D.d.l. Lavoro e dimissioni per “fatti concludenti”: note critiche sull’automatismo legale

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Bollettino ADAPT 20 novembre 2023, n. 40
 
A quanto consta, parrebbe ripreso il cammino del secondo rilevante atto dell’Esecutivo in ambito lavoristico (dopo il d.l. 4 maggio 2023, n. 48, c.d. “decreto lavoro”, convertito in l. 3 luglio 2023, n. 85). Pare, infatti, che il nuovo DDL Lavoro sia stato già approvato in Consiglio dei Ministri il 1° maggio scorso, “bollinato” dalla Ragioneria di Stato e trasmesso, il 6 novembre, alla Camera dei Deputati, per la prima lettura in Commissione Lavoro.
 
Fra le norme componenti il documento, di particolare interesse risulta l’art. 9, a sua volta modificativo dell’art. 26 del d.lgs. 14 settembre 2015, n. 151, disposizione che, come noto, per le dimissioni e/o risoluzioni consensuali aventi decorrenza dal 12 marzo 2016 (Cfr. Ministero del Lavoro, circolare 4 marzo 2016, n. 12), al fine di «garantire data certa nonché l’autenticità della manifestazione di volontà» (v. art. 1 c. 6 lett. g) l. 10 dicembre 2014, n. 183), nè impone una forma “vincolata”, da rendersi, a pena d’inefficacia, esclusivamente con modalità telematica, su apposito portale istituzionale (www.cliclavoro.gov.it).
 
Prima di analizzare il contenuto della (tanto auspicata) nuova disposizione (art. 26, comma comma 7-bis), va detto che, a latere datoris, le istanze di correzione della norma sono, da tempo, sollecitate e poggiano, essenzialmente, sugli effetti “collaterali” causati dalla medesima, che prestano il fianco a comportamenti, per così dire, opportunistici, da parte dei lavoratori.
 
In particolare, derogando al principio generale di libertà delle forme (art. 1325 c.c.) e prevedendone, senza eccezioni, una tipica, la nuova disciplina consentirebbe al dipendente, non più interessato al posto di lavoro, anziché di prodigarsi nella disciplinata procedura, di scegliere la via dell’inadempimento contrattuale, cioè astenersi dalla prestazione lavorativa, in attesa di ricevere il licenziamento disciplinare ex art. 2119 c.c. o art. 3 l. 15 luglio 1966, n. 604 (sostanzialmente, per assenza ingiustificata); il che, diversamente dalle ipotesi di recesso intenzionale, avrebbe il grande “vantaggio” di realizzerebbe il requisito della perdita involontaria dell’occupazione, indispensabile ai fini dell’accesso alla NASPI (v. art. 3 del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 22).
 
La precedente versione dell’art. 26 del d.lgs. n. 151 del 2015 aveva causato non pochi problemi ai datori di lavoro, primo tra tutti una serie di costi e/o incertezze gestionali tutt’altro che trascurabili: in caso di avvio dell’iter disciplinare e di conclusione del medesimo con la sanzione del licenziamento per assenza ingiustificata, infatti, il datore di lavoro avrebbe dovuto sopportare, oltre il costo del c.d. ticket NASPI, da versare a INPS, ex art. 2 c. 31 l. 28 giugno 2012, n. 92 (per il 2023, pari a un massimo di € 1.809,30), anche l’alea di vedersi impugnato l’atto di estromissione e di dover pure dimostrare, in giudizio, la legittimità della stessa. Anche laddove si fosse optato per la strategia del “congelamento” del rapporto, facendo cioè leva sulla natura corrispettività dello stesso e sull’interesse del lavoratore, nel medio periodo, a vedersi liquidare le competenze già maturate (in genere, la retribuzione c.d. “differita” e, su tutti, il trattamento di fine rapporto), il datore di lavoro avrebbe corso, oltre al rischio di “ripensamento” e, dunque, di un indesiderato rientro in servizio, anche di dover meditare il problema dell’autonomia del rapporto contributivo rispetto a quello retributivo (ex multis, Cass. 10 agosto 2020, n. 16859), con l’eventualità di vedersi avanzare pretese impositive da parte di INPS, nonostante l’effettiva “sospensione” del sinallagma (sul punto, tuttavia, ci limitiamo ad evidenziare che se, da un lato, è certamente vero che al concetto di retribuzione “virtuale” introdotto dall’art. 1 d.l. 9 ottobre 1989, n. 338, consegue che «finanche la forza maggiore […] pur potendo liberare il lavoratore dall’obbligo della prestazione ed il datore di lavoro dall’obbligo di corrispondere la retribuzione, non acquista rilevanza ai fini della determinazione dell’obbligazione contributiva, se non in quanto vi sia una clausola del contratto collettivo di settore che attribuisca alla “forza maggiore” la qualità di causa di sospensione del rapporto di lavoro» – così Cass., 5 luglio 2023, n. 18954 -, dall’altro, è altresì corretto rilevare, come si dirà anche infra, che la c.d. “assenza ingiustificata”, risulta generalmente tipizzata dai C.C.N.L., proprio quale ipotesi di liberazione dell’obbligo retributivo e, conseguentemente, insuscettibile di prelievo previdenziale).
 
