Giusta retribuzione e salario minimo: chi detta l’agenda politica del lavoro?

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Bollettino ADAPT 3 luglio 2023 n. 25

 

L’accordo raggiunto nei giorni scorsi tra i partiti di opposizione, avente per oggetto una proposta di legge condivisa sul salario minimo, ha improvvisamente riacceso un dibattito che si trascina, oramai in modo ripetitivo, da dieci anni. Fu proprio Matteo Renzi, l’unico esponente della opposizione al Governo Meloni che ora si sfila dall’accordo, a prevedere nell’impianto del c.d. Jobs Act l’introduzione, “eventualmente anche in via sperimentale”, di un compenso orario minimo applicabile ai rapporti di lavoro nei settori non regolati dai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative (si veda l’art. 1, comma 7, lett. g, della legge 10 dicembre 2014, n. 183).

 

L’elaborazione progettuale in materia, da allora, è stata ricca e costante. Nel corso della XVIII legislatura sono stati ben dieci i progetti di legge sul salario minimo presentati alla Camera e al Senato. Con la nuova legislatura, come documenta un prezioso dossier del Servizio Studi della Camera, sono già sei i testi in materia depositati e in corso di discussione col contributo di parti sociali ed esperti (qui l’intervento di Silvia Spattini alla Camera per la posizione di ADAPT).

 

È dunque legittimo domandarsi perché una legge sul salario minimo non sia stata approvata in questo lungo lasso di tempo. Ancora più interessante è, tuttavia, domandarsi perché proprio i partiti che avrebbero potuto facilmente dare corso al salario minimo legale, quando in Parlamento avevano i numeri per farlo (si veda l’analisi di Openpolis del 2019), pensino di poter raggiungere oggi questo obiettivo dettando così l’agenda del lavoro a una maggioranza di Governo che si è sempre dichiarata contraria a una legge in materia (vedi il dossier Elezioni 2022: il lavoro nei programmi dei partiti, ADAPT, Materiali di discussione, 6/2022).

 

È stata la stessa Giorgia Meloni a ribadire una ferma opposizione a una legge sul salario minimo intervenendo al recente congresso nazionale della CGIL. Eppure, sussurri che provengono dalle “segrete stanze” dei palazzi romani lasciano intendere qualche fibrillazione tra le file della coalizione di maggioranza. Un po’ come se al Ministero del lavoro vi fossero ancora i Di Maio, le Catalfo e gli Orlando a dettare la linea, forse in ragione del fatto che, in Italia, una questione salariale esiste davvero ed è tema questo capace di aggregare facili consensi nella opinione pubblica e tra gli elettori.

 

Lasciando ad altri, meglio attrezzati di noi, valutazioni sulle dinamiche politiche e parlamentari del nostro Paese resta tuttavia da sottolineare come l’attualità del dibattito sul salario minimo poggi su due elementi che balzano subito agli occhi di chi si occupa di relazioni industriali: per un verso, indubbiamente, i ritardi dei sistemi di contrattazione collettiva a livello nazionale nell’aggredire la questione salariale che, peraltro, non è solo una questione di minimi retributivi e che impone di affrontare il nodo della produttività (ho cercato di documentare questo assunto in M. Tiraboschi, Tra due crisi: tendenze di un decennio di contrattazione collettiva, in DRI, 2020); per l’altro verso l’illusione della politica, o quantomeno di parte di essa, di poter risolvere una volta per tutte la questione dei bassi salari e del lavoro povero attraverso la fissazione di una tariffa di legge come se l’esperienza comparata non fosse sufficiente a dimostrare l’inesistenza di una correlazione tra disciplina legale e adeguatezza dei salari (vedi, sul punto, anche i lavori preparatori della direttiva europea sul salario adeguato che segnalavano, nel 2018, come in ben nove Stati membri il salario minimo legale non costituisse, per il singolo lavoratore che lo percepiva, un reddito sufficiente a superare la soglia di rischio di povertà). Questo a maggior ragione in un Paese come il nostro dove, al di là di generiche analisi sui valori mediani, ancora poco sappiamo in concreto e nel dettaglio delle retribuzioni degli italiani rispetto alle quali a incidere in negativo sono fattori quali lo status contrattuale, la continuità occupazionale, il numero di ore effettivamente lavorate, l’intermittenza della prestazione e il lavoro irregolare (vedi F. Lombardo, M. Tiraboschi, Le retribuzioni degli italiani: cosa davvero sappiamo?, in Bollettino ADAPT 13 giugno 2023 n. 22).

