Distacco comunitario. La lunga marcia verso la modifica della Direttiva 96/71/CE

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Il 23 ottobre scorso, in occasione della riunione del Consiglio EPCSO (Occupazione, politica sociale, salute e consumatori), i Ministri del Lavoro e degli Affari Sociali degli Stati Membri sono pervenuti ad un accordo in merito alla proposta di modifica della Direttiva 96/71/CE sul distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi, avanzata dalla Commissione europea l’8 marzo 2016, sulla base di quanto annunciato nelle Linee guida politiche e nel Programma di lavoro del 2016.

 

L’accordo del 23 ottobre, raggiunto dopo l’esito negativo di un primo tentativo risalente al mese di giugno, consente, a questo punto dell’iter legislativo ordinario, l’avvio delle negoziazioni con il Parlamento europeo. Tale risultato costituisce un importante tassello del controverso processo di modifica della normativa comunitaria sul distacco transnazionale, che, sin dalle sue origini, risiede al centro di un dibattito acceso, di natura politica, tra i governi degli Stati Membri dell’Unione europea e le parti sociali.  

 

La proposta della Commissione ha, infatti, innescato una netta contrapposizione di vedute, polarizzate sull’idea, da un lato, della superfluità dell’intervento comunitario e della necessità di un’implementazione, a livello nazionale, delle misure già esistenti; dall’altro, sulla convinzione dell’inevitabilità di un adattamento della normativa vigente rispetto alle esigenze di tutela espresse da un quadro di relazioni economiche profondamente mutato.

 

La prima tesi, sostenuta, peraltro, da alcune associazioni di rappresentanza europee, come Business Europe, (l’allora) Eurociett, FIEC e EFBWW, trova una concreta declinazione nella scelta di undici Paesi, principalmente dell’est Europa (Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Ungheria, Lituania, Lettonia, Polonia, Romania e Slovacchia), di attivare la procedura di cui all’art. 7 del Protocollo n. 2 allegato ai Trattati (cd. yellow card procedures).

 

Tale disposizione consente ai Parlamenti nazionali di opporsi ad una proposta legislativa entro otto giorni dalla sua pubblicazione, se ritenuta non necessaria per il raggiungimento delle finalità perseguite e, raggiunto 1/3 dei voti complessivamente assegnati a ciascun Stato, di imporre alla Commissione il riesame della proposta. Valutata la conformità di quest’ultima rispetto al principio di sussidiarietà ex art. 5 TUE, la Commissione potrà, infine, decidere, sulla base di un parere motivato, se lasciarla inalterata, ritirarla o modificarne il contenuto originario.

 

Nel caso di specie, il 20 luglio 2016 la Commissione, ribadendo la conformità della proposta con il principio di sussidiarietà, vista la natura transnazionale della fattispecie ivi regolata e la conseguente esigenza di evitare una frammentazione normativa nel mercato interno, accoglieva la posizione sostenuta, oltre che dall’Etuc, dai governi di alcuni Stati Membri, segnatamente Francia, Austria, Belgio, Germania, Lussemburgo, Paesi Bassi e Svezia, intervenuti con una lettera congiunta a difesa del principio di parità di trattamento (“equal pay for equal work”).

 

L’interesse verso la prospettiva di una ri-regolazione della materia non deriva, invero, dalla significatività del fenomeno sul piano quantitativo. I dati disponibili, risalenti al 2014, rivelano, infatti, una disomogeneità tra i settori produttivi e sul territorio europeo delle situazioni di distacco transnazionale dei lavoratori comunitari, intese complessivamente, secondo la definizione della fattispecie di cui all’art. 1 della Direttiva 96/71/CE (si veda la relazione di accompagnamento alla proposta di modifica relativa alla valutazione di impatto).