Peraltro, a supplire l’indiscutibile lacuna normativa, neppure può dirsi intervenuto, nelle more, un valido supporto sul fronte giurisprudenziale, posto che, le fattispecie fraudolente sopra menzionate, risultano – allo scrivente – trattate in modo diretto, da due sole pronunce del Tribunale di Udine.
 
Una prima pronuncia (Trib. Udine, 30 settembre 2020, n. 106) accerta che la dolosa assenza del lavoratore e il conseguente licenziamento, possono essere valutate alla stregua del tipico vaglio delle azioni risarcitorie ossia, nella sostanza, appurando come la condotta omissiva di procedere al deposito delle dimissioni nelle modalità stabilite dall’art. 26 integri il “danno-evento”, mentre il ticket NASPI, rappresenti il “danno-conseguenza”. Una seconda pronuncia, invece, decisamente più di interesse, del 31 gennaio 2022, verteva sull’inerzia del lavoratore a dimettersi, assente dal lavoro per oltre 6 mesi, anche dopo esplicito invito del datore di lavoro a recedere dal contratto.
 
Nell’occasione, per giustificare la ritenuta validità delle dimissioni comunicate per “fatti concludenti”, il Tribunale si serviva di due essenziali argomentazioni: (a) che l’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 26, fosse, in realtà, limitato alle “manifestazioni istantanee” e che, per questo, non potesse pregiudicare la possibilità di rilevare una risoluzione del rapporto attraverso «manifestazioni di volontà continuata e/o incardinata in più gesti sostanziali» (Così F. Capurro, La cessazione del rapporto di lavoro per volontà del lavoratore tra forme vincolate e comportamenti concludenti: un apparente cortocircuito, giustiziacivile.com, 5 settembre 2022); (b) che la legge delega prevedesse espressamente la «necessità di assicurare la certezza della cessazione  del rapporto nel caso di comportamento concludente» (v. art. 1 c. 6 lett. g) l. 10 dicembre 2014 cit.) e, pertanto, muovendo da tali principi e criteri guida, ancorché rimasti inespressi, si dovesse fornire un’interpretazione costituzionalmente orientata rispetto agli artt. 38 e 41 Cost. (soluzione già anticipata, su questo Bollettino da C. Mogavero, Nuova procedura delle dimissioni on line: una diversa lettura delle norme, in Bollettino ADAPT 15 marzo 2016).
 
Ciononostante, tale e pur suggestiva ricostruzione, oltre a restare “isolata”, non ha nemmeno trovato conforto nei più recenti approdi della Corte di Cassazione, la quale, al contrario, in presenza di modalità di recesso ex lege predeterminate, pare orientata a escludere ogni margine di valutazione circa gli effetti scaturenti da condotte e/o intenzioni palesate, fattualmente, dal prestatore di lavoro (riguardo all’art. art. 55 d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, v. su questo Bollettino, F. Avanzi, Le dimissioni della lavoratrice madre in periodo “protetto”: dalla Cassazione, spunti di riflessione sui vincoli di “forma” dell’atto di recesso, in Bollettino ADAPT 17 aprile 2023 invece, proprio sull’art. 26 d.lgs. 14 settembre 2015 cit., v. Cass., 26 settembre 2023, n. 27331).
 
Sicché, non può che ritenersi del tutto comprensibile l’iniziativa legislativa in commento, la quale, come anticipato, prevede, per l’art. 26, l’aggiunta del seguente comma: «7-bis. In caso di assenza ingiustificata protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a cinque giorni, il rapporto si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina di cui al presente articolo».
 
