Lavoro domenicale e festivo in Italia e in Europa: un quadro d’insieme nel lavoro che cambia*

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La colata d’acciaio che arriva ogni 4 o 6 ore non si può fermare. Nemmeno la domenica. Nemmeno nei giorni di festa. C’è un mondo produttivo che non si ferma mai. E non è solo quello legato alla ristorazione, al commercio e al turismo che pure sono tra i principali datori di lavoro dei lavoratori della domenica. Pensiamo alla siderurgia a cui è fortemente legata la questione industriale del nostro paese o alla chimica. Per non dire della logistica, dei trasporti, dell’assistenza socio-sanitaria e delle forze di polizia, carabinieri e finanza. O dei musei, dell’agricoltura e dell’allevamento. Oltre a tutti gli autonomi.

 

Proprio in queste settimane il dibattito pubblico e politico si è soffermato sul tema del lavoro domenicale e festivo, in particolare nel settore del commercio. Il tema è complesso e la discussione caratterizzata da confusioni terminologiche e concettuali, per cui risulta importante tentare di fare chiarezza sulle sue caratteristiche e sulla popolazione di lavoratori che esso riguarda.

 

Lavoro domenicale e lavoro festivo: quali differenze?

 

Guardando al dibattito appare subito evidente una sovrapposizione terminologica: “lavoro domenicale” e “lavoro festivo” vengono spesso accomunate se non usate come sinonimi. Ma da un punto di vista giuridico vi sono differenze.

 

Per lavoro festivo si intende infatti la prestazione di lavoro effettuata in coincidenza dei giorni previsti dalla legge quali giorni festivi tra cui vi rientra anche la domenica. In merito alla domenica, entrano però in gioco le norme che regolano l’orario di lavoro e in particolare il D.lgs. 66/03: l’art. 9, c. 1, D.lgs. 66/03 prevede che sia riconosciuto un periodo di riposo di almeno ventiquattro ore consecutive ogni sette giorni, “di regola in coincidenza con la domenica”. Anche altre norme, sia provenienti dall’OIL che dall’Unione Europea, nonché dal nostro ordinamento nazionale (art. 2109 c.c.), non si discostano da questa impostazione.

 

La norma individua quindi la domenica quale giorno preferibile, e non obbligatorio, di riposo, non ponendo particolari vincoli, salvo il riconoscimento di riposo compensativo, alla facoltà del datore di poter richiedere ai propri dipendenti lo svolgimento di lavoro domenicale: questa impostazione va sostanzialmente a creare una divaricazione concettuale tra lavoro domenicale e lavoro festivo. Tale divaricazione trova la propria ratio, da un lato, nel fatto che la legge prevede un corposo elenco di eccezioni e deroghe (attivabili anche dalla contrattazione collettiva) relative a esigenze tecniche, produttive e organizzative (es. in relazione a particolari lavorazioni industriali o a servizi considerati di pubblica utilità) che richiedono una modulazione differente dell’orario di lavoro (e quindi anche la possibilità di lavorare la domenica), dall’altro, dal fatto che la legge richiede un giorno della settimana, non necessariamente la domenica, destinato al recupero delle energie psico-fisiche del lavoratore, quindi in un’ottica di salute e sicurezza, lasciando invece da parte la dimensione di partecipazione alla vita sociale, familiare e religiosa del lavoratore stesso: tale dimensione è più vicina al concetto giuridico di lavoro festivo.

 

Maggiorazioni retributive e ruolo della contrattazione collettiva

 

Il tema delle maggiorazioni retributive quale compensazione per il disagio arrecato dallo svolgimento di lavoro domenicale è affidato alla contrattazione collettiva che funge da vettore di conciliazione tra le esigenze produttive e quelle dei lavoratori. Una gestione del lavoro domenicale con turnazioni o mediante riposi compensativi più o meno programmati fa sì infatti che la domenica lavorata non sia retribuita come straordinario: in questo caso le maggiorazioni retributive sono applicate alle ore di lavoro normalmente dovute, e non, come in caso di straordinario, ad ore aggiuntive rispetto a quelle previste da contratto, con un sostanziale differenza in busta paga.

 

Inoltre, va ricordato che i contratti collettivi possono prevedere contingentamenti alle giornate annue di lavoro domenicale richiedibili al lavoratore o anche, per categorie e condizione specifiche (es. genitori con figli piccoli, malati gravi, chi deve assistere disabili o persone non autosufficienti, etc.), il diritto dei lavoratori a rifiutare di prestare attività lavorativa la domenica.

 

Da questo quadro deriva quindi un ruolo importante della contrattazione collettiva come vettore di conciliazione tra le esigenze produttive e dei consumatori da un lato e quelle dei lavoratori dall’altro.

