Il rapporto periodico sulla situazione del personale maschile e femminile: tendenze in atto nel settore del terziario

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Bollettino ADAPT 19 dicembre 2022, n. 44
 
Con la Legge 162/2021, che ha apportato delle modifiche all’art. 46 del Codice delle Pari Opportunità (d.lgs. 198/2006), anche per le aziende con oltre 50 dipendenti è stato previsto l’obbligo di redigere il rapporto periodico sulla situazione del personale maschile e femminile in azienda.

Di conseguenza, entro lo scorso 14 ottobre, le aziende interessate avrebbero dovuto compilare, in modalità telematica, il rapporto sul biennio 2020-2021 attraverso un modello standard accessibile dal portale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. In questo breve contributo si intende dare conto delle principali tendenze che attraversano il settore del terziario di mercato, utilizzando un campione di oltre 170 rapporti – per una platea complessiva di circa 220 mila dipendenti – che i datori di lavoro hanno trasmesso alle organizzazioni sindacali competenti.

Pertanto, i suddetti rapporti fanno capo ad imprese che applicano uno dei CCNL stipulati dalle organizzazioni maggiormente rappresentative del settore terziario, ovvero FISASCAT-CISL, FILCAMS-CGIL e UILTUCS-UIL. Più nello specifico, si tratta di documenti messi a disposizione dalla Segreteria Nazionale della FISASCAT-CISL, e qui letti trasversalmente per una prima analisi di natura quali-quantitativa.
 
Occupazione femminile
 
Un primo aspetto rilevante riguarda la diffusione dell’occupazione femminile che, nel campione analizzato, raggiunge il 60% con oltre 132 mila lavoratrici su 220 mila dipendenti complessivi, confermando la forte presenza della componente femminile tra i vari comparti del terziario di mercato, i quali, tuttavia, denotano significative differenziazioni che meritano di essere analizzate.

Sussistono, infatti, segmenti produttivi dove la presenza di lavoro femminile risulta tendenzialmente sottorappresentata (inferiore al 40% della popolazione aziendale). Tale situazione riguarda il 27,2% delle imprese considerate, le quali si collocano, per la maggior parte dei casi, in tre gruppi di attività: commercio di materiali per l’edilizia (elettrici, ferrosi, idraulici, chimici, ecc…), commercio di autovetture, servizi connessi all’informatica (consulenza informatica, produzione di software, ecc…) e servizi di vigilanza privata.

Viceversa, il 49% delle aziende presenta una situazione di elevata concentrazione di lavoro femminile (superiore al 60% della popolazione aziendale), concentrate essenzialmente in 5 comparti produttivi: commercio di “articoli leggeri” (abbigliamento, calzature, profumi, giochi., ecc…), attività di pulizia e servizi integrati, ristorazione (mense, catering, bar, ecc…), attività di assistenza sociale e studi professionali.
 
Appare evidente come tali divergenze risultino in linea con taluni schemi culturali che tutt’oggi distinguono tra lavori “da uomo” e lavori “da donna”. È questo il caso, ad esempio, delle attività commerciali connesse al mondo dell’edilizia o dell’automobile, ancora percepite come di competenza e appannaggio maschile, così come pure quelle connesse alle attività di sicurezza, che spiegano la scarsa presenza di lavoratrici nelle imprese di vigilanza. Non stupisce, inoltre, la bassa quota di lavoratrici nel settore dell’informatica: un dato che si pone in sostanziale continuità con lo scarso tasso di partecipazione delle donne nei corsi di studio in materie c.d. “STEM”.

Al contrario, mestieri socialmente identificati come “da donna”, giustificano la massiccia concentrazione del lavoro femminile in settori che comprendono le attività di cura (come quelle afferenti al comparto socioassistenziale), le attività di pulimento dei locali, i servizi connessi alla ristorazione commerciale, sino ad arrivare alle prestazioni connesse al mondo dell’infanzia (commercio di giochi e di articoli per bambini).
 
