Il sistema platform labor tra discriminazioni e sfruttamento della forza-lavoro

Considerazioni a margine del convegno internazionale ADAPT – UNIBG “Il futuro del lavoro: una questione di sostenibilità”,
Bergamo 10-11 novembre 2016

 

Mentre le vicende legate a Foodora e Uber continuano a riecheggiare nelle cronache giornalistiche (cfr., al riguardo, E. Dagnino, Nuovi e vecchi paradigmi nella vicenda Foodora, in Bollettino Adapt n. 34/2016 e Note a margine della sentenza Uber UK, in Bollettino Adapt n. 36/2016), il dibattito che ruota attorno alla nuova sharing/gig/on-demand economy si arricchisce di ulteriori sfaccettature e contenuti, oggetto di analisi da parte di esperti di oltre 70 Paesi, intervenuti al convegno internazionale “Nel cuore della nuova Grande Trasformazione”, organizzato il 10, 11 e 12 novembre dall’Università di Bergamo e ADAPT.

 

In realtà, però, non tutto ciò che interessa il sistema economico on-demand ha esattamente il sapore della novità, come dimostrato da Niels van Doorn  (University of Amsterdam) proprio in occasione delle giornate di confronto interdisciplinare in chiave comparata sul tema “Futuro del lavoro: una questione di sostenibilità”.

Ed infatti, lo studio del funzionamento delle piattaforme digitali nelle quali vengono coinvolte prestazioni lavorative offre, a sua volta, lo spunto per approfondire problematiche tristemente note nel panorama lavoristico, quali le discriminazioni e lo sfruttamento perpetrati sulla base del genere e della razza.

 

Value, visibility, violence: sono questi i tre concetti chiave che, secondo van Doorn, si intrecciano e concorrono a delineare il sistema del lavoro su piattaforma, che accompagna l’avvento della on-demand economy.

Più precisamente, le piattaforme informatiche che offrono un servizio di mediazione tra domanda e offerta di lavoro (platforms labor) integrerebbero, con particolare riferimento ai c.d. low-wage service workers, una nuova ed ulteriore modalità di sfruttamento fondato sul genere e sulla razza. Si tratterebbe, quindi, di una nuova versione di pratiche culturalmente radicate, ricostruite da van Doorn con particolare riferimento al contesto socio-economico statunitense, ma che, a ben vedere, si attagliano, mutatis mutandis, anche alla storia di altri Paesi occidentali.

Secondo il ricercatore olandese, infatti, la discriminazione e lo sfruttamento che oggi hanno luogo nell’ambito delle piattaforme on-line sono riconducibili alla storia del lavoro domestico ed alla concezione che di esso è stata tradizionalmente assunta nel panorama statunitense. Lì, infatti, vigeva una netta differenziazione tra le attività che occupavano le donne bianche, dedite ai loro doveri di mogli e madri ed impegnate in attività ricreative e nella beneficenza, e quelle cui, viceversa, erano confinate le donne di colore (spesso immigrate clandestine), destinate a faccende ben più faticose e servili.

L’evoluzione di questo stato di cose, protrattosi concettualmente invariato fino ai nostri giorni, avrebbe poi trovato terreno fertile in tempi relativamente recenti, per effetto della sfavorevole congiuntura economica, che ha creato le condizioni idonee per la segmentazione del mercato del lavoro, nel segno della flessibilità e della precarietà, e per lo sviluppo dell’on-demand business model.

 

Delineato un siffatto quadro, van Doorn evidenzia, quindi, come la forza-lavoro impiegata per il tramite delle suddette piattaforme sia destituita di valore e ridotta ad un mero servizio. Né potrebbe essere altrimenti, visto il modo in cui, nell’economia on-demand, si dispiega la relazione tra valore e visibilità dell’individuo: pregiudizi radicati, infatti, inducono a non prestare la dovuta attenzione alla controparte del rapporto, che inevitabilmente finisce per identificarsi in un semplice mezzo per il soddisfacimento di un proprio interesse. Del resto, come si può conoscere o riconoscere il valore di qualcosa che non si può o non si vuole vedere? Come può essere promossa l’uguaglianza se il lavoro, in particolare femminile e delle persone di colore, viene considerato intrinsecamente poco o per nulla qualificato, umile e degradante?

 

Non a caso, allora, secondo quanto rilevato dal ricercatore olandese, le piattaforme rappresentano luoghi virtuali all’interno dei quali vengono poste in essere una serie di strategie, atte a preservare tanto gli intermediari on-line, quanto i beneficiari dei servizi offerti sulle stesse (users), a discapito di coloro che intendono fornire una prestazione lavorativa (providers).

