I lavoratori (e le politiche) che mancano all’Italia*

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Bollettino ADAPT 5 giugno 2023, n. 21
 
Le forze lavoro in Italia stanno invecchiando sempre di più. È questo uno degli spunti più interessanti che emergono dalla relazione annuale della Banca d’Italia diffusa negli scorsi giorni. In particolare la relazione analizza il contributo che le diverse fasce d’età hanno avuto nella variazione delle forze lavoro (ossia gli occupati e i disoccupati, non gli inattivi) tra il 2004 e il 2022. L’analisi non si presta ad alcuna interpretazione: complessivamente la variazione positiva del numero delle forze lavoro è determinata unicamente dalla crescita della componente degli ultracinquantenni. Questi crescono di quasi cinque milioni di unità mentre gli under 35 diminuiscono di circa 2,3 milioni e quelli tra i 35 e i 49 di circa 900 mila unità. Se ricordiamo che il numero complessivo degli occupati è di 23 milioni circa è chiaro quanto nell’ultimo ventennio sia cambiata radicalmente la composizione del mercato del lavoro italiano. E Banca d’Italia suggerisce che i prossimi anni vedremo le conseguenze ancor più marcate di questo fenomeno, infatti nel triennio 2019-2022 l’offerta di lavoro è diminuita di oltre 500mila unità, venendo meno nel tempo gli effetti delle riforme pensionistiche (in particolare della Riforma Fornero) che hanno allungato la permanenza nel mercato del lavoro degli over 50.
 
Ma lo scenario verso il quale andiamo incontro è di un processo di costante svuotamento del mercato del lavoro, per capirlo basta immaginare che gli oltre 3 milioni di under 50 in meno accumulati nell’ultimo ventennio si faranno sentire nel momento in cui gli over 50 attuali andranno in pensione. Non solo, il costante svuotamento delle coorti anagrafiche non ancora in età lavorativa farà sì che quando queste si affacceranno sul mercato del lavoro lo faranno a ranghi ridotti rispetto alle generazioni precedenti. Questo non può che porre all’ordine del giorno il tema dell’immigrazione, unica componente che può nel breve e medio periodo risollevare i numeri del mercato del lavoro italiano. Nell’arco temporale tra il 2002 e il 2011 la componente residente straniera aveva compensato il calo di quella italiana tra i 15 e i 64 anni, ma poi questo apporto ha iniziato a diminuire. Uno scenario preoccupante, che rende necessario muoversi su diversi fronti. Il primo è quello di lavorare per aumentare il numero di occupati che resta ancora all’ultimo posto in Europa, con una componente di inattività nel nostro Paese che è ancora di un terzo della popolazione in età da lavoro, un record negativo. Tra questi c’è un 5,6% di persone che non stanno attivamente cercando un lavoro ma che si dichiarano disponibili a lavorare, mostrando quindi l’assenza teorica di carichi familiari o disagi di varia natura che non rendono possibile il lavoro. Sono persone che probabilmente sono impiegate saltuariamente in lavori irregolari e con uno scarso livello di scolarizzazione.
 
Un ulteriore elemento riguarda il tema delle migrazioni e dell’accoglienza, che deve svilupparsi a partire dai fabbisogni territoriali e dei diversi settori ma che non può alimentare logiche da riserva indiana e rischi di neo-schiavismo che altro non fanno che penalizzare, paradossalmente, la riprese complessiva del mercato del lavoro italiano. Infatti in questo modo si creano nicchie di lavoro sottopagato, a volte o spesso irregolare, che impoverisce i mercati lasciando ulteriormente distanti coloro che oggi non hanno un lavoro e potrebbero averlo. Un terzo elemento, che però ha esiti nel lungo termine sul mercato del lavoro, è quello di non accettare come destino inevitabile il declino demografico investendo su ciò su cui è possibile intervenire (consapevoli che le ragioni socio-economiche non sono le uniche che condizionano le scelte riproduttive): servizi per l’infanzia, agevolazione del part-time volontario, riduzione delle differenze salariali.
 
C’è poi l’urgenza di evitare di perdere per strada le professionalità dei giovani, che vanno costruite con strumenti ad hoc come l’apprendistato di primo e terzo livello, che dovrebbero sostituire nel tempo i tirocini il più possibile. Questo potrebbe essere più semplice perché il numero di studenti saranno inferiori e anche per le scuole, sulla carta, a patto che in parte il suo personale venga riqualificato anche a tal fine. Perché è chiaro che non si può chiedere a un professore di fare l’intermediario tra domanda e offerta di lavoro. L’agenda è fitta e le strade alternative sono poche, abbiamo infatti visto come nell’ultimo decennio la tecnologia abbia solo in parte automatizzato il lavoro. Quello che è certo è che ciò che stiamo osservando oggi è solo la punta di un iceberg che emergerà, volenti o nolenti, nei prossimi anni.
 
Francesco Seghezzi
Presidente Fondazione ADAPT

Scuola di alta formazione in Transizioni occupazionali e relazioni di lavoro

@francescoseghezz
 
*pubblicato anche su Domani, 2 giugno 2023

I lavoratori (e le politiche) che mancano all’Italia*