Lavoro: la danza dei numeri

Come era prevedibile Matteo Renzi si sta giocando una buona fetta di credibilità sul lavoro. Assieme alle tasse è questo il tema che più interessa agli italiani: ai tanti giovani che un vero lavoro non lo hanno mai avuto e ancor più alle loro famiglie sempre disposte a sacrifici pur di dare un futuro ai propri figli. La grande crisi ha bruciato milioni di posti di lavoro, lasciandosi alle spalle non solo le certezze di un tempo – il posto fisso, in primis – ma anche un esercito di disoccupati adulti di non facile ricollocazione in un mercato del lavoro in continua evoluzione e che richiede oggi nuovi mestieri e nuove competenze.

 

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Per una grande Italia (e per la sostenibilità del welfare) sono troppo pochi quelli che lavorano

 

 

Dopo i tanti annunci gli italiani si aspettano ora i fatti e risposte concrete. Comprensibile, dunque, l’attenzione di media e opinione pubblica sugli effetti del Jobs Act, la legge che portava con sé la promessa di una nuova stagione del lavoro: una vera e propria rivoluzione copernicana che, nelle parole del Premier, ha finalmente tolto ogni alibi alle imprese per tornare ad assumere. Eppure non è facile capire se il Jobs Act stia davvero funzionando come pure giurano Renzi e i suoi numerosi followers. Ed in effetti, mentre l’ISTAT certifica la persistente stagnazione del mercato del lavoro e un aumento della disoccupazione, soprattutto giovanile, il Ministro Poletti ha parlato di un vero e proprio boom dei contratti di lavoro stabili (+ 630 mila) che, ovviamente, viene imputato a merito della riforma del lavoro e della contestuale misura di esonero contributivo per le assunzioni a tempo indeterminato effettuate nel corso del 2015. Di mezzo l’INPS che confermerebbe, comunque, il successo della azione del Governo di contrasto ai contratti temporanei e occasionali al punto da istituire un nuovo osservatorio sul precariato per monitorare gli effetti di una riforma che pure, con il superamento dell’articolo 18 e la liberalizzazione dei licenziamenti, vuole decretare la fine del posto fisso e cioè l’idea novecentesca del lavoro stabile. Una vera e propria danza dei numeri, insomma, che invece di assegnare al monitoraggio il compito di fotografare in modo onesto e neutrale la realtà del mercato del lavoro italiano finisce per alimentare, nella assenza di dati certi e condivisi, la grancassa della propaganda e con essa quella contrapposizione tra fazioni che ha bloccato per anni il processo di modernizzazione del nostro Paese.

 

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Se è vero, come ha detto pochi giorni fa lo stesso Renzi al meeting di Rimini, che l’Italia è rimasta ferma venti anni, “impantanata nella permanente rissa tra berlusconismo e antiberlusconismo”, quello che ora andrebbe accuratamente evitato è un nuovo ventennio di liti, questa volta tra renziani e antirenziani, dove le bugie e i pregiudizi prevalgono sui fatti. Impresa invero difficile in un Paese come il nostro, spaccato a metà in una eterna contesa tra guelfi e ghibellini, ma non certo per quanto riguarda i dati del mercato del lavoro.

 

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Fermare la guerra dei numeri sarebbe infatti relativamente facile a condizione di accettare due punti ampiamente condivisi almeno tra gli esperti del mercato del lavoro.

 

Il primo è che riforme epocali, come il Jobs Act ambisce a essere, richiedono anni per produrre risultati duraturi e consentirne una valutazione oggettiva non condizionata da logiche e posizioni di parte. Se Matteo Renzi è un vero statista – e non un politico tra i tanti a caccia di una manciata di voti – lasci che il tempo sia galantuomo invece di reiterare mese dopo mese vuoti spot elettorali capaci di incidere sulla realtà del mercato del lavoro e sulla propensione delle imprese ad assumere quanto un tweet di 140 caratteri. Le prossime elezioni saranno nel 2018, ha sempre detto, e allora si sieda pazientemente lungo la riva del fiume e aspetti di vedere passare il cadavere dei suoi nemici: tre anni sono più che sufficienti per dire se la sua riforma è un flop o un successo e per evitare, come accaduto negli ultimi cinque anni, di dover stupidamente scrivere una nuova legge del lavoro ogni anno perché delusi dai dati dei primi mesi di applicazione.

 

Il secondo punto, molto più pratico, è quello di riconoscere che l’unico sistema di rilevazione dei dati del mercato del lavoro attendibile – e come tale riconosciuto anche a livello internazionale – è quello dell’ISTAT. Del tutto inutile è l’Osservatorio sul lavoro precario dell’INPS e bene dovrebbe saperlo il suo presidente Boeri che, da tempo, è il teorico di una modernizzazione del lavoro basata sulle tutele nel mercato (ammortizzatori, politiche attive, ricollocazione) e non più nel singolo posto di lavoro. Inaffidabili, e largamente parziali, sono invece i dati del Ministero del lavoro basati sulla comunicazione di assunzione/cessazione da parte dei datori di lavoro del settore privato (escluso il lavoro domestico). Lo dimostra il fatto che il Ministro Poletti, dopo aver annunciato un saldo attivo di ben 63 0mila contratti a tempo indeterminato negli ultimi sette mesi, abbia dovuto fare una clamorosa marcia indietro, incalzato da una giovane dottoranda di ricerca che scrive per Il Manifesto, ammettendo che in realtà il saldo delle assunzioni erano meno della metà di quelle comunicate avendo dimenticato di conteggiare ben 400 mila cessazioni di contratto. Un “errore umano”, ha subito precisato il Ministro, senza spiegarne le ragioni e anche il perché dei mancati controlli che si impongono in esercizi di questo tipo e, ovviamente, senza che nessuno ne abbia pagato la responsabilità pur a fronte di un invito del Governo alle imprese del settore privato a licenziare incapaci e fannulloni.

 

Fatte queste premesse la risposta che gli italiani si attendono sul lavoro è presto data e la si trova nei numeri forniti dall’ISTAT: il mercato del lavoro è praticamente fermo, non cresce cioè il numero di occupati. Cresce invece la disoccupazione mentre il numero di giovani con un lavoro tocca il suo minimo storico. Troppo presto per parlare del Jobs Act, abbiamo detto, ma non per certificare un vero e proprio flop dell’esonero contributivo per le assunzioni a tempo indeterminato. Una misura chiave a sostegno della fase di avvio del Jobs Act, in vigore da otto mesi e oramai in fase di esaurimento, che non ha contribuito a creare un solo posto di lavoro in più pur a fronte di un costo reale che si avvicinerà ai 20 miliardi e di cui in parte manca ancora la copertura. Per i modesti risultati sul fronte occupazionale meglio e molto di più ha fatto la legge Fornero, che nel restringere i requisiti di accesso alla pensione, ha contribuito a un robusto incremento della forza-lavoro over 55 ancora una volta per a scapito dei giovani che sono stati i più penalizzati non solo dalla crisi ma anche dalla scarsa efficacia delle politiche del lavoro degli ultimi governi.

 

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Michele Tiraboschi

Coordinatore scientifico di ADAPT

@Michele_ADAPT

 

 

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