 

Conoscendo le dinamiche del dibattito pubblico italiano discuteremo ancora a lungo (nei prossimi dieci anni?) del salario minimo legale: della adeguatezza o meno di una tariffa oraria di nove euro (che, nelle bozze in circolazione della proposta in commento, sono nove euro lorde comprensiva del minimo tabellare, degli scatti di anzianità, delle mensilità aggiuntive e delle indennità contrattuali fisse e continuative!) e del rischio di una fuga complessiva da parte delle aziende italiane dai sistemi di rappresentanza e di contrattazione collettiva potendo comodamente attestarsi, ogni datore di lavoro, sul salario sul minimo legale e su pattuizioni ad personam.

 

Resta tuttavia forte l’impressione che non sia chiaro, spesso neppure tra gli addetti ai lavori, cosa esattamente vi sia in gioco nella scelta di intervenire o meno in materia con una previsione di legge e che pure si dovrebbe intuire dall’atteggiamento, istintivamente negativo, di tutti gli attori della rappresentanza, a partire da quelli più rappresentativi, verso una misura legislativa che pure viene presentata come promozionale della loro azione contrattuale (come ADAPT ne abbiamo discusso ampiamente e mi limito a rinviare alla raccolta di contributi curata da E. Massagli, D. Porcheddu, S. Spattini, Una legge sul salario minimo per l’Italia? Riflessioni e analisi dopo la diettiva europea, Materiali di discussione, 5/2022 e al nostro commento sull’impatto della direttiva europea sul nostro sistema di relazioni industriali).

 

È bene allora ricordare, seppure in estrema sintesi e col rischio di banalizzare questioni altamente complesse, come la questione del salario minimo per legge non sia affatto recente e sorga anzi con la nascita stessa del sistema di produzione capitalistico (per una efficace analisi delle origini del problema vedi M. Roccella, I salari, il Mulino, 1986, spec. p. 22 e ss.). L’istanza di una legge sulle tariffe minime fu inizialmente nelle mani del sindacalismo di matrice marxista nella convinzione che essa rappresentasse l’anello di congiunzione tra l’azione sindacale e l’azione politica della classe operaia. Furono però i coniugi Webb, nel loro celebre studio di fine Ottocento sulla democrazia industriale, a fornire una lettura “produttivistica” del salario minimo legale come equivalente (e non antagonista) della contrattazione collettiva e cioè, più precisamente, come sostegno generalizzato alla azione del sindacato nella fissazione di uno standard comune (la c.d. common rule) di tutela del lavoro ma anche di regolazione della concorrenza rispetto all’impiego del fattore lavoro.

 

Ora, anche tralasciando la circostanza che il vero nodo rispetto alla questione salariale sta oggi nella difficoltà degli attori del nostro sistema di relazioni di industriali di passare da un sistema di misurazione del valore economico di scambio del lavoro incentrato sulla ora-lavoro ad un nuovo sistema basato sulla professionalità e sull’apporto (anche) individuale del singolo prestatore di lavoro (ne ho parlato in M. Tiraboschi, Tra due crisi: tendenze di un decennio di contrattazione collettiva, in DRI, 2020, § 7), mi pare evidente che sul tema del salario minimo legale persista un grosso equivoco di fondo già bene sottolineato dai uno dei massimi studiosi di relazioni industriali come Allan Flanders rispetto alla ricostruzione “produttivistica” dei coniugi Webb del fenomeno contrattazione collettiva. E cioè che la contrattazione collettiva sia a intendersi come un mero equivalente funzionale di una contrattazione individuale e non invece una più ampia istituzione economica e “politica” che in poco più di un secolo di storia giuridica si è assunta il compito di costruire e far funzionare i moderni mercati del lavoro coniugando le ragioni della produzione e della produttività con quelle della redistribuzione del valore e della tenuta sociale del sistema di produzione capitalistico (per un approfondimento rinvio a M. Tiraboschi, Sulla funzione (e sull’avvenire) del contratto collettivo di lavoro, in DRI, 2022, qui p. 791).
 

