

 

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