 

La nozione comprende, in particolare, quei fenomeni interpositori di manodopera, ove il soggetto fruitore della prestazione – distaccatario – si differenzia dal datore di lavoro formale – distaccante – e opera in uno stato diverso da quello in cui ha sede il secondo. La fattispecie si realizza nelle seguenti ipotesi: a) distacco del lavoratore nel territorio di uno Stato Membro, nell’ambito di un contratto concluso tra l’impresa che lo invia e il destinatario della prestazione di servizi operante in tale paese, purché durante il periodo del distacco permanga il rapporto lavorativo tra la prima e il lavoratore distaccato; b) distacco, nel territorio di uno Stato Membro, in uno stabilimento o in un’impresa appartenente al gruppo della distaccante; c) distacco, da parte di un’agenzia di somministrazione, presso un’impresa utilizzatrice avente sede o un centro di attività in un diverso Stato Membro.

 

Ora, è vero, da un lato, che si è assistito ad un aumento, nell’arco di quattro anni a partire dal 2010, del 44,4% del numero dei lavoratori distaccati in Europa, soprattutto nei settori labour intensive, quale quello dell’edilizia, seguito dal settore manifatturiero e dei servizi alla persona, con un totale complessivo di 1,92 milioni di lavoratori distaccati sul territorio comunitario nel 2014. Tuttavia, tali numeri rappresentano solo lo 0,7 della forza lavoro impiegata in Europa, con una maggiore concentrazione solo in alcuni Paesi, quali la Germania, seguita da Francia e Belgio, come principali Paesi di destinazione, e la Polonia quale primo Paese di invio.

 

A spiegare la complessità dell’iter di revisione della direttiva sul distacco intracomunitario è, piuttosto, la natura degli interessi coinvolti, che emerge con chiarezza dalle motivazioni addotte dagli Stati contrari nell’ambito della procedura di cui al Protocollo n. 2. Ad avviso di questi ultimi, infatti, l’estensione generalizzata a tutte le ipotesi di distacco transnazionale del principio di parità di trattamento dei lavoratori distaccati rispetto a quelli del Paese ospitante, come prefigurata dalla proposta della Commissione, oltre a sottrarre agli Stati Membri la prerogativa di determinare le condizioni lavorative dei lavoratori somministrati, preservata dalla Direttiva 2008/104/CE, avrebbe inciso negativamente sulla propria capacità competitiva.

 

Il tema centrale rispetto alla modifica della direttiva 96/71/CE si ricollega, dunque, al divario esistente tra i sistemi giuslavoristici nazionali in Europa, sotto il profilo del trattamento retributivo e normativo dei lavoratori, che solleva l’esigenza di ricercare un equilibrio tra diverse istanze di tutela: da un lato, l’obiettivo di assicurare sia la protezione dei lavoratori distaccati sia la competitività delle aziende, al riparo da fenomeni di dumping sociale, ma nel contempo evitando restrizioni alla libera circolazione dei servizi.

 

La necessità di un contemperamento tra tali interessi si trova nel cuore della Direttiva del ‘96, già nella sua impostazione originaria, fortemente ancorata, nelle premesse, alla garanzia di un corretto e trasparente funzionamento del mercato interno. A tale scopo, la normativa comunitaria devolve un corpus di principi minimi, tra cui l’obbligo che siano garantite al lavoratore distaccato condizioni di lavoro e di occupazione pari a quelle fissate dalle legislazioni nazionali e dai contratti collettivi applicati nello Stato membro ospitante, con possibilità, peraltro, di introdurre delle deroghe a determinate condizioni. In quest’ottica, rimanevano, pertanto, preservati ampi margini di discrezionalità degli Stati Membri in fase attuativa, nel rispetto delle prassi e dei sistemi normativi e di relazioni industriali esistenti a livello nazionale.

