Il Jobs Act in testa, tra numeri e parole

Non pensate ai numeri…

 

Da quando il Ministero del lavoro ha scelto di pubblicare mensilmente i dati provenienti dal sistema delle comunicazioni obbligatorie, ossia da aprile di quest’anno, sembra che l’unica certezza a riguardo dei numeri del lavoro sia la confusione che ne è scaturita. Lo ha fatto notare il Presidente dell’Istat Giovanni Alleva, non solo nell’ultima discussa intervista rilasciata a Carlo di Foggia del Fatto Quotidiano, poi parzialmente smentita, ma anche in precedenti occasioni dove ha introdotto il tema di una auspicabile integrazione comunicativa dei dati forniti da Ministero, Istat e Inps.

 

Cominciata sulla scia già monotona del “tira e molla” interpretativo dovuto alle apparenti contraddizioni tra i dati amministrativi e le statistiche Istat, la noia della numerologia estiva è stata rotta prima dalla polemica sulla dimensione del calo degli iscritti alla Cgil, e poi l’altro ieri dal grosso errore commesso dal Ministero del lavoro nel conteggio del saldo tra attivazioni e cessazioni di contratti a tempo indeterminato da gennaio a luglio.

 

Il fatto più sorprendente è che l’errore non è stato commesso durante un routinario calcolo, bensì durante un’operazione inconsueta, svolta una tantum dal Ministero che non contempla tra le sue pubblicazioni calendarizzate quelle dei dati “settemestrali”. In via Vittorio Veneto dovevano quindi avere qualcosa di nuovo da comunicare, occasione che avrebbe meritato un’accortezza particolare. Data l’intenzionalità, dopo l’errore (ammesso e corretto, ma non comunque al meglio della chiarezza) è risultato facile accusare una volta di più gli ambienti vicini al Governo di stare conducendo una vera e propria propaganda al servizio dell’ultima riforma del lavoro.

 

La brutta figura in cui è incappato il Ministero rischia però di far divergere ancora di più l’attenzione degli osservatori dal punto centrale della comunicazione politica del Jobs Act, che non è la semplice affermazione della sua efficacia in termini numerici. Ben oltre: è piuttosto la contesa di una visione del lavoro, dove per chi si occupa di lavoro con gli occhi della comunicazione, più importanti e determinanti restano le parole utilizzate, i concetti per i quali i numeri svolgono il ruolo di “imbottitura” (per un’analisi dal punto di vista della filosofia politica si veda F. Seghezzi e M. Tiraboschi). E’ importante insomma la forma che durante i processi di riforma le forze politiche (e sindacali) tentano di conferire alla rappresentazione del mercato del lavoro come dovrebbe apparire sotto la plasmatura degli interventi normativi.

 

In questo processo di conquista dell’opinione la comunicazione renziana sembra aggiornata alle più recenti e fortunate teorie della comunicazione politica. Non solo quelle relative allo storytelling e alla narratività, anch’essa esplicitamente dichiarata fondamentale da importante da Renzi, ma anche quelle provenienti dalla linguistica cognitiva e dagli studi inaugurati da George Lakoff, professore dell’Università di Berkeley che da qualche tempo si sforza di istruire i politici democratici americani circa il potere del linguaggio.

 

Semplificando molto, una parola non è mai solo una parola, soprattutto se viene utilizzata per realizzare una metafora, magari largamente condivisa nella cultura di riferimento. Utilizzando delle metafore molto semplici si possono mappare entità astratte su altre realtà concrete, trasferendovi le relative implicazioni di significato e le connotazioni emotive.

 

A questo si aggiunge che il modello dell’elettore razionale, secondo questa visione, è irrealistico. Le persone non fanno le loro scelte di voto sulla base della valutazione consapevole di dati statistici. Nelle valutazioni siamo invece soggetti all’influenza determinante di riflessi emozionali inconsapevoli, suscitati dalla concezione metaforica della realtà. A livello basilare alcune metafore sono connesse a sensazioni positive, altre a sensazioni diametralmente opposte. Con la semplice presentazione dei numeri insomma non si ottiene nulla se non si collocano questi dati nella cornice (il frame) più utile a comunicare un’interpretazione della realtà.

