Fondi interprofessionali e politiche attive: marcia indietro del Governo, brusca frenata del Consiglio di Stato

Il Decreto legislativo n. 150 del 2015, nel definire obiettivi, funzioni e funzionamento della rete nazionale dei servizi per il lavoro, include i Fondi Interprofessionali per la formazione continua (FPI) nel novero dei soggetti che ne faranno parte e prefigura importanti novità. Rispetto allo “Schema di decreto legislativo recante disposizioni per il riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e politiche attive” precedentemente commentato in questa sede, tuttavia, si rilevano importanti cambiamenti, volti a ridimensionare la portata delle novità introdotte in direzione di una minore pervasività del controllo pubblico sull’azione dei Fondi. Cambiamenti, tuttavia, che non sembrano mutare la sostanza delle cose, a maggior ragione alla luce di una quasi contemporanea sentenza del Consiglio di Stato che va proprio nella direzione originariamente intrapresa con lo Schema di decreto, imponendo una brusca frenata alla marcia indietro fatta dal Governo sul terreno dell’autonomia dei Fondi.

 

La delusione per una soluzione che pare volta a “non scontentare, piuttosto che aprire la strada ad un vero cambiamento”, è ben esemplificata dalla posizione del Presidente Nazionale Federformazione (Federazione italiana degli Organismi di Formazione e Orientamento) a cui si rimanda, che giustamente segnala come le disposizioni del decreto vadano in netta contrapposizione con la quasi contemporanea sentenza del Consiglio di Stato, senza d’altra parte valorizzare adeguatamente le potenzialità del sistema dei Fondi che rimane comunque compresso in nuovo assetto a forte regia pubblica.

 

Lo “Schema di decreto legislativo recante disposizioni per il riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e politiche attive” (per un commento si rimanda a L. Casano, Jobs Act e Fondi Paritetici Interprofessionali per la formazione continua, in Bollettino ADAPT, n. 25/2015) all’art. 15, comma 4, stabiliva il divieto, per i FPI, di finanziare interventi erogati da enti non accreditati all’albo nazionale. Tale divieto ha da subito destato forti preoccupazioni, in quanto avrebbe rappresentato elemento di rigidità del sistema, poiché la maggior parte dei FPI ritiene strategica la possibilità di costruire elenchi controllati di providers o di lasciare ampio margine alle imprese nella scelta degli enti attuatori.

Sempre l’art. 15 dello Schema di decreto, al comma 2, laddove prevedeva precisi obblighi di informazione a carico dei soggetti che beneficiano di contributi pubblici per la formazione, includeva esplicitamente in tale categoria i FPI e i Fondi bilaterali di cui all’art. 12 del d.lgs. n. 276/2003, riaprendo il dibattito ormai annoso circa la natura (pubblicistica o privatistica) delle risorse essi gestite. Anche tale previsione è scomparsa nel testo definitivo a seguito delle forti polemiche sollevatesi, ma non si può certamente sostenere che ciò abbia definitivamente posto fine alla querelle, che è stata ricostruita in un precedente commento a cui si rimanda.

I dubbi sembrerebbero ad ogni modo definitivamente fugati dalla recente sentenza del Consiglio di Stato n. 01923/2015, sul ricorso proposto da una società di formazione contro il FPI Fondimpresa. L’ente di formazione ha impugnato la sentenza con la quale la Sezione III bis del Tribunale amministrativo regionale del Lazio ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo sul ricorso proposto dallo stesso ente per l’annullamento della nota di Fondimpresa del 30 maggio 2014 che comunicava la non finanziabilità del piano da esso presentato.

 

Il Consiglio di Stato ha dichiarato la giurisdizione del giudice amministrativo contestando le argomentazioni del Tar e in particolare affermando che:

– non persuade l’affermazione svolta in sentenza secondo la quale l’attività dei FPI sarebbe solo in via indiretta rivolta alla tutela di un interesse generale, perché la promozione dello sviluppo e della formazione professionale continua (finalità dei FPI) attiene in via diretta alla cura di un interesse generale al più alto livello;

la natura privatistica dei fondi non vale a mutare la natura degli interessi affidati alla loro cura ed è tutt’altro che inconciliabile con la devoluzione per legge a essi di funzioni e di compiti di rilevanza pubblicistica;

il fatto che i contributi rappresentino una prestazione patrimoniale imposta ai sensi dell’art. 23 Cost. costituisce elemento idoneo ad avvalorare la natura pubblicistica dei contributi che affluiscono ai fondi;

– per una percentuale significativa di contributi versati all’INPS e gestiti dai FPI, l’assegnazione delle risorse avviene non mediante una meccanica redistribuzione alle imprese aderenti di quanto versato, ma sulla base di una valutazione nel merito di proposte d’interventi formativi, sicché le risorse non restano regolate dall’autonomia privata.