 

Nel 2014, inoltre, il legislatore comunitario interveniva nuovamente con la finalità di contrasto a pratiche abusive, come la nascita di società di comodo in qualità di imprese distaccanti (cd. letterbox companies), fittiziamente stabilite nei Paesi caratterizzati da sistemi normativi più vantaggiosi sotto il profilo, in particolare, del trattamento economico complessivo riconosciuto ai lavoratori. La Direttiva 2014/67/UE, pertanto, si propone(va) di implementare, in linea con le disposizioni già contenute nella direttiva 96/71/CE, le misure per favorire la cooperazione tra le amministrazioni pubbliche nazionali preposte alla vigilanza sulle condizioni di lavoro dei distaccati, anche attraverso lo scambio di informazioni in merito ai casi di cessione transnazionale di lavoratori, in modo da validare la genuinità dell’operazione.

 

Ora, la proposta di modifica recentemente presentata dalla Commissione europea non si sovrappone all’ambito di operatività della Direttiva 2014/67/UE, ma si prefigge di integrarne i contenuti con una finalità ben più ambiziosa, quella di incidere sui principi sostanziali stabiliti nel 1996 e non toccati nel 2014. Infatti, come si evince dalla relazione di accompagnamento relativa alla valutazione di impatto, la proposta mira ad introdurre dei correttivi rispetto ad alcune questioni interpretative concernenti la direttiva, come la nozione di tariffe salariali minime e la natura temporanea del distacco, da cui è discesa la stratificazione di regimi differenti a livello nazionale e la conseguente diffusione di fenomeni di dumping sociale.

 

Sulla base di tali premesse, la proposta di revisione si dirige in chiave restrittiva della discrezionalità degli Stati Membri, propendendo, in sede di bilanciamento tra interessi contrapposti, per il (parziale) sacrificio della libertà di circolazione dei servizi in favore della tutela rafforzata del lavoratore distaccato e del principio di concorrenza leale tra le imprese nel mercato comunitario. A tale scopo, la Commissione ha proposto le seguenti modifiche alla Direttiva: l’estensione del principio di parità di trattamento a tutte le ipotesi di distacco transnazionale, la definizione del trattamento economico riconosciuto al lavoratore distaccato, nonché l’introduzione di un periodo massimo di distacco, superato il quale il rapporto di lavoro rientra nell’ambito applicativo della normativa lavoristica vigente nel Paese di destinazione.

La versione scaturita dalle modifiche apportate dal Consiglio il 24 ottobre scorso conferma l’opzione restrittiva della proposta nella sua versione originaria, peraltro rafforzandola, sebbene con la previsione di alcuni contrappesi.

 

In quest’ottica, trova conferma l’introduzione di un periodo massimo di distacco, ridotto, rispetto alla proposta elaborata dalla Commissione, da 24 a 12 mesi, ma con la possibilità, per il Paese di destinazione, di elevare tale limite a 18 sulla base di una richiesta motivata dell’impresa distaccante. La versione originaria stabiliva, inoltre, che, qualora la durata del distacco, prevista o effettiva, fosse risultata superiore, il Paese di destinazione avrebbe dovuto considerarsi quello di svolgimento abituale della prestazione da parte del lavoratore.

 

Tale previsione, tuttavia, comportando la totale equiparazione del rapporto lavorativo intercorrente con il lavoratore distaccato a quelli instaurati nel Paese ospitante, sarebbe stata foriera di molteplici problematiche interpretative e applicative, considerata l’eterogeneità dei sistemi giuslavoristici esistenti a livello nazionale. Il testo approvato dal Consiglio prefigura, dunque, una soluzione più equilibrata, che contempla, in caso di superamento del limite temporale, non più una diversa configurazione della posizione soggettiva del lavoratore distaccato, ma la mera operatività della normativa lavoristica del Paese di destinazione, nella sua interezza – oltre, quindi, alle sole condizioni di cui all’art. 3, comma 1 della direttiva 96/71/CE -, escluse le disposizioni in materia di recesso e cessazione del rapporto di lavoro, e in materia pensionistica.

 

Inoltre, la diversa formulazione del testo definitivo, in cui viene meno il riferimento alla “durata prevista”, suggerisce che si debba tener conto, a tali fini, della sola durata effettiva del distacco, a prescindere, quindi, da quanto eventualmente contemplato, sul piano formale, nel contratto tra le parti.