Le donne nelle posizioni apicali
 
Spostando il focus dell’analisi verso aspetti di natura qualitativa, un primo elemento di riflessione riguarda la presenza femminile nelle posizioni apicali (dirigenti e quadri) delle oltre 170 aziende in esame.

Prima di addentrarci in questa riflessione, corre l’obbligo osservare che, in questi settori, la maggior parte degli organigrammi aziendali non prevede figure dirigenziali (56,6% delle imprese studiate). Più diffusa è invece la figura del quadro, seppure, anche in questo caso, non presente in quasi un’azienda su tre.

Fatte le dovute specifiche, riducendo il campione alle imprese che prevedono le suddette figure apicali, le donne dirigenti rappresentano soltanto il 30,5% dei dirigenti totali, mentre tra i quadri le donne scendono al 29,4%. Tale sperequazione risulta particolarmente evidente in relazione al fatto che, se si considera il totale delle aziende analizzate, l’occupazione femminile è nettamente maggioritaria, raggiungendo il 60% della forza lavoro. In altri termini, nonostante la componente di lavoro maschile sia largamente minoritaria, i dati mostrano come per gli uomini risulti comunque più agevole la possibilità di “fare carriera”, confermando la persistenza del c.d. “soffitto di cristallo”, cioè quel fenomeno sociale e culturale che ostacola le donne nel raggiungimento delle posizioni verticistiche degli organigrammi aziendali.
 
Precarietà lavorativa femminile
 
Altro fattore determinante per lo studio circa la qualità dell’occupazione femminile nel terziario privato è indagare le tipologie contrattuali con le quali le lavoratrici vengono impiegate.

A tal proposito, nella seconda sezione del Rapporto biennale sulla situazione del personale maschile e femminile, è richiesto di indicare i dettagli sugli occupati e le occupate anche in relazione al tipo di contratto di lavoro (tempo indeterminato, tempo determinato, part-time, apprendistato, lavoro in somministrazione, ecc…).

Ad una prima analisi, risultano particolarmente significative le asimmetrie di genere nell’utilizzo del contratto a tempo determinato e del part time. Due tipologie contrattuali che, incidendo sia sulla durata del rapporto che sul tempo lavorato, costituiscono indicatori fondamentali per studiare la precarietà lavorativa e indagare come questa si distribuisca in maniera asimmetrica tra occupazione maschile e femminile, penalizzando in particolare quest’ultima.

Infatti, se sul versante dei contratti a termine, a fronte dei circa 25 mila rapporti a tempo determinato censiti, oltre il 60% riguarda rapporti di lavoro femminile, il tasso raggiunge addirittura l’80% se si prendono in considerazione gli oltre 100 mila contratti a tempo parziale, sollevando non pochi dubbi circa la reale volontà delle lavoratrici nell’adesione a tale tipologia contrattuale.
 
Conciliazione vita-lavoro
 
Dai dati contenuti nei rapporti possono trarsi evidenze importanti anche sul versante della disuguaglianza di genere in materia di genitorialità e conciliazione vita-lavoro, ancora percepita come un istituto ad uso prevalentemente femminile, reiterando il fenomeno della c.d. “doppia presenza”.

Basti pensare, ad esempio, al dato sull’utilizzo dei congedi parentali, i quali, potendo essere usufruiti sia dai padri che dalle madri, possono costituire un importante indicatore su come la distribuzione dei carichi familiari si suddivida tra uomini e donne. Secondo i dati del campione, sono quasi esclusivamente queste ultime a richiedere tali misure, dato che il 76% dei 3mila congedi usufruiti sono stati utilizzati dalle lavoratrici madri.

Nonostante tale evidente squilibrio, è da rilevare come, sul versante aziendale, le dichiarazioni fornite dalle imprese mostrino anche una sensibilità crescente sul tema del bilanciamento delle esigenze lavorative con quelle di natura privata. Infatti, la quasi totalità delle aziende censite dichiara di applicare misure di conciliazione (soprattutto lavoro da remoto, flessibilità oraria in entrata/uscita e facilitazioni al trasferimento).