 

Si potrebbe osservare anche il caso del Jobs Act sotto questa luce, per lo meno per porre al centro il suo valore simbolico. Si potrebbe dire che il Jobs Act, “madre di tutte le battaglie”, rottamatore dello stesso refrain della rottamazione, non ha per obbiettivo il solo consenso popolare, ma un consenso caratterizzato emotivamente, rassicurato e rinfrancato dal nuovo trionfo della “stabilità” dei “posti di lavoro”. “Lavoro” come parola di “speranza”, per stessa definizione di Renzi. Il lavoro come realtà sociale che si narra attraverso una metafora molto semplice secondo cui “stabilità” è “sicurezza” e “precarietà” è “insicurezza”.

 

…E nemmeno al “posto fisso”

 

Da tempo, verificata l’impossibilità di parlare di aumento dell’occupazione, il governo si concentra infatti sulla comunicazione dell’obbiettivo qualitativo del Jobs Act. Quello che è comunque importante notare è che la comunicazione della riforma che va sotto l’insegna anglofona, vezzo linguistico connotato dal tratto della modernità, è sede di un antinomia che ben pochi operatori della comunicazione e dell’informazione hanno messo in rilievo: appartiene al genere narrativo della “rivoluzione”, addirittura “copernicana”, ma contemporaneamente come manifestazione di questo frame viene additato il recupero e il consolidamento del tradizionale “posto fisso”, rassicurante per la visione del futuro dei cittadini, e molto facile da comprendere rispetto a una generica organizzazione post-fordista complessa da interpretare e quindi anche da comunicare.

 

Più che di una affermazione dei principi di tutela e dei valori democratici, si tratta di una proiezione pacificante del passato che si fa forte di metafore talmente radicate nel modo di parlare di lavoro da essere quasi morte, cioè da non avere altri termini corrispettivi nel vocabolario che possano rappresentare lo stesso concetto. È proprio il caso di quel “posto fisso” in luogo del “tempo indeterminato”, ma anche proprio del cosiddetto “posto di lavoro”. Un’espressione piuttosto estranea in altri contesti, come quello statunitense, dove i nostri “posti di lavoro” sono più comunemente “Jobs” che “Job post”.

 

“Posto fisso” è quasi una tautologia che evoca l’idea di un alveare occupazionale, fatto di celle da occupare. Questa tendenza a rappresentare il mercato del lavoro nei termini di una geometria rigida potrebbe essere alla base della tentazione quasi-automatica di sovrapporre i dati sulle attivazioni di contratti (quelli delle Comunicazioni Obbligatorie) ai dati Istat sulle persone occupate.

 

Gli andamenti dei cicli produttivi suggerirebbero invece sempre più di intendere il lavoro più letteralmente come uno scambio e un contratto, una risposta a una domanda che scorre con dinamiche a singhiozzo e che sfugge alle maglie strette e regolari della tradizionale organizzazione del lavoro e della classificazione dei mestieri.

 

Questo effetto interpretativo persiste anche se si considera il supposto portato “rivoluzionario” del Jobs Act: da un lato la rimozione della storica barriera ideologica dell’articolo 18, dall’altro il recupero della relativa quota di “sicurezza” così perduta con l’introduzione di un nuovo sistema di politiche attive.

 

Invero la rimozione dell’articolo 18 non sembra poter “ammorbidire” e “flessibilizzare” la struttura del mercato del lavoro, ma semmai può renderla effettivamente “instabile”. Basterebbe pensare che negli Stati Uniti, dove qualcosa di simile all’articolo 18 non è mai esistito, le categorie tradizionali sono comunque ritenute dagli stessi giudici inadeguate a identificare correttamente le professionalità sorte nell’ambito dell’economia digitale che sta trainando l’occupazione. La metafora proverbiale usata da uno di essi, Square peg for round hole, pare fatta apposta per spiegare l’inadeguatezza del nostro “posto fisso” come paradigma del nuovo.

