La perdita del significato del lavoro si ripercuote sulla psiche dei lavoratori. Uno studio del dipartimento di studi statistici del Ministero del lavoro francese in collaborazione con la Sorbona

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Bollettino ADAPT 13 febbraio 2023, n. 6
 
Negli ultimi anni si è riacceso il dibattito sul significato del lavoro: i nuovi processi di standardizzazione e “datificazione” del lavoro rendono più difficile per i lavoratori attribuire un senso e un valore alle proprie mansioni.
 
Sul tema i ricercatori francesi Thomas Coutrot (DARES) e Coralie Perez (Centre d’économie de la Sorbonne – Université de Paris 1) hanno realizzato un interessante studio. Lo scopo della ricerca è quello di individuare una definizione soddisfacente del concetto di significato del lavoro e in seguito di valutare se lo stesso possa essere utile al fine di comprendere meglio il comportamento dei dipendenti.

Nello specifico, gli Autori cercano di capire se la mancanza di significato influisca sulle scelte dei lavoratori in termini di mobilità lavorativa, propensione ad iscriversi a un sindacato e assenteismo.

Lo studio in questione (T. Coutrot, C. Perez, Quand le travail perd son sens. L’influence du sens du travail sur la mobilité professionnelle, la prise de parole et l’absentéisme pour maladie: Une analyse longitudinale avec l’enquête Conditions de travail 2013-2016, (2021), DARES, Document d’ études, aout, n. 249) è composto da una rassegna della letteratura sul tema, che comprende anche la teoria psicodinamica, utilizzata dagli autori, e dall’esposizione di quanto emerso dall’analisi dei risultati delle indagini.
 
Per quanto riguarda la letteratura economica, gli Autori ritengono che non esista ancora un quadro teorico soddisfacente per affrontare la questione del significato del lavoro.

La teoria economica standard sostiene che l’offerta di lavoro di un individuo sia determinata da un trade-off tra reddito e tempo libero. Il lavoro dunque, secondo questa impostazione, non ha un significato intrinseco, bensì assume significato solo attraverso la retribuzione (quale ricompensa per la fatica che permette al lavoratore di soddisfare i suoi bisogni di consumo). In quest’ottica tutte le decisioni del lavoratore sarebbero basate unicamente su calcoli di convenienza economica.

Questa concezione inizia a perdere terreno negli anni 2000 e 2010, quando parte della letteratura, senza utilizzare inizialmente il termine “significato del lavoro”, cerca di rendere conto della motivazione intrinseca dei lavoratori.

Questo cambio di rotta è probabilmente dovuto anche alla crescente preoccupazione rispetto alle nuove modalità di organizzazione del lavoro che danno sempre meno importanza alla componente umana.
 
Tra i contributi più recenti, gli Autori citano Bruyère e Lizé (M. Bruyère, L. Lizè, Impact des contextes économique et organisationnel des entreprises sur le sens du travail chez les salariés, in Relations Industrielles/Industrial Relations, 2020, 75/2, pp.225-248), che delineano il significato del lavoro in modo più preciso attraverso quattro “condizioni di possibilità”: l’autonomia, l’utilità, il tempo e la dimensione collettiva del lavoro, senza esplicitare, tuttavia, la base teorica della scelta di queste quattro dimensioni.
 
Lo Studio prosegue poi con una rassegna della dottrina delle Scienze Manageriali.

A differenza dell’economia, nell’ambito delle Scienze Manageriali, così come in quello psicologico e sociologico, il significato del lavoro rappresenta un tema ricorrente ed esistono numerosi studi sul legame tra il significato del lavoro e il comportamento dei lavoratori.

Le ricerche in psicologia sociale e management concludono che la maggior parte dei lavoratori tende a dare un significato al proprio lavoro al di là della semplice retribuzione, confutando così la tesi di Frederick Taylor secondo cui la retribuzione è sufficiente a motivare il rendimento anche nel caso in cui il lavoratore non trovi alcun significato nel proprio lavoro.
 
Nella letteratura manageriale esistono due metodi alternativi per indagare il significato del lavoro:

ll primo approccio, definito “nominalista”, si basa essenzialmente sul giudizio diretto del lavoratore sul significato del proprio lavoro; il secondo approccio, definito “essenzialista”, stabilisce invece una serie di condizioni che una situazione lavorativa deve soddisfare per essere significativa.

