Bollettino ADAPT 28 aprile 2025, n. 16
Tra i tanti fili rossi attraverso i quali è possibile ripercorrere il pontificato di Papa Francesco c’è la centralità del lavoro e, soprattutto, della sua dimensione relazionale. Che il lavoro, almeno a partire da Giovanni Paolo II, abbia negli ultimi decenni ricoperto un ruolo centrale nella predicazione della Chiesa Cattolica è noto ma il Papa argentino ha dato una sua particolare declinazione a questo tema. E lo ha fatto includendolo all’interno di quel richiamo costante alle conseguenze negative dell’individualismo contemporaneo declinato sia nelle sue dimensioni economiche che in quelle sociali. Ci sarà tempo per ripercorrere con dovuta attenzione i tanti testi dedicati al tema, ma su questo i discorsi ad attori collettivi come i sindacati, le associazioni datoriali e i movimenti sociali sono tra i più interessanti. In essi il richiamo è sempre stato quello di mettere al centro il lavoro come strada per mettere al centro delle politiche economiche e sociali la persona nella sua dimensione relazionale per eccellenza, quella con la realtà e con le altre persone. Non un generico appello alla centralità della persona, come spesso ci siamo abituati a sentir dire senza che questo venga in alcun modo dettagliato, ma delle sue caratteristiche peculiari tra le quali, appunto, quella dell’essere con altri, inserita in un contesto sociale, fatto di rapporti e di una storicità particolare che chiede una responsabilità.
In questo senso si può comprendere la critica, più volte richiamata, a una riduzione economicistica del lavoro che viene giustificata proprio all’interno di una antropologia individualistica. Il lavoro si qualifica così come uno degli strumenti con i quali viene perpetuata quella “cultura dello scarto” la cui critica è stata un vero mantra di questo pontificato. Perché se, in ultimo, tutto il lavoro ha un valore nel rapporto con la realtà, per Papa Francesco era chiaro, e l’ha detto con forza più volte, che ci sono lavori che non rispettano la dignità della persona e sono soprattutto quelli nei quali il singolo è oppresso e non reso libero di poter esprimere il potenziale della sua esistenza. Richiamare oggi tutto questo, e tutto ciò che potrebbe emergere in una lettura molto più profonda di quella che stiamo qui accennando, dovrebbe essere all’origine di una analisi a tanti aspetti del lavoro di oggi. Perché anche questo è stato Papa Francesco, una voce critica rispetto a un modo di intendere i rapporti sociali ed economici che domina la società contemporanea. Critica spesso ignorata perché ridotta a un discorso edificante che ci si potrebbe aspettare da un Papa ma che in realtà, se davvero ascoltata, ha una forza sia analitica che progettuale dirompente.
L’appello al fare insieme appare oggi centrale dentro un mondo del lavoro che ha come principale caratteristica, nelle organizzazioni così come nelle più complesse dinamiche del mercato, ma anche nella rappresentanza, la frammentazione. Ma questo richiamare la riscoperta di una dimensione collettiva nel lavoro non è mai stata nel suo magistero una negazione delle differenze o dei confitti che sono insiti nell’economia e nella società. Ha più che altro indicato che il singolo necessita, strutturalmente, dell’altro e questo è quello di cui si stanno accorgendo in molti oggi, a partire dai più giovani che vedono in un lavoro economicisticamente ridotto qualcosa di insoddisfacente e quindi da vivere in modo distaccato.
Le stesse politiche oggi, pensiamo alle politiche attive del lavoro, non funzionano se non introducono strumenti di accompagnamento delle persone nelle loro variegate fragilità. Se queste si riducono a incentivi individuali o percorsi schematici proposti, difficilmente trovano esiti positivi. Ma la sfida più importante è per il mondo della rappresentanza che dovrebbe, almeno guardando alla sua genesi, essere la forma primaria di questa collettività che si muove per un lavoro migliore, sia lato impresa che lato lavoratore. Quando questo non avviene e gli attori della rappresentanza rischiano di ridursi a erogatori di servizi per i loro “clienti” perdono il senso del loro esistere. E facendolo generano le conseguenze che tutti possiamo vedere, prima tra tutti il lasciare spazio a soggetti che hanno come obiettivo proprio la disintermediazione promettendo tanto facili quanto irrealistiche soluzioni a problemi complessi che riguardano però la vita di tutti.
Tutti questi richiami ad una dimensione collettiva e relazionale non sono certo espressione di un pensiero proclamato e diffuso solamente da Francesco. Ma la differenza che l’ha caratterizzato è quella di averli sempre fondati non tanto intorno a un appello edificante e moralistico, che non ha alcuna presa su imprese, lavoratori, rappresentanza e politica. Al contrario l’ambizione di Francesco era quella di incastonare questi appelli e queste critiche in una antropologia ben specifica che vedeva la relazione e il rapporto con l’altro come bisogno strutturale dell’uomo. Un’ipotesi che chiunque è chiamato a verificare oggi e che ci sfida ad andare oltre alle superfici dei fatti, scavando nella loro profondità alla ricerca proprio di queste dimensioni dell’umano che paiono distanti dalla concretezza che politica, società ed economia richiederebbero, ma che invece ci permettono di non ripetere sterili slogan quando parliamo di persona, di lavoro, di comunità.
Francesco Seghezzi
Presidente ADAPT@francescoseghezz
pubblicato anche su Domani col titolo Il lavoro come fede: Francesco contro la «cultura dello scarto», 22 aprile 2025
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