Tuttavia, quello che appare come un costrutto giuridico di assoluto “buon senso”, ad avviso di chi scrive, invece, si presenta come una disposizione fonte di equivoci e criticità, tutte, per giunta, riconducibili al medesimo vizio di fondo ossia non tenere, in debito conto, le implicazioni derivanti da concetti e principi fruiti nella formulazione letterale del testo. A cominciare dell’utilizzo, senza declinarla, della nozione di “assenza ingiustificata”, la quale, lungi dal costituire una definizione “astratta” (Cfr. Cass., 8 novembre 2017, n. 26465), rappresenta, piuttosto, una fattispecie complessa di natura contrattual-collettiva, dipendente, oltre che dalla mancanza di prestazione, anche da obblighi di tempestiva comunicazione dell’assenza, variamente tipizzati dalle parti sociali (sugli elementi costitutivi, Cass., 3 febbraio 2023, n 3363). Dal che discendono diverse questioni da risolvere, come, per esempio, a cosa si alluda con la locuzione «oltre il termine previsto dal contratto collettivo», cioè se si voglia far riferimento al numero di assenze che, secondo il CCNL, già legittimano il licenziamento “con preavviso”, oppure se debba intendersi, con riguardo esclusivo, a quelle che, per norma pattizia, concretizzano la “giusta causa” di recesso (a esempio, il CCNL Metalmeccanici Industria, prevede il licenziamento ex art. 2118 c.c. per «f) assenze ingiustificate prolungate oltre 4 giorni consecutivi o assenze ripetute per tre volte in un anno nel giorno seguente alle festività o alle ferie»).
 
Detto che in mancanza di definizione legale e nell’eventuale silenzio dell’autonomia collettiva, il problema non potrebbe che acuirsi, dalla disposizione deriverebbe poi, a livello sistematico, un ulteriore e distonico effetto: infatti, da un lato, nella prospettiva del licenziamento, un certo numero di assenze ingiustificate, continuerebbe a fungere da “scala valoriale”, utile al giudice, quale mero parametro cui far riferimento per riempire di contenuto le clausole generali di recesso (Cass., 23 maggio 2019, n. 14063); dall’altra, in ottica delle dimissioni, andrebbero a costituire quei rigidi automatismi legali, i.e. “clausole risolutive espresse”, da sempre avversate nelle giurisprudenza di legittimità.
 
E il pericolo avvertito in tali meccanismi è di immediata cognizione posto che, acconsentire di «attribuire a determinati comportamenti del lavoratore il valore ed il significato negoziale di manifestazione implicita o per facta concludentia della volontà di dimettersi, senza possibilità di prova contraria[, comporterebbe anche, di fatto, che] tutta la disciplina legislativa limitativa dei licenziamenti, che ha progressivamente allontanato il rapporto di lavoro dagli ordinari principi sull’estinzione dei rapporti obbligatori, sarebbe inutiliter data» (Cass., 2 luglio 2013, n. 16507).

 
Nella sostanza, la norma finirebbe per scuotere equilibri di “sistema”, sostituendo, in caso di inadempimento contrattuale, agli ordinari rimedi del mancato pagamento della retribuzione e dell’eventuale reazione “disciplinare” (Cfr. Cass., 27 marzo 2023, n. 8656), un surrettizio potere di recesso, in sfregio ai principi di eguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., poiché immune, nonostante la brevità dei periodi previsti («cinque giorni» o anche meno, v. C.C.N.L. Metalmeccanici cit.), da qualsivoglia sindacato di congruità e/o proporzionalità (in questo senso, particolarmente utile sembra quanto osservato in C. Cost, 23 giugno 2020, n. 123 sull’art. 55-quater c. 1 lett. a) d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165).
 
Concludendo, in ragione di quanto sinteticamente precede e volendo fornire qualche soluzione alternativa, ben sarebbe da preferire un “ritorno” a un modello similare a quello già sperimentato con l’art. 4 c. 17 e ss. l. 28 giugno 2012, n. 92. Infatti, la disciplina prescritta dalla Legge Fornero, senza prevedere automatismi e servendosi, piuttosto, dello schema civilistico dell’avveramento della condizione (artt. 1358 e ss. c.c.), tipizzava, ai fini della risoluzione del rapporto, uno specifica condotta del lavoratore, inequivocabilmente espressiva della sua volontà di concludere il contratto («19. Nell’ipotesi in cui la lavoratrice o il lavoratore non proceda alla convalida di cui al comma 17 ovvero alla sottoscrizione di cui al comma 18, il rapporto di lavoro si intende risolto, per il verificarsi della condizione sospensiva, qualora la lavoratrice o il lavoratore non aderisca, entro sette giorni dalla ricezione, all’invito a presentarsi presso le sedi di cui al comma 17 ovvero all’invito ad apporre la predetta sottoscrizione, trasmesso dal datore di lavoro, tramite comunicazione scritta, ovvero qualora non effettui la revoca di cui al comma 21») ovvero, per dirla come la costante giurisprudenza formatasi in tema di dimissioni per “fatti concludenti”, un comportamento tale «da esternare esplicitamente, o da lasciar presumere (secondo i principi dell’affidamento), una sua volontà di recedere dal rapporto di lavoro » (fra le molte, Cass.,10 ottobre 2019, n. 25583).
 

Federico Avanzi

ADAPT Professional Fellow

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