 

Recita inoltre la sentenza del Consiglio di Stato: «Ad avviso del Collegio il carattere oggettivamente incisivo e penetrante dei poteri ministeriali corrobora la funzionalizzazione dell’attività svolta – e quindi anche delle procedure seguite – dai fondi paritetici in relazione all’interesse pubblico».

Il prudenziale passo indietro fatto dal Governo nel modificare l’art. 15 dello Schema di decreto (eliminando i riferimenti ai FPI ed ai Fondi ex art. 12 del d.lgs. n. 276/2003 dal novero degli enti gestori di risorse pubbliche e sottraendo gli enti attuatori degli interventi da essi finanziati dall’obbligo di accredita-mento secondo criteri stabiliti a livello nazionale) appare ora incoerente con tali indirizzi, laddove le disposizioni contenute originariamente nello schema di decreto andavano esattamente nella direzione della sentenza del Consiglio di Stato.

Il “vecchio” art. 15, includendo tout court «i finanziamenti da parte dei fondi interprofessionali e dei Fondi bilaterali ex art. 12 d.lgs. n. 276/2003» nella categoria dei contributi pubblici per la formazione, aveva infatti il chiaro obiettivo di attirare nell’orbita di controllo dell’attore pubblico le risorse gestite dai FPI, in aggiunta all’affermazione di un effettivo potere di indirizzo, controllo e vigilanza da parte del Ministero.

 

Non sembra, ad ogni modo, che il cambio di rotta impresso con la modifica dell’art. 15 basti a ritenere meno incisivo l’intervento del Legislatore, considerato, appunto, il carattere oggettivamente incisivo e penetrante dei poteri ministeriali.

A sostegno di tale ipotesi, il ruolo effettivamente assegnato ai FPI dal decreto, che sostanzialmente lega, come nei migliori auspici, la loro azione a quella dei servizi pubblici per l’impiego, laddove i FPI sono chiamati a contribuire anche al rafforzamento dei meccanismi di condizionalità nelle prestazioni relative ai beneficiari di sostegno al reddito in costanza di rapporto di lavoro. L’art. 22, comma 2 prevede, infatti, che allo scopo di mantenere o sviluppare le competenze in vista della conclusione della procedura di sospensione o riduzione dell’attività lavorativa, ed in connessione con la domanda di lavoro espressa dal territorio, il patto di servizio personalizzato possa essere stipulato sentito il datore di lavoro e con “l’eventuale concorso” dei FPI per la formazione continua di cui all’articolo 118 della legge n. 388 del 2000.

 

Analoga partita, probabilmente, dovrà giocarsi sul campo dei Fondi bilaterali ex art. 12 del d.lgs. n. 276/2003, istituiti per il finanziamento della formazione dei lavoratori in somministrazione, in particolare il Fondo FORMA.TEMP. Le disposizioni del d.lgs. n. 150/2015 e la contemporanea pronuncia del Consiglio di Stato sembrano, infatti, offrire elementi sufficienti per porre la questione della possibile estensione a tali Fondi delle considerazioni espresse con riferimento ai FPI.

 

Tale pericolo è stato prontamente avvertito da Assolavoro, l’Associazione nazionale delle Agenzie per il Lavoro, Cgil, Cisl e Uil, che in un documento congiunto rivolto al governo l’estate scorsa, in merito alle disposizioni dello Schema di decreto legislativo in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive e dello Schema di decreto legislativo sul riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali, avevano segnalato la necessità di rivedere le disposizioni riguardanti FORMA.TEMP.

 

In tale documento le organizzazioni segnalavano che, negli schemi di decreto, FORMA.TEMP veniva impropriamente equiparato ai Fondi Interprofessionali istituiti ai sensi dell’articolo 118 della legge n. 388/2000, mentre esso svolge una pluralità di compiti, aggiuntivi alla formazione. Inoltre, la previsione dell’invio anticipato di un mese dei dati sugli iscritti alle attività formativa avrebbe rappresentato un vincolo incompatibile con l’attività specifica del Fondo. Da qui la richiesta di istituire un tavolo di confronto e di eliminare le disposizioni riguardanti FORMA.TEMP dal testo del decreto.

 

Tale ripensamento in effetti c’è stato, ma è ad oggi in controtendenza rispetto alla contemporanea pronuncia del Consiglio di Stato, che peraltro, nel pronunciarsi sulla natura delle risorse gestite dai FPI definendole pubbliche, attribuisce grande peso a criteri quali la funzionalizzazione delle attività dei fondi all’interesse pubblico e il controllo sostanziale esercitato dal Ministero del lavoro, tutt’altro che scomparsi dal testo del d.lgs. n. 150/2015.

 

 

Lilli Casano

ADAPT Research Fellow

@lillicasano

 

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