 

Quanto alle politiche attive, basta notare invece la completa assenza nel bagaglio lessicale di governo e giornalisti del termine che meglio descriverebbe la “sicurezza” nel nuovo ideale mercato del lavoro, ossia quella “continuità” che dovrebbe andare a braccetto con la metafora basilare secondo cui “dinamicità” (o “flessibilità”) è “sicurezza” e che non avrebbe comunque nulla in contrasto con l’espressione letterale del “tempo indeterminato”. Il corrispettivo ideale contrattuale in questo senso potrebbe essere considerato lo staff leasing. La metafora non funzionerebbe però in termini di effetti comunicativi, perché non fa parte dell’esperienza comune e dei lavoratori italiani. Molto più semplice fare leva sulle diffuse e iper-narrate vicende di intermittenza e brevità delle esperienze di lavoro per trasmettere l’idea che il modello del posto fisso torna a difendere dalla precarietà del rapporto, mascherando quella “precarietà” che è del mercato. Rilevante in questo senso il progressivo disuso dell’innovativa etichetta “tutele crescenti”, invero quasi contradditorio in questa rappresentazione del crescente stato di salute dell’occupazione.

 

Significativo anche che Matteo Renzi si sia sempre ben guardato dal fare affermazioni a riguardo della “selettività” o della “inoccupabilità” dei giovani, laddove nel disegno della flexicurity, l’acquisizione e il mantenimento delle competenze corrispondenti ai bisogni delle aziende, sono considerate dai più come il vero perno della sicurezza del lavoratore.

 

Ora, attribuire una certa responsabilità in questa descrizione complessiva anche ai giornalisti potrebbe apparire dubbio o esagerato. Alleva lo aveva fatto esplicitamente con riferimento al trattamento dei dati, e lo ha fatto anche l’ex Presidente dell’Istituto, nonché ex Ministro del lavoro, Enrico Giovannini. Relativamente a questo piano, in pochi nella categoria hanno fatto autocritica (in modi diversi lo hanno fatto Stefano Feltri e Marta Fana). Certo è che leggendo i giornali, a fronte di continue accuse di propaganda e dell’uso frequente dell’espressione “posto fisso” anche post articolo 18 e dell’aggettivo “precario” come genere della specie “flessibilie”, non si rinvengono invece particolari critiche al corredo concettuale utilizzato dal Governo. Le categorie insomma rimangono le stesse.

 

Di fronte ai forti segnali di cambiamento, una comunicazione sia della politica sia dell’informazione, onestamente orientata al futuro dovrebbe domandarsi se il lavoro come lo abbiamo conosciuto sinora sia perpetrabile a oltranza, o se forse non convenga abituarsi per tempo a parlarne in termini diversi; se non in sostituzione, almeno in aggiunta a quelli più tradizionali ormai inadeguati a rappresentare la realtà di molti nuovi lavoro e del futuro che attende i giovani.

 

La questione è delicata. Basta ricordare quelle che furono le reazioni alle parole dell’allora premier Mario Monti quando parlò, forse indelicatamente, di “noia”; tuttavia, per ricalcare il famoso invito di Lakoff a “non pensare all’elefante”, si potrebbe aiutare le nuove generazioni dicendo loro: “Non pensate al posto fisso. Almeno non più di quanto pensiate alle vostre competenze”.

 

Francesco Nespoli

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo

@franznespoli

 

* Pubblicato anche su Linkiesta, 31 agosto 2015 con il titolo Jobs Act, le metafore e le favolette sono peggio dei numeri sbagliati.

 

Scarica il pdf pdf_icon

Il Jobs Act in testa, tra numeri e parole
Tagged on: