Il dibattito sul salario minimo dimentica la bilateralità e le prestazioni del welfare contrattuale

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Bollettino ADAPT 10 luglio 2023, n. 26
 
Il dibattito sul salario minimo rischia di ridursi ad uno scontro tra chi ne auspica l’introduzione e chi invece difende il ruolo di “autorità salariale” svolto dalla contrattazione collettiva, confrontando i possibili impatti sulle retribuzioni degli italiani. Si rischia così di dimenticare come la contrattazione collettiva non si sia mai limitata a stabilire il “giusto salario”.
 
Le relazioni industriali italiane hanno invece costruito veri e propri sistemi capaci di tutelare e promuovere la crescita e lo sviluppo dei settori rappresentati: indebolire la contrattazione collettiva può allora significare anche mettere in crisi questi sistemi, a danno dei lavoratori e delle imprese coinvolte. Per evitare che la prospettiva qui proposta si riduca ad un appello astratto a tutelare il ruolo della contrattazione collettiva può essere utile approfondirla con un esempio specifico: particolarmente illuminante è, in questo senso, l’esperienza della bilateralità nel settore edile.
 
Questo settore è storicamente caratterizzato da una forte dispersione produttiva, un’organizzazione del lavoro frammentata, e una fisiologica instabilità occupazionale (cfr. M.C. Cimaglia, A. Aurilio, I sistemi bilaterali di settore, in L. Bellardi. G. De Santis (a cura di), La bilateralità tra tradizione e rinnovamento, Franco Angeli, 2022 (ma 2011), pp. 97-246). A fronte di tali caratteristiche le Parti Sociali si sono impegnate a ideare, dal basso, strumenti utili a contrastarne i principali effetti negativi. Nascono alla metà del secolo scorso a livello territoriale e provinciale le Casse Edili (la prima, a Milano, nel 1919), istituti finalizzati a raccogliere parte della retribuzione degli operai del settore (inizialmente ferie, festività e gratifiche natalizie), a loro poi regolarmente riconosciute: tutele quindi legate alla persona del lavoratore, e non all’impresa per cui lavorava. Si è così storicamente superato il rischio che, cambiando datore di lavoro tra un cantiere e l’altro, l’operaio “perdesse” quanto guadagnato in termini, ad esempio, di ferie.
 
Sarebbe comunque a dir poco riduttivo pensare al sistema delle più di cento Casse Edili diffuse a livello provinciale come ad uno strumento utile a gestire (solo) trattamenti retributivi differiti. Le Casse, nella loro storia e sulla base degli specifici fabbisogni del territorio hanno ideato servizi e sono stati al fianco di lavoratori e imprese fornendo gratuitamente forme di assicurazione per infortuni extraprofessionali a tutti gli operai, coprendo i costi sostenuti per le colonie estive dei figli, ideando borse di studi e altri strumenti economici per aiutare le famiglie ad investire nella formazione, solo per fare qualche esempio. La creatività con cui le prestazioni erano poi stabilite a livello territoriale e provinciale ha portato in alcuni casi al sorgere di differenze troppo spiccate tra una provincia e l’altra, tanto da convincere le Parti sociali ad ideare la Commissione paritetica Nazionale per le Casse Edili (CNCE), introdotta con il CCNL del 1983. Oggi, quindi, le Casse Edili sono organizzate in un sistema nazionale, con un coordinamento centrale, e nodi dotati di spiccata autonomia a livello provinciale.
 
Questa articolazione tra centro e territori segue quella che è l’articolazione della stessa contrattazione collettiva. Come ha ricordato ANCE nella memoria depositata presso la Commissione Lavoro e riguardante le proposte di legge per l’introduzione del salario minimo, la contrattazione collettiva in edilizia riconosce un grande valore alla contrattazione provinciale. È la contrattazione provinciale che, ad esempio, stabilisce quelli che sono i servizi riconosciuti dalla Cassa edile e individua, in un delta comunque stabilito a livello nazionale, l’ammontare del contributo paritetico raccolto da imprese e lavoratori per finanziare la bilateralità. In questo senso, ricorda ANCE, il «contratto collettivo territoriale disciplina voci retributive facenti parte integrante del trattamento economico obbligatorio spettante al lavoratore». Considerare solo il CCNL e confrontarlo con quanto eventuale previsto da un salario minimo legale risulta quindi un’operazione incompleta e imprecisa.
 
