Lavoro di cura per non autosufficienti: non basta dare denaro alle famiglie

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Bollettino ADAPT 9 marzo 2020, n. 10

 

Si riprendono qui temi del Bollettino speciale ADAPT 1/2020 Non solo i familiari. Per un mercato del lavoro di cura”, a cura di Irene Tagliabue, perché riguardano milioni di famiglie, e perché norme per favorire chi assiste familiari non autosufficienti (i cd caregiver), non possono evitare di chiedersi quali rischi possono presentare.

 

Tutte le analisi del welfare italiano per la non autosufficienza evidenziano come la cura gravi troppo sulle famiglie (per la carenza dei servizi di assistenza domiciliare) e come gli interventi pubblici consistano troppo in erogazioni monetarie, che obbligano le famiglie a saperle usare per trasformarle in assistenza, operazione non gestibile da tutte le famiglie; peraltro questa è da tempo la criticità principale della maggior spesa per la non autosufficienza, l’indennità di accompagnamento (circa 12,5 miliardi di euro).

 

Ma se sono difetti reali perché costruire solo misure che ripetono la stessa logica? Non si aiutano i caregiver familiari solo sostenendo il loro personale lavoro di cura, col rischio che si presuma che questa sia l’iniziativa più importante per il welfare pubblico. Meglio operare per un “sistema delle cure”, tenendo presenti questi snodi:

 

1) L’assistenza a domicilio deve essere per forza svolta dai familiari?

 

Con un non autosufficiente è inevitabile l’impegno dei familiari; ma che la sua tutela debba gravare su di essi deve essere una scelta e non un obbligo inevitabile. Occorre infatti un sistema di cure domiciliari che offra diverse possibilità perché sono molti i non autosufficienti che non hanno familiari, o ne hanno non in grado di svolgere assistenza. E che cosa se ne fa del denaro per il caregiver, degli sgravi fiscali, dei permessi da lavoro, la moglie 86enne di un anziano non autosufficiente senza parenti? Sarebbe una crudele distorsione del welfare pubblico assumere che si può assistere a domicilio solo chi ha caregiver familiari capaci, e molte esperienze dimostrano che questo presupposto non corrisponde al vero.

 

Le situazioni delle famiglie sono diverse, e mutano; dunque è essenziale che il “modo” con il quale si offre al domicilio la tutela nella vita quotidiana possa articolarsi in diverse forme, da adattare alla specifica situazione familiare e al momento:

a) Vi sono famiglie che conoscono un lavoratore di fiducia e sono in grado di gestire da sole il suo rapporto di lavoro: in questo caso è appropriato un contributo economico per aiutare nella retribuzione del lavoratore, un assegno di cura con il vincolo di utilizzo per una assunzione regolare.

b) Se la famiglia desidera assumere un lavoratore che conosce, ma non è in grado di gestire da sola il rapporto di lavoro, occorre un assegno di cura con la possibilità di utilizzarne parte per far gestire le incombenze amministrative ad una agenzia idonea.

c) Per famiglie che non conoscono un lavoratore di fiducia ma preferirebbero un lavoratore alle loro dipendenze è utile un assegno di cura parte del quale sia usata per far reperire un lavoratore da agenzie accreditate per queste funzioni.

d) Vi sono famiglie che preferiscono non assumere lavoratore perché ciò implica attività di gestione che i familiari non sono in grado di esercitare; e preferiscono un operatore dipendente da altri. In tal caso è appropriato un lavoro domiciliare di operatori pubblici (anche assistenti familiari, e non necessariamente OSS). O un buono servizio, un titolo che avvia prestazioni da parte di fornitori accreditati, con il valore aggiunto (se l’accreditamento dei fornitori lo ha previsto) della possibilità per la famiglia di trasformare il buono in diverse prestazioni: lavoro a domicilio di assistenti familiari del fornitore, telesoccorso, pasti a domicilio, manutenzione dell’abitazione, ricoveri temporanei di sollievo, e altro che il fornitore metta in opera.

e) Per famiglie nelle quali si desidera che il lavoro di cura sia svolto da un componente del nucleo è utile un supporto al caregiver, anche come contributo che compensi le eventuali riduzioni di lavoro retribuito di chi dedica tempo al non autosufficiente.

f) Vi sono famiglie che preferiscono ricevere assistenza “leggera” da un conoscente, In questi casi è utile attivare un affidamento del non autosufficiente, con un rimborso spese all’affidatario.