 

Nella durata del distacco, dovrebbero computarsi, altresì, i periodi di svolgimento della prestazione dei lavoratori distaccati in sostituzione di lavoratori precedentemente impiegati, in regime di distacco, per l’esecuzione della medesima mansione nello stesso posto di lavoro, a prescindere dalla durata del distacco – mentre la proposta originaria attribuiva rilevanza ai periodi di sostituzione pari ad almeno 6 mesi. La definizione della “stessa mansione nel medesimo luogo di lavoro”, rilevante ai fini dell’operatività della regola del cumulo, viene rimessa alla discrezionalità degli Stati Membri, con la previsione esemplificativa di alcuni indici, come la natura del servizio e la tipologia dell’attività lavorativa.

 

Le condizioni e i termini di lavoro riconosciuti ai lavoratori distaccati vengono ampliati attraverso l’inclusione, nella proposta definitiva, dei rimborsi delle spese sostenute dal lavoratore distaccato in caso di trasferte e spostamenti, rispetto al posto di lavoro nel Paese di destinazione, connessi, quindi, allo svolgimento della prestazione.

 

Trova conferma, nel testo approvato dal Consiglio, la definizione delle tariffe minime salariali che gli Stati Membri si impegnano a riconoscere (anche) ai lavoratori distaccati, in cui rientrano tutti gli elementi della retribuzione individuati come obbligatori secondo la legislazione nazionale ovvero i contratti collettivi universalmente applicabili nello Stato di destinazione, salva l’applicazione di termini e condizioni più favorevoli. Si precisa, inoltre, che le indennità, erogate specificatamente ai lavoratori distaccati, sono da considerarsi parte della retribuzione, a meno che non siano state corrisposte a titolo di rimborso spese.

 

Tale previsione è corredata dall’obbligo di pubblicità, sui siti internet ufficiali degli Stati Membri, delle informazioni riguardanti gli elementi retributivi e, più in generale, le condizioni lavorative applicabili in via obbligatoria. Il Consiglio, coerentemente con la logica restrittiva della proposta, ha inoltre ricondotto al mancato adempimento di tale obbligo l’applicazione di eventuali sanzioni in sede di procedura di infrazione rispetto al recepimento della Direttiva.

 

Mentre viene meno l’estensione del principio di parità di trattamento anche in caso di subappalto del servizio, come, diversamente, contemplato nella proposta originaria, ne viene, invece, confermata l’operatività anche in caso di distacco transnazionale di lavoratori inviati in missione, in un diverso Stato Membro, da un’agenzia per il lavoro, coerentemente con il disposto di cui all’art. 5 della Direttiva 2008/104/CE in materia di somministrazione.

 

Viene chiarito, inoltre, che l’applicazione di tale principio, in caso di lavoratori somministrati, comprenda il riconoscimento al lavoratore distaccato di tutte le condizioni specifiche prescritte dalla normativa nazionale in materia di somministrazione del Paese di destinazione, che, in aggiunta, l’impresa utilizzatrice ha l’obbligo di comunicare all’agenzia distaccante del Paese di invio.

L’onerosità e la rilevanza delle novità prefigurate dalla proposta legislativa, nell’ultima versione approvata dal Consiglio, hanno suggerito l’opportunità di estendere a tre anni dall’entrata in vigore della Direttiva il termine per il relativo recepimento da parte degli Stati Membri, e a quattro quello per la concreta applicazione, a livello nazionale, delle misure ivi previste. Viene escluso dall’ambito operativo di tale disciplina il settore dei trasporti, soggetto, per le sue peculiarità, a specifiche norme contenute nella Direttiva 2006/22/CE, di cui si annuncia la revisione.

 

Arianna D’Ascenzo

Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Bergamo

@a_dascenzo

 

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Distacco comunitario. La lunga marcia verso la modifica della Direttiva 96/71/CE
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