Le Casse edili hanno potuto disporre di una quantità di informazioni tali da poter svolgere il ruolo di veri e propri osservatori sui mercati locali, collaborando con altre istituzioni a livello territoriale per mettere a sistema questi dati e poter immaginare politiche economiche e soprattutto formative adeguate. L’evoluzione di questa funzione è rappresentata dal riconoscimento delle Casse tra gli enti titolati al rilascio del Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC), a presidio del lavoro regolare, contrastando pericolosi processi di dumping che pure hanno da sempre caratterizzato il settore. Le relazioni industriali hanno quindi ideato già da decenni strumenti utili ad affrontare criticità che oggi si ripresentano con forza.
 
Il ruolo delle Casse a presidio della regolarità del lavoro si è sempre legato alla necessaria applicazione integrale del CCNL da parte delle imprese operanti nel settore edile. Storicamente, le Parti sociali hanno lavorato per allargare la platea di imprese, e quindi di lavoratori, iscritte alla Cassa Edile per allargare di rimando il numero di coloro che applicavano il CCNL: contrattazione collettiva e bilateralità sono sempre state assieme, l’una a presidio della qualità e dell’efficacia dell’altra, a tutela e promozione del lavoro nel settore edile. Non è stata un’operazione semplice, come testimonia anche la ricca giurisprudenza a proposito della necessaria contribuzione dovuta alla bilateralità in caso di adozione del CCNL edile. Una giurisprudenza consolidata che rischierebbe però di veder indebolita la propria efficacia, nel caso di un abbandono del CCNL a fronte di un’introduzione di un salario minimo legale.
 
A metà tra l’industria e l’arte (cfr. G. Della Valentina, L’industria delle costruzioni a Bergamo nel Novecento, in C. Cattaneo (a cura di), Edilizia e costruzioni a Bergamo. Una lettura storica, economica e aziendale, Bergamo University Press, 2008, pp. 29-113), il lavoro nel settore edile ha da sempre richiesto maestranze dotate di competenze adeguate. Dopo la nascita delle prime Casse edili nascono allora anche le Scuole Edili (la prima, a Genova, nel 1946), enti bilaterali finalizzati alla gestione della formazione in edilizia. Hanno svolto un ruolo decisivo nella formazione di maestranze specializzate, sapendo trasformarsi nel tempo: da Scuole dedicate alla formazione iniziale dei giovani che volevano diventare muratori e capi-cantiere, hanno poi dato sempre più rilevanza alla formazione continua dei lavoratori e introdotte uno specifico sistema di politiche attive del lavoro, utile anche a contrastare i terribili effetti della crisi economica del 2008. Non solo. Molte di esse negli anni hanno sviluppato collaborazioni con realtà nazionali e internazionali per la sperimentazione di materiali innovativi in edilizia, anticipando di anni temi quali la sostenibilità energetica degli edifici e l’utilizzo di tecniche di progettazione digitali. Centri di formazione e anche di ricerca quindi, ancora oggi operativi in quasi tutte le province italiane.
 