È dunque cruciale un sistema per l’assistenza domiciliare che consenta di scegliere con la famiglia qual è la modalità migliore in quel momento per ricevere aiuti, con possibilità di modificarla. E l’importanza di questa articolazione è confermata nelle concrete esperienze dei territori che l’hanno messa in opera.

 

2) Ai familiari servono solo contributi economici, agevolazioni fiscali, permessi dal lavoro?

 

Possono certo servire, ma ben altre garanzie servono alle famiglie:

a) L’organizzazione dei molti snodi che non autosufficiente e famiglia incontrano:

  • “punti unici di primo accesso” capaci di informare sull’intera gamma dei possibili interventi per i non autosufficienti (perché esistono molte prestazioni, ma attivate da enti diversi: INPS, agevolazioni fiscali, per i trasporti, per le barriere architettoniche), e di supportare nell’accesso;
  • garanzie sulla continuità della cura, ossia offrire sia un transito tra ospedale – struttura di riabilitazione – abitazione o residenza assistenziale che non produca vuoti di assistenza, ed eviti che il passaggio da un punto all’altro debba essere gestito autonomamente solo dai familiari;
  • poter offrire una valutazione multidimensionale del bisogno non frantumata in diverse sedi e percorsi

b) Un set, anche minimo ma garantito, di interventi con natura di diritto esigibile. Ossia prestazioni di assistenza domiciliare pubblica che non siano fruibili “solo se ci sono le risorse” (e altrimenti si è collocati in lista d’attesa), come accade attualmente.

 

Obiettivo è dunque arricchire la normativa sui Livelli Essenziali nell’assistenza domiciliare esplicitando meglio interventi davvero esigibili: il contenitore normativo più adatto per supportare i familiari non è una legge ad hoc che presuma un loro dovere di assistere come inevitabile soluzione, ma assicurare articolata assistenza domiciliare nei LEA.

 

3) L’assistenza domiciliare ai non autosufficienti deve impegnare anche il Servizio Sanitario Nazionale?

 

Nei ddl in discussione è quasi assente il ruolo del Servizio Sanitario Nazionale, mentre è di persone malate che si discute. Per quale motivo bisogna accettare che il SSN spenda (come prevedono i LEA) il 50% del costo di un non autosufficiente in struttura residenziale, e invece non debba fare altrettanto se quella persona è assistita al suo domicilio? La spesa del SSN in struttura non copre solo il costo di operatori strettamente sanitari, ma tutto il costo dell’intera tutela; non prevedere analogo impegno se l’assistenza tutelare avviene a casa è un irrazionale strabismo, implica una spesa del SSN solo dove è più costosa (il ricovero) e non dove sarebbe meno costosa (l’assistenza domiciliare che evita ricoveri), e disincentiva l’assistenza domiciliare, che diventa solo a carico di famiglie o Enti gestori dei servizi sociali.

 

Lo schema più efficace in una normativa di tutela della non autosufficienza è dunque il seguente: dopo un accesso ad un punto capace di ampie informazioni, ed una valutazione multidimensionale, si identificano esigenze di assistenza a domicilio alle quali corrisponde un budget di cura (che includa risorse del SSN), che viene trasformato nell’intervento più appropriato in quel momento, inclusa (ma tra altre) l’opzione di contributi ai caregiver che assistono.

 

Approvare normative di supporto ai caregiver di per sé non esclude azioni per un più efficace “sistema delle cure”, ma solo se incardinate in un meccanismo più organico, pena diventare l’unico investimento finanziario e politico, confermando che il nostro welfare deve essere per forza soprattutto familistico.

 

Maurizio Motta

Docente a contratto Università di Torino

 

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