L’approccio nominalistico è quello decisamente più utilizzato dalla letteratura: la significatività del lavoro è definita come “la misura in cui un dipendente ritiene che il suo lavoro abbia valore e importanza” (J.R. Hackman, G.R. Oldham, Motivation through the design of work: Test of a theory, in Organizational Behavior and Human Performance, 1976, 16, pp.250–279). Si tratta di uno “stato psicologico” che può essere misurato con un punteggio basato su alcune domande dirette. Esistono, infatti, indici ideati al fine di misurare il significato del lavoro, come il COPSOQ (Copenhagen Psychosocial Questionnaire) o il WAMI (Work As Meaning Inventory).

L‘approccio “essenzialista” (meno utilizzato) distingue, invece, tra due tipi di fattori motivanti: i fattori estrinseci o “igienici” (come la retribuzione e le condizioni di lavoro), che provocano insoddisfazione se non raggiungono un livello minimo, ma non hanno alcun effetto stimolante al di là di tale livello; e fattori intrinseci o “motivazionali”, come l’autonomia, le prospettive di sviluppo, il riconoscimento del lavoro svolto.
 
Presentata la rassegna della letteratura sul tema, gli Autori spiegano che per delimitare teoricamente i contorni della nozione di “significato del lavoro”, tenendo conto della specificità dell’attività lavorativa, hanno scelto di adottare la teoria psicodinamica del lavoro. Partendo da una definizione di lavoro quale sforzo produttivo organizzato in vista di un obiettivo utile, si ritiene che il lavoratore attribuisca un significato intrinseco alla sua attività nella misura in cui questa produce un impatto sul mondo esterno e sul lavoratore stesso. In questo senso, il “significato del lavoro” si differenzia dal “significato al lavoro”, che è dato dalle ricompense materiali (come stipendio e carriera) o psicologiche (come riconoscimento e socialità).
 
Nello specifico, si possono distinguere tre dimensioni del significato intrinseco del lavoro:

– il significato in relazione a un obiettivo da raggiungere nel mondo oggettivo (utilità sociale di beni e servizi);

– il significato dell’attività in relazione ai valori nel mondo sociale (coerenza etica);

– il significato in relazione alla realizzazione di sé nel mondo soggettivo (capacità di sviluppo).

Il lavoratore sente che il suo lavoro ha un senso quando vede che il prodotto del suo lavoro permette di soddisfare i bisogni dei suoi destinatari. Tuttavia, ciò può non essere sufficiente se il lavoro concreto provoca effetti collaterali indesiderati, ovvero se solleva conflitti etici.
 
Infine, si deve considerare che, per svolgere le sue mansioni, il lavoratore deve mettere in gioco la sua soggettività e la sua intelligenza: la possibilità di sviluppare le proprie abilità, di acquisirne di nuove attraverso il lavoro e di esprimere sé stesso contribuisce a determinare la qualità e la significatività del lavoro.
 
Utilizzando dunque questo approccio per analizzare le indagini sulle condizioni di lavoro condotte dal DARES (dipartimento di studi statistici del Ministero del lavoro francese) nel 2013 e nel 2016, gli Autori hanno constatato che un forte deficit di significato è associato a una maggiore probabilità di mobilità lavorativa, ma anche a una maggiore propensione a iscriversi ai sindacati e a un aumento dei giorni di assenza per malattia.

 

Al di là degli esiti dello studio rispetto ai comportamenti dei lavoratori, questo contributo risulta particolarmente interessante per l’originalità dell’approccio al tema del disagio psicologico: non viene utilizzata, infatti, come spesso accade, una griglia di analisi dei singoli fattori di rischio psicosociale, ma ci si concentra sulla percezione soggettiva del lavoratore rispetto al significato del proprio lavoro (nelle sue dimensioni di utilità sociale, coerenza etica e capacità di sviluppo). Un simile approccio può aprire la strada a una riflessione innovativa e di ampio respiro in merito al disagio psichico dei lavoratori e alle possibili contromisure da adottare.
 
Silvia Caneve

ADAPT Junior Fellow

@CaneveSilvia

La perdita del significato del lavoro si ripercuote sulla psiche dei lavoratori. Uno studio del dipartimento di studi statistici del Ministero del lavoro francese in collaborazione con la Sorbona