 

Tra sometimes e usually workers

 

Secondo quanto emerge da un’elaborazione ADAPT sui dati Eurostat 2017, in Italia sono 4,65 milioni i lavoratori dipendenti che prestano la propria attività la domenica: più di un lavoratore dipendente su cinque, pari al 20,7% del totale degli occupati. All’interno di questa fascia di lavoratori però la frequenza con i quali essi si dedicano all’attività lavorativa domenicale non è uguale per tutti. Facendo cento il totale dei lavoratori domenicali si evince che il 28,8% di essi lavora la domenica “sometimes” mentre per il restante 71,8% la frequenza del lavoro domenicale si intensifica. In termini assoluti sono 1,34 milioni, pari al 6% del totale, i “sometimes workers” mentre gli “usually workers” salgono a 3,3 milioni, il 14,7% degli occupati totali. Un’ulteriore distinzione che l’elaborazione dei dati consente di fare è quella di genere. Tra gli uomini, infatti, la percentuale sale al 21,2% mentre tra le donne scende al 20,1%.

Questi dati nell’ultimo decennio stanno registrando un costante aumento. Nel 2008 la percentuale di lavoratori interessati era pari al 17,4%, un dato inferiore di 3,3 punti percentuali rispetto a quello registrato per il 2017. Nonostante questo aumento l’Italia rimane comunque al di sotto della media dell’Area Euro (18 paesi) che si stabilisce al 21,2%.

 

Altri elementi da considerare sono la qualifica posseduta e della categoria di appartenenza: se tra operai e impiegati poco qualificati non si rilevano differenza, tra gli operai con elevate qualifiche il coinvolgimento sale mentre tra gli impiegati qualificati diminuisce.

 

I settori interessati

 

I settori produttivi nei quali sono presenti i lavoratori domenicali sono molti: i principali sono quelli del turismo e della ristorazione, della logistica e dei trasporti, della grande distribuzione organizzata, dell’assistenza socio-sanitaria. Tra i profili più richiesti per lavori che si svolgono anche la domenica vi sono operatori pluri-servizi, addetti vendita, banconisti, cassieri, camerieri, aiuto cuochi, steward e hostess, receptionist, addetti call center, manutentori, autisti, magazzinieri, infermieri e assistenti socio-sanitari.

 

Molti di questi lavoratori sono assunti con contratto part-time di tipo verticale o di lavoro intermittente, proprio per lavorare solo di sabato e/o di domenica.

 

Nella grande distribuzione organizzata, dove la necessità di lavorare nel weekend è strutturale, l’89% dei posti di lavoro è a tempo determinato (sia full che part time) e un ruolo fondamentale, volto a mediare tra le esigenze organizzative del datore e quelle di conciliazione vita-lavoro del lavoratore, lo ha la contrattazione collettiva, in particolare attraverso la gestione della turnazione.

 

Soffermandoci sui numeri dei settori, quello con la presenza più elevata di lavoro domenicale è il settore alberghiero e della ristorazione, con 723.000 lavoratori dipendenti coinvolti (il 69,3% dei dipendenti del settore). Al secondo posto c’è la sanità (679.000 dipendenti pari al 43,1% del settore) e al terzo la il commercio con 628.000 occupati (pari al 30,6% del settore)

 

DIPENDENTI CHE LAVORANO LA DOMENICA

SETTORE

Numero (in migliaia) %

Agricoltura

63 13,8

Alberghi e ristorazione

723 69,3

Altri servizi collettivi e alla persona

154

23,0

Att. immobiliari, servizi a imprese

220

14,8

Attività finanziarie e assicurative

12

2,3

Commercio

628

30,6

Costruzioni

25

3,0

Industria

363

8,9

Informazione e comunicazione

50

11,0

Istruzione

62

4,1

Pubblica amministrazione

341

27,3

Sanità

679

43,1

Servizi famiglie

90

12,1

Trasporti e magazzinaggio

234

23,9

Totale

3.645

20,6

Dati Istat (2017)

 

Noi e gli altri

 

Secondo quanto emerge dalla sesta indagine europea sulle condizioni di lavoro di Eurofound, il lavoro domenicale all’interno dell’UE a 28 e della Norvegia è in aumento e ha coinvolto per almeno una domenica al mese il 30% dei lavoratori e per almeno 3 volte al mese il 10% della medesima platea. Gli uomini sono maggiormente coinvolti dal lavoro domenicale (31% rispetto al 28% delle donne), in agricoltura e nel settore della sanità la percentuale si avvicina al 50% mentre nel commercio e nel turismo è pari al 38%, in aumento di 4 punti rispetto al 2010. Per gli autonomi la percentuale è pari al 46%. Rispetto al contesto europeo l’Italia si colloca al di sotto della media. I lavoratori italiani nella giornata di domenica mediamente lavorano meno dei propri colleghi di altri 24 stati europei (nei Paesi scandinavi la percentuale supera il 40% dei lavoratori) presentando una percentuale maggiore solamente rispetto ad Austria, Portogallo, Cipro e Germania.