In particolare, l’immunity di cui godono gli intermediari viene assicurata sulla base dei meccanismi propri dell’attività di intermediazione: i gestori delle piattaforme, infatti, non sono datori di lavoro, ma forniscono un servizio “as is”, limitandosi a consentire l’incontro tra domanda e offerta nell’ambito di una infrastruttura digitale, senza alcuna responsabilità circa la qualità del servizio offerto.

Tale circostanza si ripercuote sulla condizione dei providers, che, qualificati come lavoratori autonomi, vengono esclusi dalle tutele riservate al lavoro dipendente, ivi comprese quelle previste con riferimento all’attività di intermediazione.

Peraltro, connesso al profilo della “immunità”, vi è anche quello delle modalità di controllo dei lavoratori. Ed infatti, la valutazione della performance dei fornitori viene affidata a sistemi di rating, fondati su feedback, che, da un lato, allocano i rischi connessi all’attività lavorativa sui providers, dall’altro, alimentano la frustrazione di questi ultimi in vista del miglior soddisfacimento della domanda (un livello di rating basso, infatti, potrebbe comportare perfino l’arbitraria cancellazione dell’account del lavoratore da parte degli operatori della piattaforma).

Quanto, invece, alla “immunità” di cui godono gli utilizzatori, essa trova fonte, in particolare, nell’asimmetria informativa (relativa, talora, perfino agli elementi più rilevanti del rapporto di lavoro) che connota, nel sistema platform labor, il rapporto cliente-fornitore, e che si traduce a svantaggio di quest’ultimo.

 

Alla luce dello scenario appena descritto, dunque, è possibile comprendere ancor meglio la superfluità e la fungibilità che contraddistinguerebbero i lavoratori coinvolti nelle dinamiche delle piattaforme informatiche. Non sfugge, infatti, come i service providers siano figure facilmente intercambiabili e rimpiazzabili, in maniera non dissimile da una merce. E non potrebbe essere altrimenti se, come affermato, la forza-lavoro che interagisce nelle infrastrutture digitali viene intesa e trattata alla stregua di un servizio di scarso valore.

Ad ogni modo, non va taciuto, che, secondo una visione opposta rispetto a quella illustrata finora, le piattaforme on-line non costituirebbero necessariamente veicolo di discriminazioni, rilevandosi, piuttosto, come il buon funzionamento dei sistemi reputazionali (vale a dire, sistemi di rating fondati su valutazioni veritiere) possa contribuire al superamento dei pregiudizi correlati al genere ed alla razza.

 

Ciò non toglie che le suindicate tecniche, volte a ricavare il massimo profitto dalla minima sicurezza e stabilità del lavoro, confliggano con la creazione di un mercato equo ed inclusivo.

Pertanto, dal momento che il “futuro del lavoro” è anche e soprattutto una “questione di sostenibilità”, è nell’ottica della creazione di piattaforme sostenibili che devono convergere gli sforzi di tutti gli attori coinvolti nel sistema.

A tale scopo, quindi, si segnalano non soltanto le ormai note mobilitazioni volte all’ottenimento di maggiori tutele per i providers, ma anche autoregolamentazioni (paradigmatico il caso del Good Work Code, promosso dalla NDWA) con cui i low-wage service workers mostrano di voler far sentire la propria voce, nell’intento di delineare un differente future of work.

 

Ma non solo. In vista di una on-demand economy sostenibile, vengono in rilievo le potenzialità dell’etnografia, che, a tale scopo, non dovrebbe limitarsi a studiare la realtà dei service workers, dovendo piuttosto assumere un ruolo propulsivo nella valorizzazione delle conoscenze e delle abilità delle comunità di tali lavoratori.

Sotto tale profilo, quindi, l’etnografia costituirebbe un’ulteriore disciplina (al pari della geografia del lavoro, ad esempio) in grado di spiegare i cambiamenti legati alla trasformazione già in atto, nel segno di una multidisciplinarietà capace di guidare la transizione verso un mercato sostenibile.

 

Per vero, in ultima istanza, sarebbe auspicabile la diffusione di un modello di platform cooperativism, sganciato dalle logiche capitalistiche che fino a questo momento hanno dominato il lavoro su piattaforma e decisamente più in linea con gli obiettivi egualitari cui dovrebbe tendere il nuovo sistema economico.

Tuttavia, se sostituire l’attuale assetto con una forma di governance cooperativa suona un po’ utopistico, è comunque innegabile come, nell’ottica della sostenibilità, risulti imprescindibile l’adozione di modelli più equi e democratici. Ma perché ciò avvenga, è necessario, innanzitutto, un poderoso cambio di paradigma, che parta dall’abbandono di una mentalità segregazionista e dalla valorizzazione dell’individuo e delle sue potenzialità.

 

Giusy Tomasello

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@giusy_tomasello

 

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