Fiscal Compact e mercato del lavoro

Partecipare alla creazione dell’Unione Europea ha comportato la centralizzazione e quindi la cessione di ampi settori della sovranità nazionale. Il mercato del lavoro ne è stato interessato in maniera diretta e sostanziale, in particolare sulle norme relative a circolazione e garanzie dei lavoratori, non in tali direttive tuttavia sono contenuti i principi di origine sovranazionale che hanno influenzato maggiormente le riforme giuslavoristiche di ultima generazione.

Gli stessi sono da ricercare nell’evoluzione della normativa di ambito economico dell’Unione. Dal Patto di Stabilità e Crescita, al two e six pack per approdare al Fiscal Compact ed al Meccanismo Europeo di Stabilità, pur nel differenziarsi dei provvedimenti e della fonte normativa scelta, il piano a lungo termine si delinea chiaramente: far permanere le politiche economiche nella sfera della sovranità nazionale, limitandone la discrezionalità.

In particolare il Fiscal Compact (il trattato di ultima generazione tra quelli citati) ha ristretto lo spettro di possibilità relative alle scelte del bilancio nazionale. Secondo l’art. 3 del trattato il bilancio deve essere in pareggio o avanzo e il rapporto debito PIL (se superiore al 60%) deve essere ridotto di 1/20 per anno. Nel caso dell’Italia si tratta di una cifra totale vicina ai 1100 miliardi di euro per una somma annuale sottratta alle disponibilità di bilancio di circa 55 miliardi (istat.it/conti-nazionali). Appare chiaro come gli spazi di manovra siano limitatissimi.

Questo, nella necessità dei vari governi di reperire risorse, ha comportato due conseguenze tra loro collegate per il mondo del lavoro: – La subordinazione delle riforme giuslavoristiche al rispetto degli Obiettivi di Medio Termine (obiettivi che ogni singolo stato si impegna a rispettare annualmente al fine di raggiungere i risultati relativi al deficit ed al debito sanciti dal Fiscal Compact), – La traslazione di parte del potere decisionale in tema di Contrattazione Nazionale e riforme legate al mondo del lavoro dal governo nazionale alle istituzioni europee individuate dai suddetti trattati.

 

Gli strumenti giuridici e politici in mano alla governance economica europea infatti, impersonata dalla Commissione, Consiglio Europeo e BCE, a garanzia dell’enforcement delle norme contenute nei trattati, possono essere racchiusi in tre grandi insiemi: monitoraggio, prevenzione e correzione (degli elementi problematici riscontrati).

Il complesso di queste tre fasi ha assunto dalla crisi economica in avanti una rigida calendarizzazione denominata appunto Semestre Europeo, inserito nella legislazione europea dal cosiddetto six pack ed implementato dai trattati in oggetto. Nella fase iniziale dell’anno prevede l’analisi delle riforme ipotizzate da parte della Commissione, il rinvio delle stesse con eventuali correzioni ai parlamenti nazionali per l’approvazione ed infine il controllo sulla loro effettività. Nel caso non siano rispettate le annotazioni della Commissione vi è l’attivazione di una procedura di sanzione denominata “procedura per disavanzi eccessivi”.

Nella calendarizzazione annuale così serrata, nello stabilire soglie ed indicatori valenti per tutti gli stati europei indistintamente, nel ricercare il raggiungimento di obiettivi economici senza analizzare le ricadute sociali degli stessi, si debbono osservare le storture del sistema costruito dalla governance economica europea di ultima generazione. Particolarmente nel diritto del lavoro laddove oltre a toccare elementi di grande sensibilità per il cittadino si necessità di valutazioni a lungo termine svincolate da ottiche contingenti di contenimento della spesa.

 

L’Italia e il suo approccio a tale normativa può essere di grande aiuto per la comprensione della portata di quanto affermato sopra, essa infatti figura in entrambi i trattati e si distingue per l’entusiasmo della normativa di attuazione che coinvolge persino la norma costituzionale nella riformulazione dell’art. 81.

Nell’ambito giuslavoristico principale interprete del rigore richiesto dai nuovi trattati risulta essere la l. delega n. 183/2014 chiamata Jobs act ed esprimente il senso della teoria economica neoliberista alla base del Fiscal Compact nella sua pienezza. Diminuire l’enfasi sulla protezione del lavoro per fluidificare il mercato ed attrarre investimenti, andando a toccare: ammortizzatori sociali; servizi per il lavoro e politiche attive; procedure di costituzione e gestione dei rapporti di lavoro, igiene e sicurezza sul lavoro; forme contrattuali e maternità.

Si vuole qui rilevare come indipendentemente dalla teoria economica sottesa alla norma una riformulazione delle forme e modalità contrattuali non possa da sola, in un periodo di crisi economica, fungere da stimolo all’economia senza un’implementazione delle garanzie connesse agli ammortizzatori sociali ed un piano generale di politiche attive, e come anzi senza di esse tali modifiche possano risultare deleterie per l’inserimento lavorativo dei cosiddetti outsider.

Lo stesso Jobs act di fatto non è che l’ultima vestigia della subordinazione delle politiche del lavoro ad esigenze economiche. Si ricordi che nel pieno della crisi economica ed all’interno delle contrattazioni che avrebbero portato di lì a poco alla stipula del Fiscal Compact, il governo Monti decise di emanare un decreto legge chiamato evocativamente “salva Italia”, proprio relativo alla riforma del sistema pensionistico (ed alla riduzione delle voci di bilancio ad esso corrispondenti).

Se si analizzano del resto le leggi di bilancio afferenti il 2015 e 2016 troviamo a fronte di una spesa pubblica mantenutasi tra il 47 ed il 49 % del PIL, una diminuzione della spesa per investimenti di oltre 30 punti percentuali (si veda il sito della Ragioneria dello stato) relativi in misura consistente al welfare state.

 

Tale modalità di gestione della politica finanziaria dello Stato confermandosi, come elemento sistemico, risulta deleteria per le finanze pubbliche. Con essa invero si vanificano gli sforzi di contenimento della spesa operate al fine della riduzione del debito pubblico. Contenimento al cui fine si sono sacrificati quegli interventi sistemici, di stimolo al mondo del lavoro e dell’economia nel suo complesso. Autoevidente il circolo vizioso creatosi, che non partecipa né della positività della discrezionalità agli attori nazionali, né degli ipotetici vantaggi derivanti dalla stabilizzazione economica conseguente ad una politica di austerità effettiva.

I risultati sono resi tristemente noti dai dati dell’ISTAT che presentano una disoccupazione giovanile attestantesi negli ultimi anni tra il 35 e il 40% (https://www.istat.it/it/lavoro-e-retribuzioni) e che non si discostano dall’1% neppur sul lato della crescita in controtendenza con l’evoluzione della crisi europea.

 

In conclusione: le scelte di ordine economico e giuridico imbrigliate in normative slegate da valutazioni ad hoc ed a lungo termine, hanno determinato (e continueranno a determinare) politiche nazionali contrarie ad investimenti di stimolo all’economia ed al mercato del lavoro, significando, a fronte dell’assenza di una sostanziale diminuzione del debito pubblico, da un lato la mancanza di risorse derivanti dal difetto a lungo termine degli investimenti non operati, dall’altro la sottrazione di risorse conseguente alla presenza durevole del debito.

Elementi che pongono le basi per una reiterazione ciclica della crisi attuale e che rendono inefficaci le riforme giuslavoristiche di stimolo all’occupazione.

 

Damiano Censi

ADAPT Junior Fellow

@damiano_censi

 

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