In collaborazione con i Comitati Paritetici Territoriali (CPT, con cui si sono unificati a partire dal 2015) le Scuole Edili sono poi state e sono tutt’oggi un presidio decisivo per la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori. Basti richiamare l’iniziativa, voluta dalle Parti Sociali, delle “16 ore prima”, ore di formazione obbligatorie prima di entrare in cantiere, o l’innovativa metodologia dei Metodi Integrati per Costruire in Sicurezza (MICS), promossa dal Formedil nazionale (l’ente paritetico di coordinamento delle Scuole edili), grazie alla quale la formazione alla sicurezza diventa un vero e proprio habitus mentale, connaturato alla formazione professionale e quindi allo stesso mestiere svolto nel settore edile: non si tratta, in questa prospettiva, di imparare un lavoro e poi dover svolgere un corso per assolvere agli obblighi di salute e sicurezza imposti dalla legge. Piuttosto, per fare bene il proprio lavoro è necessario lavorare in sicurezza: questa metodologia non si limita ad esporre i contenuti delle norme, ma applica a casi reali quanto disposto per la tutela e promozione della salute e sicurezza dei lavoratori.
 
Gli esempi, anche solo limitandoci all’edilizia, potrebbero ancora essere numerosi: basti pensare allo sviluppo della previdenza complementare (con il fondo Prevedi) e della sanità integrativa (con il fondo Sanedil). La storia delle relazioni industriali del settore è la storia di come sia stato possibile costruire istituzioni innovative e capaci di offrire non tanto e non solo servizi più efficaci ai lavoratori del settore, ma piuttosto costituire un pilastro strategico per la competitività, la crescita e lo sviluppo del lavoro (legale e protetto) nell’edilizia italiana. In una logica paritetica, di costante collaborazione – pur con gli inevitabili momenti di conflitto e scontro – tra Parti sociali, dando voce ai bisogni di lavoratori, imprese e territori, e introducendo soluzioni poi riconosciute nel loro valore anche dallo Stato, come ad esempio nel caso del DURC e delle Casse edili già ricordato. Un metodo quindi, quella della bilateralità, incentrato sulla costruzione – dal basso – di strumenti utili alla regolazione dei mercati, dinamici e capaci di adattarsi e anzi anticipare le trasformazioni del settore.
 
Gli enti bilaterali istituiti dalle relazioni industriali sono (da sempre) finanziati grazie alle risorse raccolte in misura prevalente dalle imprese e solo in misura ridotta dai lavoratori del settore. Se è vero quindi che l’adozione di un salario minimo legale può portare ad una parziale “fuga” dalla contrattazione, vorrebbe dire – almeno per il settore edile – mettere in crisi un sistema che negli anni ha costruito efficaci strumenti retributivi, previdenziali, formativi, utili alla promozione della salute e sicurezza e al rispetto di norme comuni capaci di garantire la (giusta) concorrenza. Indebolire la contrattazione collettiva può voler dire indebolire anche questi sistemi non solo economicamente (fino a metterne in discussione la stessa esistenza) ma anche nel loro raccordo con gli altri istituti regolati dal CCNL – si pensi, ad esempio, al ruolo centrale svolto dalle Scuole Edili nella formazione degli apprendisti, o al rapporto tra regolarità contributiva e rilascio del DURC.
 
Nessuno mette in dubbio l’importanza di salari giusti e retribuzioni adeguate per tutti i lavoratori. Decisivo sembra però essere anche non ridurre il dibattito ad un confronto tra quanto attualmente proposto dai disegni di legge e i trattamenti economici complessivi stabiliti dai CCNL, come se la scelta tra un sistema piuttosto che un altro si riducesse “a chi paga di più”. La contrattazione collettiva ha creato sistemi, come quelli bilaterali, fondamentali per la competitività e il giusto sviluppo di interi settori. Abbandonarla vorrebbe dire allora rinunciare a questi enti paritetici, in assenza di istituzioni capaci di colmare il vuoto lasciato da essi. Allo stesso tempo, l’attuale dibattito può essere un’occasione anche per le stesse Parti Sociali, soprattutto in settori diversi da quello edile, per riscoprire il loro ruolo al di là della sola determinazione del salario, e in particolare le potenzialità di una bilateralità come metodo per la costruzione di efficaci e innovativi strumenti utili alla competitività e allo sviluppo del lavoro e dei territori da loro rappresentati.
 
Matteo Colombo

ADAPT Senior Research Fellow

@colombo_mat

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