 

Cosa succede negli altri stati dell’Unione Europea?

 

16 dei 28 Stati dell’UE, tra cui l’Italia, non prevedono alcuna limitazione di orario o apertura domenicale. Nei restanti Stati sono comunque previste numerose eccezioni ai divieti e alle imitazioni imposte.

 

In particolare, le deroghe riguardano le aree turistiche, i rivenditori alimentari, i negozi per la casa, la grande distribuzione, le edicole, le stazioni di servizio, le stazioni ferroviarie, gli aeroporti e i musei; possono fare riferimento a indici dimensionali o merceologici relativi allo specifico esercizio commerciale, oppure a determinate fasce orarie; infine, possono prevedere misure di contingentamento del numero di aperture domenicali/festive annue o di sostituzione della chiusura domenicale con un altro giorno della settimana. Facendo alcuni esempi di regolamentazione delle chiusure domenicali in altri Paesi dell’Unione, il Belgio e Malta consentono l’apertura la domenica a condizione che si scelga un giorno di chiusura alternativo; in Francia l’apertura è libera per i negozi gestiti dai proprietari, mentre per i negozi non alimentari solo previa decisione del sindaco e comunque con una maggiorazione del 100%, per i negozi alimentari, invece, l’apertura è concessa sino alle 13.00; in Germania i negozi sono chiusi con eccezione di panettieri, fiorai, edicole, negozi per la casa, musei, stazioni ferroviarie, stazioni di servizio, aeroporti e luoghi di pellegrinaggio; in Spagna la questione è demandata alle Comunità Autonome (nella maggior parte sono previste 10 domeniche/festività di apertura); in Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord le restrizioni hanno come discriminate i metri quadri dell’esercizio commerciale (i piccoli negozi non hanno restrizioni, i grandi possono operare solo su fasce orarie prestabilite). Il quadro descritto rende l’Italia l’unico paese tra le economie più sviluppate dell’Unione Europea (Germania, Gran Bretagna – con l’esclusione della Scozia –, Francia e Spagna) ad aver completamente liberalizzato le chiusure domenicali.

 

Flessibilità dell’orario e del giorno di riposo

 

Tutte le considerazioni condotte fino a questo momento non possono prescindere da una loro contestualizzazione in un mondo del lavoro che, con l’avvento di Industria 4.0, sta attraversando una fase di profondo cambiamento, non solo sul piano tecnologico. Gli impatti non sono solo sui processi produttivi ma anche sull’idea stessa di lavoro in termini organizzativi, di mercato del lavoro, di relazioni industriali e di modelli di welfare. Un impatto che ridisegna la più generale idea di lavoro al punto da frantumare definitivamente le c.d. “regole aristoteliche” del diritto del lavoro e cioè «l’unità di luogo-lavoro (il lavoro nei locali dell’impresa), di tempo-lavoro (il lavoro nell’arco di una sequenza temporale unica), di azione-lavoro (un’attività mono professionale) facendo venire meno i confini spazio-temporali dell’impresa. In questo contesto produttivo dove si lavora sempre più per progetto e per obiettivi e dove l’idea di ora-lavoro è quasi venuta meno occorre chiedersi se esiste ancora una separazione così netta tra tempo di lavoro e tempo di non-lavoro. A ciò si collega una necessaria riflessione sull’idea di uomo e sulla sua relazione con il lavoro, idea che può passare da una concezione dualistica e frammentata in cui il tempo di lavoro viene considerato come una fatica, un male necessario ed estraneo all’uomo e completamente separato dal tempo della libertà identificabile nel non-lavoro, ad una concezione completamente opposta in cui la profondità umana rischia di appiattirsi unicamente sulla dimensione lavorativa. Se quindi da un lato l’impresa deve essere sempre più flessibile per le esigenze del mercato, dall’altro anche i lavoratori reclamano una nuova idea di “decent work” che ricomprende non solo la componente monetaria della retribuzione ma include anche l’offerta dei datori di lavoro con riferimento alle opportunità di sviluppo personale, alla formazione continua, alla flessibilità dell’orario di lavoro e tutta una serie di altre componenti non puramente monetarie. La flessibilità per aziende e lavoratori diviene quindi un elemento centrale rendendo anacronistico il tentativo di far coincidere il concetto di giorno riposo unicamente con la domenica o con la festività. Non è quindi un caso se per i lavoratori, come emerge da uno studio condotto dall’Eurofound, la presenza di lavoro domenicale ha un’incidenza quasi nulla sulla capacità di conciliare vita e lavoro mentre, altre variabili come la facilità di richiedere ore di permesso, la possibilità di autodeterminarsi gli orari assumono un peso significativo incidendo in maniera positiva.

 

Luca Vozella

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@LucaVozella1

 

Carlo Zandel

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo – ADAPT

@CarloZandel

*una versione di questo articolo è pubblicata anche su Il Sole 24 Ore del 3 ottobre 2018

 

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