Come giustamente scriveva Ezio Tarantelli, in una lezione purtroppo oggi dimenticata, “un sistema di relazioni industriali è un sistema complesso di regole non un sistema di regolamentazione del salario. Il volerlo ridurre a un sistema di regolamentazione del salario, denuncia una comprensione solo parcellare di un sistema socio-politico ben più complesso” (E. Tarantelli, Il ruolo economico del sindacato, Laterza, 1978, pp. 80-81).

 

Sul salario minimo legale il nodo “politico” della questione è tutto qui e persistere nella ricerca di una soluzione legislativa significa non aver compreso le ragioni più profonde e ancora attuali di quello che lo stesso Tarantelli aveva definito nei termini di un vero e proprio sfascio del nostro sistema di relazioni industriali. Salvo ovviamente non coltivare più o meno consapevolmente, in una situazione oggi ben più degradata di quella che descriveva Tarantelli, il disegno di una sostanziale marginalizzazione dei corpi intermedi che, indubbiamente, non hanno fatto molto per cercare di ritornare al centro dei processi economici e sociali. Oppure, come forse si illude una parte del sindacato, usare la “questione salariale” non per risolvere i problemi di lavoratori e imprese ma per una sorta di regolamento di conti finale attraverso quella misurazione per legge della rappresentanza che dovrebbe magicamente consentire di superare le “difficoltà” di un sistema libero e plurale di relazioni industriali. Un sistema dove la “norma fondante” resta ancora oggi il reciproco riconoscimento di rappresentatività e con essa l’esclusione della intrusione dello Stato e della magistratura nei sempre più frequenti conflitti di giurisdizione intersindacale.

 

La verità è che, nel medio periodo, i salari reali degli italiani si possono alzare soltanto aumentando la produttività, evitando ovviamente che il valore aggiunto venga trasferito altrove. A conferma che il problema e la possibile soluzione della questione salariale è tutta nelle mani degli attori del nostro sistema di relazioni industriali e non certo della politica (vedi R. Brunetta, M. Tiraboschi, Salari e nuova questione sociale: la via maestra delle relazioni industriali, ADAPT, Working Paper, 4/2022). Quella politica che, tanto a destra quanto a sinistra, ha in questi anni protetto e anche sostenuto in vario modo non pochi tra quegli attori sindacali poco o nulla rappresentativi che concorrono a sottoscrivere quei contratti che, secondo il gergo sindacale, abbiamo imparato a chiamare “pirata”. Contratti che, per quanto numerosi e indicati in audizione in Parlamento come il problema dei problemi (vedi Tito Boeri, per esempio), restano comunque ampiamente marginali nella prassi del nostro sistema di relazioni industriali se è vero, come indicato dai flussi Uniemens, che ben il 97 per cento dei contratti collettivi nazionali di lavoro oggi applicati ai lavoratori italiani sono firmati da CGIL-CISL-UIL (vedi S. Spattini, M. Tiraboschi, Questione salariale: guardare la luna, non il dito. A proposito di dinamiche retributive, salario minimo e dei presunti 1.000 contratti collettivi nazionali di lavoro, in Bollettino ADAPT, 2022, n. 18).

 

Pare difficile, in conclusione del nostro breve ragionamento, che l’attuale opposizione possa dettare l’agenda alla maggioranza di Governo. Ma risulta al tempo stesso sempre più problematico, anche per i pochi estimatori delle relazioni industriali (vuoi come ambito di studio vuoi come metodo pragmatico per la soluzione dei problemi del lavoro), continuare a difendere le buone ragioni di una rappresentanza e di una contrattazione collettiva che faticano a tornare ad essere i veri protagonisti delle dinamiche della domanda e della offerta di lavoro in mercati che non sono più quelli del secolo scorso e che nondimeno hanno ancora fortemente bisogno di “intermediari” e cioè di istituzioni capaci di coniugare e comporre in termini “politici” l’economico col sociale.

 

Michele Tiraboschi

Università di Modena e Reggio Emilia

Coordinatore scientifico ADAPT

@MicheTiraboschi

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