Da notare, peraltro, come il ventaglio delle soluzioni si amplia notevolmente nelle aziende che applicano un contratto di II livello (aziendale o territoriale), confermando il fatto che, in presenza di relazioni industriali decentrate, le organizzazioni aziendali sono più attente ai bisogni di vita privata dei propri dipendenti. È in tali contesti, infatti, che emerge la presenza di istituti aggiuntivi quali i congedi e i permessi ulteriori per particolari esigenze di natura familiare, la banca delle ore, il riconoscimento di bonus nascita, l’erogazione di contributi per la retta del nido o la stipulazione di apposite convenzioni, che spesso valgono anche per i centri estivi.
 
Dimissioni
 
Un fenomeno sul quale insiste particolarmente il format del rapporto è quello delle dimissioni, alle quali è stata aggiunta una specifica voce volta a misurare il numero di “dimissioni con figli 0-3 anni”. Tale particolarità, se letta tenendo in considerazione le ultime rilevazioni statistiche (Save The Children, Le equilibriste. La maternità in Italia 2022, p. 25), le quali hanno mostrato come le dimissioni volontarie di lavoratrici e lavoratori con figli tra 0 e 3 anni abbiano riguardato in misura maggiore la componente femminile (30.911 dimissioni volontarie di lavoratrici contro 9.110 di lavoratori), fornisce uno spaccato importante sulla natura della partecipazione femminile al mercato del lavoro. Su questo punto, differentemente dalle statistiche nazionali, dai dati raccolti negli oltre 170 rapporti indagati emerge che il fenomeno delle dimissioni con figli piccoli è presente “soltanto” nel 29,50% delle aziende, riguardanti comunque nella quasi totalità dei casi le lavoratrici.
 
Alcune riflessioni conclusive
 
Seppure sia doveroso specificare che i rapporti in questa sede analizzati non rappresentino un campione sufficiente a rappresentare scientificamente le dinamiche dell’occupazione e partecipazione femminile nell’intero macrosettore del terziario privato, a partire da quanto osservato è possibile trarre alcune importanti riflessioni.

Una prima osservazione, di carattere più generale, è relativa all’importanza strategica di questa mole di dati che, se messi a disposizione delle rappresentanze sindacali, permettono di rilevare alcune tendenze esistenti e in questo modo porre al centro delle trattative tematiche riguardanti la partecipazione femminile e la conciliazione vita-lavoro.

Prestando invece più attenzione alla fotografia del settore offerta dall’analisi dei rapporti, si riscontra una scarsa diffusione (inferiore al 30%) della contrattazione di secondo livello che, ove presente, interviene con misure migliorative e a sostegno dell’equilibrio tra vita privata e vita professionale. È quindi a questo livello contrattuale – che per sua natura risulta più vicino alle peculiarità tipiche che caratterizzano le singole realtà socioeconomiche – che vi potrebbe essere un più ampio e incisivo intervento da parte della contrattazione sui temi della parità di genere.

Infine, si riscontra la persistenza di alcune dinamiche sociali da tempo rilevate e commentate oramai da diverse fonti. Ci si riferisce, in particolare, ai fenomeni della segregazione orizzontale e verticale che, anche in comparti produttivi a prevalenza femminile come quelli analizzati, risultano ancora fortemente radicati, confinando le lavoratrici in ambiti ristretti del mercato del lavoro e in specifici livelli contrattuali degli organigrammi aziendali.

Di fronte a tali fenomeni, ancora massicciamente diffusi nel tessuto sociale del nostro Paese, occorre riflettere non tanto sulle cause (ormai da tempo rintracciate in alcuni stereotipati costrutti sociali) quanto piuttosto sul ruolo che potrebbe essere assunto dalle istituzioni e (soprattutto) dalle parti sociali nel processo di scardinamento dei fattori che causano e acuiscono le disparità di genere nel mondo del lavoro.
 
Stefania Negri

Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@StefaniaNegri6
 
Jacopo Saracchini

Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@JacopoSaracchi1

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